Perdono

Perdono o vendetta: tu cosa scegli?

cuore

di Michela Giordano

Vendicarsi aiuta davvero a liberarsi dalla rabbia? Una ricerca scientifica dice di no. Ancora una volta trionfa la sapienza cristiana del “porgi l’altra guancia”.

“Perdonare è meglio”. È il titolo di un interessante approfondimento che sono riuscita a leggere, su una delle riviste scientifiche tanto care a mio marito, con inusitata calma: da quasi 4 anni, da quando sono mamma, è quasi un’impresa riuscire a tenere tra le mani un testo che non sia una favola, una rima di Peppa pig o le istruzioni di qualche gioco da assemblare. A sorpresa, mentre mi accingevo a buttar via la pila di riviste (l’articolo in questione è di febbraio), l’occhio mi è caduto su queste parole: “La vendetta non è soluzione giusta per ristabilire la pace. È preferibile passarci sopra. Lo dice la scienza”. 

Ho strappato le pagine in questione, le ho fissate, con una calamita, sul frigorifero (come faccio per tutto ciò che, di interessante, rimando a “quando ho tempo”) e, dopo appena tre giorni sono riuscita a godermele. Ne faccio un sunto, perché davvero trovo sia una riflessione utile. Quando subiamo un torto, la percezione immediata è che abbiamo diritto ad un risarcimento e che l’unico modo per ristabilire l’equilibrio sia la vendetta. Negli ultimi anni, invece, la ricerca scientifica ha scoperto quello che la maggior parte delle religioni suggerisce da tempo: perdonare. Dalla letteratura greca (Paride rapisce Elena e scoppia la guerra di Troia) passando dal Conte di Montecristo, fino al cinema moderno (Kill Bill, ad esempio), la vendetta costituisce un espediente narrativo molto prolifico. Per mio conto, devo ammettere che appartengo alla scuola del “piatto che va servito freddo”: di solito aspetto che il fiume mi porti davanti il cadavere del nemico e lì mi prendo l’ultima parola. Non riflettendo abbastanza sul fatto che la vendetta, in realtà, è un boomerang, un’escalation di violenze che, non di rado, provoca anche vittime collaterali. 

C’è di più: non è vero che essa permetta di placare il risentimento, ma esattamente il contrario. Lo psicologo Brad Bushman sostiene che sfogare la rabbia, in realtà, la alimenti, dando vita ad una sorta di “paradosso”: vendicarsi non dà sollievo, ma amplifica i sentimenti negativi, favorendo, alla lunga, disturbi ansiosi e depressivi. Secondo questo filone di pensiero, il “porgi l’altra guancia” cristiano assume un significato tutto nuovo, non già passivo, sinonimo di sottomissione, ma attivo, proprio di chi è “forte”. 

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Sembra facile. A me non riesce con automaticità. Ci sto lavorando. Devo dire che mi aiuta la mia proverbiale pigrizia: a volte sono così indolente che mi stanca il solo pensiero di dover impiegare energia per “fare questioni” e lascio correre. Non mi riconosco nella litigiosa attaccabrighe di 10 anni fa. Nel mio caso, dunque, non c’è nulla di “percorso personale”, nella volontà di rinunciare alla vendetta, direi, piuttosto, di “scelta utilitaristica”, più “accantonare” che “perdonare”. Ma tant’è. L’esempio, comunque, aiuta. 

La giornalista inglese Marina Cantacuziono, a partire dal 2004, ha iniziato a raccogliere, con riferimento alla guerra in Iraq, storie di persone che, colpite da gravi episodi di terrorismo o violenza, hanno deciso di perdonare e andare avanti. Ne è nata una mostra fotografica di successo. L’organizzazione fa capo al sito theforgivenessproject.com. Chi viene a contatto con il progetto viene, semplicemente, invitato a leggere o ad ascoltare i racconti di chi ha perdonato. Io l’ho fatto e, devo dire, che mi sono sentita piccola piccola: auguro, a volte, il peggiore dei mali a chi mi frega il posto al parcheggio e poi ci sono madri che hanno perdonato chi ha ucciso loro un figlio. Non si finisce mai di ammirare.




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