CORRISPONDENZA FAMILIARE

di don Silvio Longobardi

L’avvenire dell’umanità? Dipende dalla famiglia

2 Settembre 2019

Giovanni Paolo II

Itto Ogami [CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)]

La famiglia è il luogo privilegiato in cui il Vangelo si fa carne, indispensabile ponte tra la comunità ecclesiale e le nuove generazioni. A dirlo è san Giovanni Paolo II eppure nell’attuale prassi ecclesiale c’è qualcosa che di fatto relega la questione familiare in secondo piano.

L’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia!”. Con queste parole Giovanni Paolo II sigillava l’ampia e articolata riflessione della Familiaris consortio (1981), un documento che ha segnato gli ultimi decenni della vita ecclesiale e che, a buon diritto, possiamo considerare la magna charta della pastorale familiare. Ai cattolici e agli “uomini di retto sentire” Papa Wojtyla consegnava un appello: “È dunque, indispensabile ed urgente che ogni uomo di buona volontà si impegni a salvare ed a promuovere i valori e le esigenze della famiglia”. 

A giudizio del Papa polacco, se viene meno la famiglia diventa oggettivamente più difficile (per non dire praticamente impossibile) l’annuncio del Vangelo, che rappresenta l’impegno prioritario, anzi il criterio che qualifica e orienta tutta la vita e la missione della Chiesa. La famiglia è il luogo privilegiato in cui il Vangelo si fa carne, punto di arrivo e di partenza, indispensabile ponte tra la comunità ecclesiale e le nuove generazioni. 

Questa convinzione chiede di attivare una prassi pastorale che riconosce pieno valore al matrimonio, inteso come alleanza definitiva che unisce l’uomo e la donna e s’impegna ad accompagnare fidanzati e sposi per renderli capaci di vivere con piena consapevolezza un’avventura certamente bella ma anche faticosa e non priva di difficoltà. Se la Chiesa abbandona la famiglia o non investe le sue migliori energie, il futuro diventa più oscuro. 

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Nei regimi dittatoriali, che impediscono o riducono la manifestazione pubblica della fede, la famiglia era l’ultimo baluardo, quello più resistente. Nella storia del Novecento abbiamo testimonianze bellissime che arrivano dai Paesi dell’Est. Grazie alla fedeltà eroica delle famiglie, il cristianesimo ha continuato a vivere, come un fiume carsico. Oggi ci troviamo in una situazione analoga anche se non tutti se ne rendono conto. S’impone una nuova forma di dittatura del Pensiero, rigorosamente con la maiuscola, che pretende di riscrivere la grammatica dell’umanità e non lascia spazio alcuno al dissenso. Solo una famiglia credente, che vive di fede e resta aggrappata alla verità, può resistere al conformismo dilagante e preparare una nuova primavera di Vangelo.

Avendo vissuto da sacerdote buona parte del pontificato di Giovanni Paolo II e avendo ricevuto, fin dall’inizio, una specifica responsabilità in ordine alla pastorale familiare, ho avuto modo di seguire da vicino il cammino della pastorale familiare in Italia. Per quanto mi è dato di vedere, posso attestare che gli input di Giovanni Paolo II hanno camminato con fatica perché non è mai facile attuare cambiamenti significativi e sostanziali. E tuttavia, poco alla volta, con piccoli e grandi passi, la famiglia ha ricevuto una crescente attenzione ed ha assunto un ruolo sempre più importante nella vita ecclesiale. Troppo poco secondo i miei gusti ma il cammino sembrava tracciato. Bisognava solo attendere quella maturazione culturale e pastorale che richiede sempre passaggi graduali.

Questo percorso non poteva essere bloccato ma nell’attuale prassi ecclesiale c’è qualcosa che di fatto relega la questione familiare in secondo piano. Chi segue il dibattito mediatico, anche e soprattutto all’interno del mondo ecclesiale, ha invece l’impressione che l’avvenire dell’umanità non dipenda più dalla famiglia ma dall’accoglienza dei migranti. È questo il nuovo paradigma, il criterio che misura la coscienza di fede della comunità ecclesiale. È qui evidentemente che la Chiesa si sente chiamata a spendere le sue migliori energie e le sue risorse. 

L’accoglienza dei migranti è doverosa e va attuata secondo i criteri della solidarietà e della giustizia sociale. Ma si tratta solo di un capitolo di quell’immenso libro che si chiama carità. Non può diventare il paradigma sociale né può offuscare quell’impegno culturale e sociale a favore della famiglia che la Chiesa è chiamata a custodire e sviluppare. Un impegno che oggi appare – o dovrebbe apparire – ancora più urgente nel contesto di una cultura che sfigura l’identità della famiglia. Così non è, malgrado le dichiarazioni di comodo che salvano le apparenze. 

Non basta dire a parole che la Chiesa non è una ONG, è necessario impedire quella deriva caritativa che sempre più fa somigliare la Chiesa ad una perfetta ONG umanitaria. Qualche settimana fa la Caritas di Roma ha criticato il Governo con parole durissime – “manca di dignità” – perché lasciava in mare i migranti. Niente da eccepire, svolge un ruolo critico e propositivo, ricorda che la vita umana ha una dignità che non può essere mercanteggiata. Mi chiedo però per quale motivo interventi come questi riguardano solo ed esclusivamente i migranti e non gli altri poveri abbandonati alla deriva da una società senza scrupoli. Non ho mai sentito una Caritas alzare la voce per difendere quelle mamme costrette ad abortire da uno Stato che non fa nulla per garantire a loro e ai figli che portano in grembo un’accoglienza dignitosa. Questa evidente sproporzione non può essere casuale ma è frutto di una più ampia strategia che suscita qualche legittima perplessità. 

“L’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia!”, ha scritto e ripetuto Giovanni Paolo II che chiedeva “ai figli della Chiesa” un particolare impegno: “Essi, che nella fede conoscono pienamente il meraviglioso disegno di Dio, hanno una ragione in più per prendersi a cuore la realtà della famiglia in questo nostro tempo di prova e di grazia” (Familiaris consortio, 86). Fedeli a questa verità, che rappresenta per noi un pilastro essenziale dell’impalcatura ecclesiale e sociale, continueremo a fare la nostra parte, anche se dobbiamo sfidare l’impopolarità, l’emarginazione e l’ingiuria. In fondo, Colui che abbiamo scelto come Maestro non ha ricevuto premi o applausi.




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