Santiago di Compostela

“Il nunc che ho imparato dal mio cammino verso Compostela”

Santiago di Compostela

di Gianni Mussini

In cammino verso Santiago di Compostela, non si può fare a meno di uscire da sé stessi, aprendo gli occhi sul mondo che così appare nuovo e ricco di senso.

Da ragazzo in autostop per le strade d’Europa sino in Scozia perché volevo vedere il mostro di Lockness anche se sapevo che non esiste, e poi in tanti altri luoghi, con due lire in tasca. Alle strette, mangiavo pane e miele con una pinta di latte. Dormivo all’aperto, concedendomi ogni tanto il lusso di una cameretta in qualche bed and breakfast. Incontravo gente di tutti i tipi: l’ungherese con una Fiat 850 blu sulla quale dimenticai il mio passaporto e che poi lo consegnò diligentemente alla polizia. La ragazza austriaca che la mattina, di fronte al fiordo immobile di Inverness – con gabbiani grandi come tacchini – mi offrì del the caldo preparato sul fornellino portatile. Lo jugoslavo (c’era ancora Tito) che condivise metà del suo panino con me, antico ‘nemico’ italiano. Lo scozzese un po’ yuppie che mi caricò sulla sua spider rossa e che delicatamente – trovandomi un po’ intirizzito – accese il riscaldamento senza bisogno che glielo chiedessi. Sino a quel mitissimo indù che – con un sorriso largo che non dimentico – mi diede l’ultimo strappo da Manchester sin nel cuore di Londra.

Ancora oggi se ripenso a quel vagabondare, senza meta e insieme con una meta, mi si appiccica addosso un senso di libertà e compiutezza: avevo in mente un progetto e nello stesso tempo lo realizzavo. Come nel nunc dell’Ave Maria, l’istante e l’eterno si condensavano nel viaggio e tutto il resto era una grazia: le amicizie, i paesaggi, la cultura dei luoghi, i visi che diventavano ben riconoscibili sguardi.

Qualcosa del genere ho provato, ma in modo ancor più ricco e maturo, nei 120 chilometri conclusivi del Cammino di Santiago di Compostela che mi è capitato di percorrere quest’anno con una bella e variegata compagnia (c’era anche un… ‘compagno’ debitamente ateo) guidata da un gran prete in filo diretto con lo Spirito Santo (si chiama don Emilio Carrera, è abate di San Lanfranco in un dolce paese che non dico).

Procedendo a piedi verso la meta agognata, si finisce per riflettere su se stessi e sulla vita. Due chiacchiere silenziose con quel Signore che da lassù durante il cammino sembra scendere più che mai sulla terra a consolarci, perdonarci, amarci come sempre e più di sempre. E poi una fitta conversazione con gli amici, che diventano sempre più amici e, anzi, amici per sempre per via di quella complicità cameratesca che si instaura tra chi condivide un’impresa, una fatica. Ma anche con i tanti compagni di avventura che s’incontrano per caso (per caso?) e che formano un vivacissimo caleidoscopio di lingue e tipi umani: sangue pulsante che permette una comunicazione vera, non quella – in tanti casi benedetta ma troppo spesso adulterata – che scorre sul web o sui nostri smartphone.

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E siccome tutti vanno, tutti camminano, non c’è tempo per il ripiegamento in se stessi, per quell’egoismo fiorito in narcisismo che pare il contrassegno più caratteristico dei nostri giorni. Durante il Cammino, infatti, non si può proprio fare a meno di uscire da sé, aprendo gli occhi sul mondo che così appare nuovo e ricco di senso. Si entra in un minuscolo borgo contadino, dove si trova una vecchietta in costume sotto una pergola di vite americana, di fianco all’immancabile chiesetta o al crocifisso in pietra. Lo stile va di solito dal romanico al cosiddetto ‘barocco geometrico’, ma secondo alcuni non mancano motivi maya qui fatti conoscere dai primissimi emigrati in America appena dopo Colombo, al loro ritorno in patria. Ed ecco giardini e orti, con coloratissimi fiori e frutti che magari pendono sopra i tavolini della locanda, immancabile come la chiesetta e come questa, essenziale per i pellegrini.

Poi si riprende. Qualche chilometro ed ecco – appena passato un gran bosco di eucalipti – un nuovo borgo, stavolta circondato da campi di segale o magari di mais, con un noce e un fico già carico di frutti a fare ombra al solito pergolato. Ogni tanto un cane che sonnecchia oppure abbaia annoiato da questi bipedi che si permettono di disturbare i suoi sonni. Quel cavallo invece gradisce molto il pane del pellegrino. E anche quelle due mucche che brucavano al di là della staccionata. Ma subito si è in un borgo nuovo, stavolta più grande e ambizioso. Lo si attraversa ammirandone le case assopite, il Concello, cioè il “Consiglio”, ovvero il palazzo del Comune; e naturalmente la chiesa parrocchiale. Dopo una blanda ma lunga salita si è di nuovo in campagna, stavolta tra campi di patate, e casolari cinti da grandi cespugli di ortensie o fucsie, oppure da fichi d’India maestosi. Ma nella brughiera più avanti si entra nel regno dell’erica (fiori così grandi non ne avevo mai visti). E cammina cammina…

Si capisce come sia nato proprio in Spagna il genere picaresco, il cui capostipite è il romanzo anonimo Lazarillo de Tormes, che racconta appunto il libero vagabondare del protagonista. Tipica figura di anti-eroe che cerca perennemente di sbarcare il lunario, anche con mezzi non del tutto leciti. Ebbene, il pellegrino, cioè l’essere umano che si trova – qui e ora – a vivere l’avventura della vita non è forse un po’ un picaro? Uno che si arrabatta tra successi ed errori, e mezzi non sempre leciti come il peccato, per comprendere il progetto che Dio ha su di lui?

Da pover’uomo, mentre camminavo verso Santiago, ragionavo che davvero un cristiano ha ben poco di cui vantarsi e che “tutto è grazia”, come diceva Teresa di Lisieux (ripresa dal curato di campagna di Bernanos). Tutto viene da Dio, se beninteso, siamo capaci di meritarcelo.

Così quando sul monte Gozo, cioè – in galiziano – “della gioia”, abbiamo intravisto a pochi chilometri di distanza le torri della cattedrale di Santiago, ci è venuta voglia di correre incontro al vero fiume di grazia che sentivamo affluire. In un attimo siamo al sepolcro di san Giacomo, e poi sulla gran piazza dell’Obradoiro (“opera d’oro”) per contemplare non il famoso “Portico della Gloria”, chiuso per restauri, ma quel cielo così intensamente azzurro come solo i venti dell’Atlantico sanno colorare.

Tutto finito? Neanche per sogno: una volta arrivati sulla tomba di san Giacomo, il Cammino continua nella vita. Sempre nel rispetto di quel nunc che abbiamo imparato ad amare durante il pellegrinaggio. E non è senza significato l’ultimo capitolo dell’avventura: una puntata, stavolta in pullman, a Finisterre, dove appunto finisce il mondo nella propaggine più occidentale dell’Europa. Il tramonto sanguigno sul mare, nella bellezza commovente del paesaggio, ci dice che il viaggio del sole continua verso ovest. Non si ferma mai, come il nostro di pellegrini ansiosi di presente.




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