La macchina parcheggiò poco distante da un’aiuola; fui subito attratta dal fatto che ce ne erano molte lì intorno, tutte fatte di erbetta bassa e verde, accompagnata da scatole, pantofole vecchie e una serie interminabile di rifiuti solidi. “Ecco, la casa è quella!” mi disse Mario. Era un amico di Elisa, conosceva la sua storia e mi aveva chiesto di parlarle. Lei abitava lì, al settimo piano di quel palazzo dalle mura ammuffite. L’ascensore non c’era, le scale erano fatte di vecchie mattonelle rotte, le ringhiere arrugginite e le mura screpolate. Lungo i corridoi del palazzo si udiva l’eco di una radio accesa. La gente ci guardava con diffidenza. Dovevano essere poche le persone sconosciute a varcare la soglia di quel palazzo, pensai mentre bussavamo alla porta dell’appartamento interessato. Venne ad aprire una ragazza giovane, l’incarnato pallido, due bellissimi occhi verdi e lunghissimi capelli biondi come i raggi del sole. “Ciao Elisa!” la salutò il mio amico, “lei è quell’amica di cui ti ho parlato!” mi presentò. La ragazza mi fissò a lungo e interdetta. Ci fece accomodare nella cucina. La stanza più grande di una casa che aveva solo un vano, un bagno e un piccolo ripostiglio. Non c’erano balconi, solo qualche finestra provvista di cancellate.
La madre di Elisa era una donna matura ma bella almeno quanto sua figlia. Ci bastarono pochi secondi per capire che anche lei era informato della gravidanza della giovane, e quindi cominciammo a giocare a carte scoperte. “Perché?” le chiesi; Elisa non mi rispose, dedicò un’occhiata fugace a sua madre, poi esclamò: “Non voglio abortire, ma non sempre si può fare ciò che si vuole!”. Negli occhi, una freddezza disarmante, nella voce una perentorietà insondabile; mi sentì disorientata e provai a chiedere spiegazioni per capirne di più. “Mio marito è un tossicodipendente!” iniziò la madre di Elisa, mentre si accendeva una sigaretta. “L’ho lasciato sette mesi fa, dopo dodici anni di combattimenti e inutili promesse! È un brav’uomo quand’è lucido, ma il guaio è che lo è uno o due giorni su sette. Lavorava, prima d’essere licenziato. Oggi si arrangia con qualche lavoretto qua e là, ma quello che guadagna lo spende per la dose giornaliera. Per mantenere mia figlia a scuola ho dovuto lavorare la mattina e anche il pomeriggio e non riesco a sostenere tutte le spese”. “Vai a scuola?” chiesi a Elisa. “Ci andavo!” confessò senza mezzi termini, “ho smesso di studiare quando ci hanno aumentato il fitto. Lavoro come segretaria presso uno studio medico associato. Mezza giornata per duecento euro, non è molto ma ci pago qualcosa, sa come si dice: ogni goccia toglie la sete!” affermò annodando le mani intorno alla spalliera di una sedia.
Cominciai a dirle che la potevo aiutare, che non era sola, Elisa mi fissava irremovibile, sua madre di tanto in tanto sollevava le spalle in un’espressione indifferente, mentre continuava a fumare, una sigaretta e poi un’altra, senza sosta. Parlai loro del Progetto Gemma con dovizia di particolari, ma mi sembrò di essere da sola in quella stanza, tanto era il muto distacco di quelle due donne. Alla fine dopo il mio acceso monologo, nessuna delle due disse una parola. Ci accompagnarono alla porta e gentilmente la richiusero alle nostre spalle.
Uscii da quel palazzo con un devastante senso di disfatta a sovrastarmi. Le avevo provate tutte, eravamo rimasti a parlare per ore, ma non c’era stato verso: l’intervento si sarebbe tenuto il mattino seguente. All’alba del giorno dopo mi risvegliai di soprassalto. Ero agitata, dovevo aver fatto qualche incubo che non ricordavo. Mi alzai per andare a lavoro, preparai la colazione per i miei bambini e li accompagnai a scuola. Mentre tornavo, salendo le scale udii il trillo del telefonino, mi precipitai a rispondere credendo fosse mio marito, ma mi accorsi che il numero era sconosciuto. Riconobbi subito la voce esagitata della madre di Elisa dall’altro lato del filo. La ragazza era scomparsa e la signora era molto preoccupata; andai da lei e la trovai accanto al portone intenta a misurare l’asfalto a grandi passi. “È tutta colpa vostra!” inveì quando mi vide arrivare, “le avete riempito la testa di stupidaggini. È facile per voi parlare, tanto non è la vostra vita che viene sconvolta”. “Ci sono tanti tipi di sconvolgimenti signora ed io le assicuro che un bambino non è mai uno sconvolgimento negativo!”. La signora non rispose, o meglio non fece in tempo a rispondere, perché una sua amica urlando come una forsennata ci interruppe: “L’ho trovata!” esclamò tra un affanno e l’altro, “sulla panchina del campetto!”.
Era un vecchio campo di calcio abbandonato; lo avevano costruito nell’intento di fornire ai ragazzi del quartiere un’occasione di svago, ma i delinquenti della zona se ne erano appropriati usandolo come mercato per lo spaccio della droga. L’erba era alta, anche se si riuscivano a distinguere i pali bianchi delle porte alle due estremità. Elisa era seduta sugli spalti deserti; la sua figura delicata si stagliava con veemenza sul panorama fatiscente circostante. Non c’era un filo di trucco sul suo viso, solo due profondi solchi violacei sotto gli occhi a testimonianza di una notte tempestosa vissuta a guardare il soffitto e a piangere. La signora Annamaria, sua madre, si bloccò di colpo, stringendosi nelle spalle disarmata, si voltò a guardarmi ed io capì che aveva bisogno di aiuto. Mi feci coraggio e andai da lei.
Quando mi sedetti al suo fianco, Elisa non distolse lo sguardo dal vuoto che stava fissando da ore, ma aveva percepito la mia presenza. “È la cosa migliore!” frusciò con la voce rotta, “sono fidanzata da tre anni con un ragazzo. Non è di qua, vive in un quartiere migliore di questo, ma non ci sta con la testa”. “Lo sa che sei incinta?”. “Sì” mi rispose, “ma continua a vivere come se la cosa non lo riguardasse. Va a ballare, il calcetto con gli amici, l’aperitivo e le scommesse di calcio. Sembra quasi che per lui avere un figlio o no, sia la stessa cosa!”. “È stato lui a suggerirti di abortire?”. “Non ha detto nulla. Sua madre e suo padre hanno deciso che ci potevamo sposare. Avevano già organizzato tutto, sarei andata a vivere in casa loro”. “Perché vuoi abortire?”. “Perché sono sola. Lui è un ragazzino, viziato e immaturo. Non mi sposa perché lo vuole, abbiamo un problema da affrontare e si può risolvere così punto e basta”, si girò e mi fissò con due occhi spaventati, “io ho vissuto in una famiglia difficile. Credi che mio figlio avrà un futuro diverso da quello che ho avuto io?”.
Mi umettai le labbra, non sapevo da dove cominciare, poi mi feci forza e sedendomi vicino a lei cominciai: “Credo che la vita sia un progetto misterioso”. In fondo non sempre son necessarie tante e belle parole, l’esistenza umana si giustifica da sola e Elisa mi guardò perplessa, intimorita, mentre con una mano tremante si asciugava una lacrima. “Non c’è nessuno al mondo che faccia le stesse cose di un altro. Ognuno di noi è il pezzo unico di una collezione singolare. Se oggi tu impedissi a tuo figlio di nascere, un giorno potresti avere altri figli, ma nessuno di loro potrà mai essere quello che porti in grembo”. “E come faccio io, da sola, con un padre drogato e una madre che a stento riesce a mantenere me?”. “Ci siamo noi ad aiutarti! E poi c’è il tuo istinto. Tu da sola gli basterai per molto tempo”. Elisa tacque, intanto sua madre e la sua amica si erano avvicinate. “Ho deciso!” affermò la ragazza tornando a fissare il vuoto, “Non posso abortire!”. La signora Annamaria, non sembrò molto contenta della decisione di sua figlia; mi sogguardò bieca in viso, ma non influenzò la decisione della ragazza.
Ho vegliato su di lei per tutto il corso della gravidanza, il suo pancione cresceva a vista d’occhio, la accompagnavo a fare le visite di controllo, conobbi il suo fidanzato e asciugai le sue lacrime quando intorno al quinto mese di gravidanza, lui la lasciò. Non riusciva a pensare di dover diventare padre, le disse e dopo sparì senza troppi riguardi. La sua famiglia, gente dabbene, con una casa di proprietà e un folto conto in banca, non si fece più vedere né sentire. Annamaria era disperata, non faceva che aggirarsi da una stanza all’altra senza sosta battendosi le mani sui fianchi e chiamando a raccolti tutti i santi del Paradiso. Elisa invece sembrava impassibile, se ne stava seduta sulla poltrona sgualcita della sua piccola cucina e mentre si guardava intorno con l’aria preoccupata, disse: “Mi puoi aiutare a trovare un altro appartamento?”. La guardai con aria interrogativa. “Questo non va bene, è troppo umido. Non voglio che mio figlio cresca in questo quartiere. Mi bastano due stanze, piccole”. E aggiunse: “Ho parlato con i medici presso cui lavoro. Mi aumenteranno lo stipendio. Certo dovrò lavorare fino all’orario di chiusura, ma la paga è buona e con il lavoro di mamma so che ce la faremo. Riguardo al mio ex fidanzato” s’interruppe per qualche secondo poi affermò: “Ho sempre saputo che era una testa calda”.
Le sorrisi impressionata; era una ragazza di diciotto anni, ma mostrava una maturità disarmante. Mi dissi che non l’avrei abbandonata mai e ho fatto così. L’ho seguita come un angelo, vista andare a lavoro tutte le mattine fino a due giorni prima del parto. La sua bambina è nata in una bellissima giornata di primavera; il sole era alto e l’aria tiepida. Elisa, dopo un travaglio di quasi dodici ore, sembrava essere uscita da una clinica di benessere con le gote rosee e gli occhi scintillanti. Non dimenticherò mai l’espressione del suo viso quando prese in braccio la sua bambina per la prima volta. Quando la sua bambina compì un anno, venne a casa mia. Era riuscita a mettere da parte circa seicento euro del sussidio che il Progetto Gemma le aveva assicurato. Mi chiese di donare quei soldi ad un’altra donna che come lei voleva abortire. “Dille di non abortire, dille che un figlio è un dono meraviglioso”.