Il futuro in una casa

di Carmela Memoli

Ancora lontani dalle comunità di tipo familiare?

Una delle principali novità introdotte dalla legge di riforma dell’affidamento e dell’adozione (Legge n. 149 del 28 marzo 2001) è il “superamento”, entro fine 2006, del ricovero dei minori nei cosiddetti istituti educativo-assistenziali, cioè in maxi-strutture con capacità di accoglienza oscillante tra i 15 e gli oltre 100 posti in strutture in cui bambini e ragazzi si trovano a vivere in ambienti i cui stessi nomi (camerata o dormitorio anziché stanza da letto, refettorio o sala mensa anziché stanza da pranzo) rievocano più facilmente edifici quali le caserme o gli ospedali piuttosto che l’abitazione di una famiglia.

Da più parti si è plaudito a questa indicazione, che segna la piena acquisizione, nella coscienza giuridica e politica, della grave incapacità di queste grandi strutture nell’assicurare ai minori un’adeguata dimensione affettiva. Tuttavia c’è da chiedersi se gli istituti chiuderanno veramente.

Difatti fin dai primi mesi dell’entrata in vigore della legge 149/01 si sono attivati una serie di tentativi miranti ad abrogare o ad eludere il termine del 31 dicembre 2006.

Il primo, più eclatante, tentativo è stato il Disegno di Legge 791/01 del Senato (ora decaduto essendo terminata la legislatura) finalizzato alla completa eliminazione della scadenza del 2006. Paradossale è che nella relazione di accompagnamento si dica che lo scopo dei proponenti è quello di “dare priorità assoluta agli interessi del minore”.

C’è poi chi supera l’ostacolo mediante interpretazioni “larghe”. In un testo di approfondimento sull’affido familiare, pubblicato dal Centro Nazionale di Documentazione ed Analisi sull’infanzia e l’adolescenza all’indomani dell’entrata in vigore della legge 149/01 ed inviato gratuitamente a tutti i servizi sociali d’Italia nonché ad un gran numero di enti socio-assistenziali, si mette in dubbio la perentorietà del termine e ci si chiede se non si intenda piuttosto che “a quella data non potranno più essere effettuati nuovi ricoveri” senza con ciò mettere in discussione quelli che sono già in corso.

Non ultimi i segnali di contro-tendenza del mondo politico. Basti pensare alla dichiarazione dell’on. Cecilia Donaggio, sottosegretario al Ministero della Solidarietà Sociale con delega all’inclusione sociale che, in occasione del convegno di Amici dei Bambini dal tema “Senza figli Senza” realizzato a Bellaria (Rm) nei giorni 28-30 agosto 2006, ha candidamente dichiarato che essendo oramai prossima la data, e non adeguatamente pronte le alternative all’istituto si dovrà necessariamente procedere con una proroga del termine di chiusura. Il fronte di maggiore battaglia, su cui si gioca l’effettiva chiusura degli istituti, riguarda i requisiti delle cosiddette comunità di tipo familiare. Difatti la legge nazionale, dopo aver sancito il “superamento” del ricorso agli istituti, precisa che nei casi in cui non sia possibile l’affidamento dei minori presso famiglie (cosa che capita a 4 minori su 5), si debba procedere all’inserimento in strutture residenziali “caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia”. La definizione degli standard minimi che assicurino queste caratteristiche è però rinviata alle regioni, e qui si apre la falla!

Vi sono regioni non hanno ancora emanato alcun regolamento in merito; molte altre hanno aperto la porta a forme blande di “ristrutturazione dei vecchi istituti” o, cosa quasi universalmente presente, alle “comunità con operatori turnanti”, che di fatto non garantiscono un adeguato clima familiare.

Un rimedio parziale è stato posto da un Decreto Ministeriale del 2001(DM 308/01) che ha fissato un massimo di dieci ospiti. Ma può, un gruppo di dieci minori, provenienti da contesti e situazioni diverse e senza nessun adulto che “vive con loro”, sentirsi veramente famiglia?

Interessante la scelta della regione Campania, che nel regolamentare la materia ha previsto ben sei diversi modelli di casa d’accoglienza per minori, distinguendo quelle che garantiscono solo la dimensione comunitaria, denominate “Comunità alloggio” o “Gruppi appartamento” (per altro con un numero massimo di otto ospiti) da quelle che assicurano anche la dimensione familiare tramite la presenza residenziale di una coppia di genitori, denominate, questa volta a ragion veduta, “Case Famiglia”!




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