CORRISPONDENZA FAMILIARE

di don Silvio Longobardi

Dinanzi alla morte abbiamo due opzioni: la sfida o la fuga

16 Settembre 2019

scelta

Fino a che punto è giusto lasciare soffrire una persona che non ha alcuna possibilità di riprendersi? In questi casi procurare la “dolce morte” non è segno di vera compassione? Sono questioni delicate che vanno affrontate con intelligenza, senza lasciarsi irretire da una cultura che considera la sofferenza come spazzatura ed esalta il suicidio come segno estremo della dignità e della libertà dell’uomo.

Il titolo è brutale, lo so. Non mi piace mascherare la realtà con belle parole. L’operazione lessicale oggi ha un ruolo fondamentale per modificare il quadro culturale. Fateci caso, anche il termine eutanasia è meno usato, sostituito dal più dolcificante fine vita. Quando si annuncia la morte di qualcuno, si scelgono le parole meno traumatiche: è mancato, è scomparso, si è spento. Il vocabolo morte fa paura ad una cultura che esalta le capacità dell’uomo ma si rivela radicalmente impotente dinanzi alla morte, anzi appare incapace di dire una parola che sappia dare valore e significato a quello che dobbiamo considerare come l’ultimo atto della vita. Se la meta ultima del nostro vivere è avvolta nell’insignificanza, come possiamo dare un valore all’esistenza? 

Dinanzi alla morte l’uomo appare impotente, ogni sua parola sembra inutile, tutte le sue capacità vengono azzerate. La sofferenza e la morte sono eventi importuni che suscitano non pochi interrogativi sull’effettiva consistenza di una cultura che emargina Dio dalla vita dell’uomo. La morte è una ferita da chiudere subito. Aveva ragione Blaise Pascal: “Gli uomini, non potendo guarire la morte e sperando di essere più felici, hanno deciso di non pensarci”. 

La sofferenza di un ammalato grave ferisce e provoca. Quando poi la malattia non prevede alcuna riabilitazione, anzi si presenta come un lento cammino che conduce al traguardo, possono nascere interrogativi che inquietano non poco la coscienza: fino a che punto è giusto lasciare soffrire una persona che non ha alcuna possibilità di riprendersi? In questi casi procurare la “dolce morte” non è segno di vera compassione? Aiutare una persona a morire non è forse un gesto di solidarietà, anzi l’ultimo servizio che possiamo fare per sottrarla all’ingiusta prigionia della sofferenza?

Leggi anche: Eutanasia: qual è la posizione della Chiesa in vista del 24 settembre?

Si tratta di temi che hanno un grande impatto emotivo ma, proprio per questo, vanno affrontati con intelligenza e senza lasciarsi irretire da una cultura che considera la sofferenza come spazzatura ed esalta il suicidio come segno estremo della dignità e della libertà dell’uomo. Non dimentichiamo poi il contesto sociale che misura il valore della persona (e della vita) con il metro della produttività e dall’efficienza. Non abbiamo tempo né risorse per coloro che non hanno più un ruolo da svolgere e sono diventati un peso per l’umana società. 

La via dell’eutanasia è tracciata ed è già diventata legge in molti Paesi del mondo occidentale. Anche l’Italia pare lanciata su questa china pericolosa. L’ormai prossimo pronunciamento della Corte Costituzionale su questo argomento suscita non poche apprensioni e ha sospinto la Chiesa italiana a intervenire – anche se lo ha fatto con colpevole ritardo – per ribadire il netto rifiuto di ogni forma eutanasica. La relazione proposta dal cardinale Bassetti lo scorso 11 settembre ad un convegno della CEI non lascia spazio a interpretazioni equivoche. 

Interrompere la vita di una persona, anche quando si tratta di accogliere una sua esplicita richiesta – è un fatto che si scontra violentemente con la legge scritta nella coscienza morale di ogni uomo. L’eutanasia non è una risposta ma una fuga, nasce dall’incapacità non solo di rispondere ma anche di affrontare l’evento della morte. L’uomo ritrova la sua dignità proprio quando si confronta con il mistero del dolore e della morte, quando è posto dinanzi all’enigma supremo della sua esistenza. 

“La Madre di Gesù, che ha portato la croce insieme al suo Figlio, ci insegni a lottare, a sopportare, a guardare oltre la materialità delle cose, con occhi di fede”. Sono queste le parole conclusive della breve ma densa relazione proposta dal Presidente dei Vescovi italiani. Non sono parole di circostanza ma un invito alla preghiera più accorata, l’unica risposta che in questo momento può dare la comunità ecclesiale.

Testo integrale del discorso del cardinale Bassetti, 11 settembre 2019

https://www.avvenire.it/famiglia-e-vita/Pagine/bassetti-discorso-suicidio-assistito-testo-integrale

 




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