Con le fedi nella fede

a cura di Giovanna Abbagnara

Don Sergio Nicolli è responsabile dell’ Ufficio Famiglia nazionale. Il suo impegno a favore della famiglia nasce da un’esperienza forte vissuta con un gruppo di giovani scout che diventati adulti e sposi gli chiedono di continuare a seguirli. Da questa iniziale esperienza don Sergio per quasi 25 anni si è occupato della pastorale familiare nella diocesi di Trento.

La prima domanda che rivolgo a don Sergio riguarda le famiglie in difficoltà. Oggi è un tema di grande attualità, ma quando i mass media ne parlano in rapporto alla dimensione ecclesiale lo fanno sempre in maniera molto approssimativa. Dicono che la Chiesa condanna i divorziati e i separati e pongono il discorso sulla questione “comunione si o comunione no”.

Vogliamo chiarire don Sergio in poche battute questa posizione della Chiesa?

don Sergio: Volentieri, anche perché questa attenzione alle coppie in difficoltà, in crisi e alle coppie in situazioni particolari, è stata per me la scelta prioritaria. Io provengo da un’esperienza di diversi anni di pastorale familiare a Trento, esattamente  14 anni e buona parte del tempo passato nell’Ufficio Famiglia di quella diocesi era dedicato a queste situazioni, a coloro che io chiamo i prediletti nella Chiesa. Premesso questo, c’è tutto il capitolo sette del Direttorio per la pastorale familiare che si occupa proprio delle situazioni difficili. È il capitolo che parla dei separati, dei divorziati, dei risposati, dei conviventi e di quelli sposati solo civilmente. Questo capitolo è conosciuto soltanto nella parte giuridica, ma male. Io trovo ancora molta gente che è convinta che i separati e i divorziati non possono fare la comunione. Il Direttorio non dice questo, l’unica situazione in cui non si può ricevere la comunione è quando, fallito il matrimonio, si entra in un’altra relazione oppure quando si convive al di fuori del matrimonio. La Chiesa, in quel capitolo settimo, è molto più preoccupata che le comunità cristiane facciano spazio a queste persone, che le accolgano davvero perchè sono persone che meritano un’attenzione particolare.

Ai vescovi, scrivendo quelle cose nel Direttorio, non premeva chiarire chi può fare e chi non può fare la comunione, ma premeva dire alle comunità cristiane di aprirsi alle coppie in crisi?

don Sergio: Si, e posso dire che noi oggi siamo molto lontani da questa apertura. Generalmente, quando una persona fallisce il suo matrimonio, si sente automaticamente quasi al di fuori della Chiesa e comincia lei stessa a non fare più la comunione. La Chiesa deve dimostrare con gesti concreti che vuole accompagnare queste persone nella crisi, con la speranza di riuscire, magari, anche a superarla, e quando ciò non dovesse accadere,  deve considerare queste persone come persone che meritano ancora una vicinanza e che non sono solo avanzi di un bel progetto purtroppo fallito.

L’ideale è prepararsi adeguatamente al matrimonio ma dove ciò non è stato possibile per mille motivi o anche perché non è stato richiesto, qual è la forma per evangelizzare il matrimonio, per raggiungere le coppie che sono totalmente fuori dalla realtà ecclesiale?

don Sergio: Quando si perde la grande occasione della preparazione al matrimonio non dobbiamo considerare finito il nostro compito. La stagione più difficile della relazione di coppia è proprio quella dei primi anni. Mai come in questa stagione, della grande festa, delle grandi attese, bisogna fare un percorso. Bisogna allora andare a cercarli personalmente,  non per indottrinarli ma spiegando loro che quello è il momento in cui essi stanno costruendo la loro relazione. Le occasioni poi si presentano anche quando c’è un figlio che arriva.  Quando le giovani coppie vengono a chiedere il Battesimo noi non possiamo limitarci a dare loro il sacramento ma bisogna proporre loro una preparazione adeguata. Bisogna cercare di fare di più, dando l’occasione di riprendere un cammino mai iniziato o magari interrotto.

Nelle parrocchie è posta molta  attenzione alla preparazione dei fanciulli ai sacramenti, c’è poca cura invece alla famiglia che non viene adeguatamente aiutata a scandire liturgicamente i ritmi della giornata,  gli eventi e le scelte decisive. Perché e cosa si può fare?

don Sergio: Proprio in questi giorni abbiamo ipotizzato che nella settimana estiva del 2008, in giugno si faccia un incontro per i responsabili diocesani che abbia come tema proprio quello della liturgia familiare e della famiglia nella liturgia, che sono due aspetti diversi. Per liturgia familiare si intende che la famiglia vive i suoi momenti liturgici essendo chiesa domestica. Quando in famiglia al mattino si prega con le lodi, non prega solo la famiglia e basta, ma si prega a nome della Chiesa, è una liturgia che ha una sua solennità. E, quindi, con questo convegno, come primo obiettivo vorremmo ridare dignità a questa preghiera e farla diventare una liturgia della Chiesa con le sue caratteristiche di semplicità e di ordinarietà. L’altro aspetto è, invece, che nella liturgia della comunità oggi in genere la famiglia non ha molta cittadinanza. Quando si portano i bambini spesso si pensa che essi disturbano, molte volte i genitori si dividono e così l’uno partecipa e l’altro sta con i bimbi a casa. Ci sono, invece, delle esperienze molto interessanti in varie diocesi che cercano di costruire delle liturgie nelle quali la famiglia non si sente a disagio, o di disturbo, ma si sente coinvolta anche come famiglia.D’altra parte gli eventi liturgici che interessano la vita della famiglia non devono restare dei momenti che interessano la famiglia, i parenti o gli amici, ma anche il resto della comunità, a cominciare dal matrimonio che è ancora celebrato in maniera troppo privatistica e che, invece, è un evento di comunità. Nel nuovo rito la comunità è coinvolta in maniera seria addirittura con delle acclamazioni, si suggerisce anche di celebrare il matrimonio qualche volta nella liturgia domenicale proprio perché la comunità non si riduce solamente a coloro che sono lì perché curiosi, ma è il luogo naturale dove il matrimonio si svolge, esso è un sacramento che non viene dato solo alla coppia, ma che attraverso la coppia viene dato a tutta la comunità ecclesiale.

Parliamo del rapporto verginità e matrimonio. Lei come vive questo aspetto nella sua vita, visto che sappiamo che tra i suoi collaboratori spiccano tantissime coppie di sposi?

don Sergio: Più che parlarne bisogna proprio fare delle esperienze che diventano un segno profetico nella Chiesa. Vorrei però che questa reciprocità non venisse tradotta solo nella forma della fraternità, quindi solo nella radicalità di una condivisione di vita, anche perché queste sono forme eccezionali e rimangono uno stimolo per vivere poi questa fraternità e questa reciprocità nella vita quotidiana. È importante che i sacerdoti escano dalla solitudine nella quale sono adesso ed entrino di più nelle famiglie, perché il fatto di entrare in esse, di ascoltarle, di portare i pesi insieme permette loro di capire molto di più le famiglie, ma anche di sentirsi più accompagnati e permette, inoltre, alle famiglie di conoscere la vita del prete. La presenza di un sacerdote, o di una persona religiosa, è un aggancio per la famiglia per sentire il richiamo ad una comunità più grande, a costruire una famiglia più grande. Credo che più che parlare di questo, bisogna vivere delle esperienze concrete. Io ho visto dei preti rasserenati proprio da questa cosa. Ad esempio, quando un prete viene invitato ad entrare in un gruppo di famiglie, naturalmente perché se ne ha bisogno come guida, piano piano il prete si rende conto che questa esperienza gli dona qualcosa di forte.

Partiamo dal principio, com’è nato il suo impegno per la famiglia?

don Sergio: Non so quando questa vocazione sia nata. Credo che un po’ sia nata nella mia famiglia d’origine, penso che l’esperienza della propria famiglia ti dia una sensibilità particolare verso una cosa piuttosto che l’altra. Poi per me è stata molto importante l’esperienza che ho fatto con lo scautismo. Praticamente da quando sono prete ho svolto vari servizi per lo scoutismo, ho fatto l’assistente nazionale per la formazione degli educatori, ho fatto per tre anni anche l’assistente europeo. Ma l’esperienza più forte è stata quella di aver accompagnato il clan, ovvero i ragazzi dai 16 ai 21 anni, per una decina d’anni. Ho vissuto con loro un’esperienza molto forte, di grande coinvolgimento e, soprattutto, di accompagnamento anche nei momenti più difficili. Si è creato un rapporto speciale, quando questi ragazzi si sono innamorati, quando poi si sono sposati e hanno vissuto le vicende anche faticose di un fidanzamento che è finito male, oppure di una delusione amorosa, io ero con loro. Per cui ad un certo momento, quando ero segretario del vescovo di Trento, ho sentito il bisogno, con alcune di queste famiglie, di fare un cammino insieme. Adesso, in realtà, a Trento faccio pochissimo, perché c’è un bel gruppo di famiglie che gestisce la pastorale familiare in maniera anche abbastanza autonoma. Ci sentiamo spesso, vado nei momenti nei quali bisogna prendere decisioni varie, ma in realtà sono loro che mandano avanti la pastorale.




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