XVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 4 agosto 2019

Cercare e pensare le cose del cielo

Dobbiamo nutrire ideale alti, spingere le nuove generazioni a sognare in grande con Dio, a mettere a frutto le proprie energie per progetti belli, giocarsi l’avventura della propria esistenza, puntando il tutto per tutto, senza sconti.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (3,1-5. 9-11)
Cercate le cose di lassù, dove è Cristo
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria.
Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato.
Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.

 

Il tema dominante della liturgia odierna è il rapporto con i beni di questo mondo. Nel suo cammino verso Gerusalemme, Cristo ammaestra i suoi, offrendo le indicazioni essenziali per vivere nella sua alleanza e testimoniare ai fratelli il primato dell’amicizia con Lui. La relazione preferenziale che la scelta della sequela istaura con il Maestro comporta che per il discepolo tutto è secondario rispetto “alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore” (Fil 3). Il rapporto con la ricchezza, se non ben compreso e vissuto, comporta una vita in se stessa divisa, scandita dal compromesso tra la priorità di Dio ed il regno di Mammona. Per questo il Signore ammonisce i suoi a stare ben saldi, visto che “Nessuno può servire due padroni”.
Il brano del Vangelo (cf. Lc 12,13-21) presenta proprio l’insegnamento di Gesù, a partire dal racconto dell’Evangelista sulla richiesta fatta al Signore da un uomo, perché il fratello divida con lui l’eredità. Questa occasione porta il Maestro a fermare l’attenzione su come il discepolo debba considerare le sostanze di questa terra. La parabola dell’uomo ricco che ammassa nei suoi magazzini e a cui, quella stessa notte, viene richiesta la vita diventa l’emblema di coloro che accumulano tesori per sé, senza arricchirsi davanti a Dio. La Prima Lettura, tratta dal libro di Qoèlet (cf. 1,2; 2,21-23), rappresenta la rilettura sapienziale della caducità di tutto ciò che è temporale. Il termine vanità, su cui si impernia la riflessione dell’autore ispirato, nella sua accezione ebraica, vuol dire soffio, inconsistenza, nulla. Tutto ciò che è temporale è effimero, per questo il salmista canta “Mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (Sal 89). Per giungere alla sapienza del cuore e saper profittare del tempo presente, è necessario, ricorda l’autore della Lettera ai Colossesi, nel brano offertoci come Seconda Lettura (Col 3,1-5. 9-11), cercare “le cose di lassù, dove si trova Cristo, assiso alla destra di Dio”. Lungi dal voler fuggire dalla storia, collaborando alla trasformazione del mondo, il cristiano sa bene che nel disegno del Creatore tutto è cosa buona, ma bisogna imparare a usare dei beni di questa terra perché ogni uomo abbia il necessario alimento e viva nella dignità e nella gioia di essere immagine e somiglianza di Dio.

Vivere da risorti

Anche questa domenica la liturgia attinge dalla Lettera ai Colossesi per imbandire la mensa della Parola, che nutre il nostro pellegrinaggio terreno. È questo l’ultimo brano che ci viene offerto, visto che, dalla prossima domenica, leggeremo delle pericopi tratte dalla Epistola agli Ebrei. Ad una attenta lettura ci si rende conto dell’armonia che la liturgia ci dona di sperimentare: mentre il Vangelo e la Prima Lettura ci parlando delle necessità di relativizzare i beni della terra, la Lettera ai Colossesi ci porta a considerare le realtà del cielo e a vedere ogni cosa nella luce dell’eternità di Dio.
Il nostro brano (cf. Col 3,1-5. 9-11) è tratto dalla terza parte dell’Epistola, dal tenore marcatamente esortativo (cf. Col 3,1-4,6). Dopo avere riaffermato il primato di Cristo, nella sezione dottrinale (cf. Col 1,15-2,5) e aver messo in guarda i Colossesi da particolari errori presenti nella comunità (cf. Col 2,6-23), l’autore richiama l’attenzione dei cristiani su alcune norme morali da tenere in giusta considerazione, per vivere in Cristo, la vita nuova che il Battesimo ci ha gratuitamente elargito. Scrive, infatti, “se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra” (v. 1). Cosa significa l’uso del periodo ipotetico da parte dell’autore? Forse che il cristiano non è risorto con Cristo Gesù, partecipe della sua vita nuova? In realtà, l’uso del condizionale non sta a dire che la rinascita spirituale non sia avvenuta, ma serve a porre l’accento sulla responsabilità a corrispondere al dono di grazia da parte di Dio nei nostri riguardi. Spetta all’uomo rendere operante, attraverso la propria docile ed incondizionata accoglienza, la potenza della Resurrezione del Signore. Egli sta alla porta e bussa, ma solo se gli si apre potrà entrare ed essere il nostro Salvatore. L’autore dicendo “se siete risorti con Cristo” vuole che i Colossesi diano l’assenso della fede e la disponibilità della mente e la docilità del cuore alla grazia del Risorto. Nulla bisogna dare per scontato, perché dobbiamo continuamente chiederci a che punto siamo arrivati nel cammino di assimilazione della vita di Cristo ed in che modo la forza del suo Spirito ci sta cambiando in profondità.

Chiediamoci: siamo veramente risorti con Cristo? La forza dell’amore del Padre ha fatto passare anche noi dalla morte alla vita? Viviamo e ci muoviamo in un corpo che ancora conosce i pesi del peccato deliberatamente scelto, oppure camminiamo nella vita nuova, in un itinerario di autentica e progressiva conversione? Possiamo dire che vivere da risorti, di mettere ogni giorno a morte l’egoismo, di calpestare l’orgoglio, di combattere la superbia, di vincere la presunzione? La vita che viviamo è di Cristo oppure del Signore glorificato ha solo la parvenza? La resurrezione, come vittoria sul male, sentiamo che scorre nelle nostre vene come sangue che vivifica e nutre ogni tessuto del nostro corpo familiare e comunitario? Viviamo la tensione tra la forza di Cristo Signore e la nostra debolezza ed i nostri limiti? Avvertiamo in noi il fascino del male e cerchiamo, con la grazia di Dio, di non assecondarlo per non cadere nelle sue maglie mortifere? Nel peccato, ricorriamo al Medico divino, perché ci ridoni la vita nuova della misericordia e del perdono, con l’umiltà di chi si riconosce bisognoso del suo aiuto?

La tensione della vita cristiana sta tutta in quel cercare di cui parla l’Epistola – “cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo” – perché è questa la prova della vita nuova che sperimentiamo, del custodire nel nostro corpo mortale la caparra dello Spirito della resurrezione, che ci fa passare continuamente dalla morte del nostro peccato alla vita nuova del Signore, dalla schiavitù del demonio alla signoria liberante di Cristo salvatore. La novità di vita, dono dello Spirito, abilita il credente che è innestato in Lui, come il tralcio alla vite, a fare frutti abbondanti di opere sante, di carità operosa, di solidarietà concreta. Come “Se uno è in Cristo è una creatura nuova” (2Cor 5,17), così “se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù”. C’è, infatti, una sorta di consequenzialità tra l’essere in Cristo e l’operosità del cercare le realtà celesti, visto che “Chi dice di rimanere in lui, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato” (1Gv 2,6). Quando abita in noi lo Spirito di Gesù, ciò che opera la sua potenza trasformante e trasfigurante è la conformazione a Lui, il Crocifisso risorto, il Figlio in tutto obbediente al Padre, che ricerca la sua volontà, che vive nella sua alleanza, che testimonia agli uomini la bellezza del volto raggiante del Padre, che sul suo volto risplende. Cercare indica una tensione del cuore, un’aspirazione della mente, un diletto dell’anima, un desiderio struggente nel petto, un proposito fermo della volontà, significa che noi non abbiamo altro senso nella vita che vivere protesi verso un ideale che non è astratto, ma concretissimo, Gesù Cristo Signore Nostro. Il cristiano è l’uomo del desiderio, avvinto dalla nostalgia della bellezza che Cristo gli presenta, con la sua stessa vita, vissuta nell’amore e nel dono, si strugge al solo pensiero di vivere come Lui, di misurarsi con Lui, non per eguagliarlo o superarlo – come si possa competere con il Figlio di Dio fatto uomo? Sarebbe solo segno di superbia e tracotanza – ma per lasciare che lo Spirito amore renda in noi l’immagine e la somiglianza con il Diletto ancora più viva e penetrante, vera e trasformante. Per questo l’Apostolo vive nella stessa tensione e, consapevole che il cammino di assimilazione a Cristo non è terminato per lui, così scrive ai Filippesi “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averlo conquistato. So soltanto questo: dimentico di ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3,12-14).

Guardare le cose di lassù

Siamo chiamati a cercare le realtà celesti, con l’ansia amorosa della sposa del Cantico, che fa il giro della città, dicendo a se stessa “voglio cercare l’amore dell’anima mia” (Ct 3,2); cercare il Signore con la volontà decisa del buon pastore che “va in cerca di quella [pecora] perduta, finché non la trova” (Lc 15,5); cercare il Signore come Maria di Magdala, che non si allontana dal sepolcro, finché non incontra il Risorto; cercare con l’insistenza della vedova, che chiede ripetutamente al giudice che gli faccia giustizia. Il discepolo con il salmista dice “a chi cerca il Signore non manca alcun bene” (Sal 34,11) e con Paolo confessa “io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse, ma quello di molti, perché giungano alla salvezza” (1Cor 10,33). Gli esempi che abbiamo nella Scrittura, se, da un lato, ci aprono il cuore, spingendoci a vivere nella ricerca costante di Dio e del suo progetto di amore, emulando gli esempi positivi di uomini e donne sagge, dall’altro, ci spingono a non lasciarci imbrigliare il cuore dalle realtà della terra, perché la nostra ricerca non venga bloccata ed il seme della Parola impedito nel produrre frutto. Questo vuol dire che dobbiamo sì cercare, visto che la nostra vita non è mai così perfetta da non aver bisogno di nulla, ma l’oggetto della nostra ricerca deve essere Cristo, ciò che veramente appaga il nostro cuore, perché è Lui che noi cerchiamo, quando ci ubriachiamo. Dobbiamo, infatti, non fermare la nostra ricerca alle cose che passano, ma a quelle che restano. Per questo Gesù ci ammonisce “Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dover ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,19-21). Eppure, le ricchezze della terra, sotto l’istigazione del demonio, ci attirano e seducono. Una volta che la nostra mano, come quella di Eva, ha preso per sé il frutto dell’albero, mangiandone, quando il nostro cuore se ne è appropriato, proprio allora, che dovremmo sperimentare la felicità nel possesso, viviamo la tristezza più grande, l’alienazione più disumanizzante. Allora il peccato smaschera il suo inganno e l’uomo stringe tra le mani una falsa gioia, mentre un senso di fallimento amaro assapora il cuore. Lo ricordava Benedetto XVI: “L’uomo è spesso tentato di fermarsi alle cose piccole, a quelle che danno una soddisfazione ed un piacere “a buon mercato”, a quelle che appagano per un momento, cose tanto facili da ottenere, quanto ultimamente illusorie. […] Dio solo basta. Lui solo sazia la fame profonda dell’uomo. Chi ha trovato Dio, ha trovato tutto. Le cose finite possono dare barlumi di soddisfazione o di gioia, ma solo l’infinito può riempire il cuore dell’uomo: “inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te – il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te” (Sant’ Agostino, Le Confessioni, I, 1.). L’uomo, in fondo, ha bisogno di un’unica cosa che tutto contiene, ma prima deve imparare a riconoscere, anche attraverso i suoi desideri e i suoi aneliti superficiali, ciò di cui davvero necessita, ciò che veramente vuole, ciò che è in grado di soddisfare la capacità del proprio cuore».” (Messaggio al XXXIII Meeting per l’amicizia trai popoli – Rimini 19-25 agosto 2012).

Si vive nella tensione, come un arco sempre teso, pronto a ricevere la freccia da far scoccare, dritta verso il bersaglio. Che senso ha vivere una vita senza tensione, un’esistenza priva di passione, il proprio tempo senza un ideale da incarnare, un desiderio da perseguire, un sogno da realizzare? La vita cristiana è una continua ricerca e così deve essere, visto che vita in motu, dicevano i latini, è il movimento a scandire la nostra esistenza. Chi sei ferma è perduto, dice ancora un altro adagio. Bisogna però evitare sia la corsa frenetica di Marta, “distolta per i molti servizi” (Lc 10,40), così come quella senza senso degli ignavi, che non sanno neppure loro perché corrono e dove sono diretti. Cercare significa essere protesi, avere un cuore carico di speranze, non lasciarsi frenare dalle cose della terra, tenere alto il desiderio di costruire in questo modo la civiltà dell’amore che nell’altro sarà un puro dono di grazia. Dobbiamo nutrire ideale alti, spingere le nuove generazioni a sognare in grande con Dio, a mettere a frutto le proprie energie per progetti belli, giocarsi l’avventura della propria esistenza, puntando il tutto per tutto, senza sconti. L’accontentarsi non è per il cristiano, una cosa è accogliere le contraddizioni della storia, oltre che della propria vita, altra cosa è farsi vincere e livellare dalla realtà, nel desiderio di collaborare, con sapiente prudenza, perché il mondo si apra alla potenza della Resurrezione di Cristo.
Il discepolo del Signore è chiamato a cercare e pensare le cose del cielo, a fissare lo sguardo verso Cristo, che siede glorioso, alla destra di Dio, perché è questa la meta alla quale bisogna tendere, nel quotidiano impegno a costruire tra gli uomini il regno di Dio. Se abbiamo nel cuore la signoria di Cristo, se viviamo intimamente uniti a Lui, tante cose passeranno in secondo piano, altre verranno meglio vissute, nell’offerta e nel sacrificio, perché crescerà in noi la consapevolezza che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28). Il cristiano procede nel mondo, sapendo che quando Cristo sarà manifestato, allora anche noi appariremo con Lui nella gloria. Siamo, infatti, di Dio nel tempo e nell’eternità e nulla e nessuno può rompere la comunione tra il Risorto e quanti credono nella potenza della sua Pasqua, che agisce, come forza di amore, nella sua Chiesa, per la trasformazione del mondo.

Chiediamoci: quali sogni abbiamo ancora nel cassetto? Siamo ancora capaci di sognare oppure la vita, con le tante esperienze di fallimento, ci ha condotti a non credere più in nulla, deponendo in barca i remi, un tempo usati per avventure grandi? Perché ci lasciamo vincere dallo scoraggiamento, dopo una difficoltà? Nel fallimento sperimentato,perché non riusciamo ad analizzarne la dinamica che ci ha condotti alla resa? Attuiamo un sano discernimento su cosa cercare, come cercare e quale posta è necessario mettere in gioco?In famiglia, nella vita di coppia, siamo ancora capaci di tendere all’ideale promesso nel sacramento nuziale? Nella vita sacerdotale e religiosa, ricordiamo il dono smisurato della grazia divina, che ci abilita a vivere per gli altri, rendendo presente tra gli uomini la sua forza di resurrezione? Che fine hanno fatto i desideri e le speranze che ci hanno spinti a scegliere la via ardua del matrimonio o della consacrazione come nuova strada, che approfondendo il battesimo, ci conduce a Dio? Cosa limita la grazia, depotenzia la Parola di Dio, argina le grandi acque dell’amore, riduce i desideri che lo Spirito mette in noi come promessa di beni eterni, a cui aspirare? Siamo in tensione verso cosa? È Cristo la nostra meta? Procediamo con quale forza? È lo Spirito del Risorto la nostra energia? Con chi procediamo, nella corsa? Lasciamo delle persone alle spalle oppure cerchiamo, con la grazia di Cristo, di camminare insieme, accogliendo le lentezze e non scoraggiandoci?

Una battaglia continua contro se stessi

Dopo che i primi versetti del nostro brano (1-4) sono incentrati ad illustrare la realtà di fede, che si professa dal Battesimo e che ogni credente è chiamato a vivere, nella forza dello Spirito Santo, la seconda parte, che unisce versetti differenti (5. 9-10) è, invece, un’accorata esortazione, perché quanto si crede determini una vita totalmente orientata a Dio. Proprio perché il discepolo di Cristo cerca e pensa al cielo – non per estraniarsi dal reale, ma per vedere tutto in Dio e ricevere da Lui la forza nel vivere il primato dell’amore – il suo impegno primario è quello di far “morire ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria” perché “svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni […]il nuovo […]si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato” (v. 5.9-10). Se riuscissimo a comprendere che ogni vero cammino di fede inizia dal rinnegamento della propria volontà! Se capissimo sul serio che non ci possono essere compromessi nella vita cristiana e come non si può mettere un pezzo di stoffa nuova su un vestito vecchio o anche non si versa vino nuovo in otri vecchi, così la novità di vita del Risorto non può innestarsi in un cuore che non ha ricevuto il battesimo di acqua e di fuoco, che ha lavato le brutture del peccato e ha temprato, alla fiamma del suo Spirito, la confidenza delle intenzioni del cuore. Quando gli sposi compaiono davanti all’altare, l’abito che la sposa indossa ricorda la veste candida del battesimo, quasi a ricordare agli sposi che non si può iniziare una vita insieme, senza riprendere l’impegno di svestire l’uomo vecchio e lasciare allo Spirito che faccia apparire in noi i lineamenti del Cristo. Perdiamo di vista tante volte che la misericordia che il Signore ci accorda, oltre a togliere il nostro peccato, rinsalda la nostra amicizia con Cristo, corazzandoci nel combattimento contro il nostro egoismo. Il rinnegamento di noi stessi è un cammino progressivo, non possiamo credere che tutto si consumi in breve tempo, quando, invece, questo comporta un impegno indefesso, una prudenza continua, unita ad una incondizionata docilità allo Spirito del Signore. Anche nella vita di coppia, quante energie si perdono a combattere contro l’altro, mentre, invece, il vero nemico della vita insieme è il proprio egoismo, che mina alle radici l’amore promesso e chiude in una ricerca personale di una felicità, che non è quella scelta e voluta insieme.

Il lavoro che il Signore ci chiede in questo tempo di ferie, ritagliandoci spazi di preghiera e di riflessione, per riprogrammare il nuovo anno come coppia ed in famiglia, è quello di avvertire l’urgenza di comprendere che la vera ricchezza di cui liberarci, perché è questa la zavorra che impedisce di camminare liberi, è il nostro io malato di autoreferenzialità. Solo quando comprenderemo che il vero nemico della nostra vita è il nostro egoismo riusciremo a guardare insieme il Cielo, impegnandoci perché la potenza dell’amore di Dio ci plasmi il cuore, riempia la vita e, attraverso di noi, contagi i fratelli.




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