Accogliere una sfida possibile

Comunicazione di don Silvio Longobardi* al convegno organizzato dall’Ufficio Famiglia della CEI dal titolo “Vi darò un cuore nuovo” tenutosi a Paestum dal 25 al 29 giugno 2006.

Il tema dell’affido entra con estrema lentezza e non senza fatica nella pastorale familiare. Ed è strano perché nei diversi ambiti della solidarietà la Chiesa è sempre stata in prima fila. La riforma legislativa del 2001 (Legge n. 149/01) ha modificato sensibilmente la precedente disposizione, prevedendo la chiusura degli Istituti per minori e coinvolgendo in modo più deciso i nuclei familiari. Questo rinnovamento accoglieva molte sollecitazioni delle associazioni di volontariato, anche e soprattutto quelle di ispirazione cristiana.
Il tema è rimasto sostanzialmente assente dal dibattito pastorale. Venticinque anni fa nella Familiaris consortio, che viene giustamente considerata la magna charta della pastorale familiare, Giovanni Paolo II nel capitolo sul servizio alla vita inserì un breve ma denso riferimento all’affido:
« Le famiglie cristiane sapranno vivere una maggiore disponibilità verso l’adozione e l’affidamento di quei figli che sono privati dei genitori o da essi abbandonati: mentre questi bambini, ritrovando il valore affettivo di una famiglia, possono fare esperienza dell’amorevole e provvida paternità di Dio”. Questa esperienza, continua il Pontefice, non solo permette ai piccoli di “crescere con serenità e fiducia nella vita” ma arricchisce anche la vita della stessa famiglia che si apre all’accoglienza, secondo quella legge tante volte sperimentata che “dando si riceve”»(n. 41).
Quest’esortazione ha trovato certamente accoglienza in tanti sposi ma non è entrata a far parte della programmazione della pastorale familiare, non è stata assunta come impegno di Chiesa e in particolare di quella “chiesa domestica”. È raro trovare nei programmi pastorali diocesani riferimenti espliciti a questo tema né prese di posizione sul ritardo con cui la Legge viene applicata. L’impressione è che questi argomenti non appartengono alla grammatica pastorale. […]
Questo silenzio, appena spezzato qua e là da qualche intervento, a mio parere non ha contribuito a rendere le nostre famiglie consapevoli della responsabilità storica a loro affidata. Per questi motivi il percorso, che abbiamo iniziato nella Regione Campania (Piano Regionale per l’affido, di cui si parla in altre parti della rivista, ndr), rappresenta senza dubbio una novità, sia per il tema che per l’ampia e significativa convergenza ecclesiale che abbiamo incontrato. La nostra esperienza, se raggiunge i risultati sperati, può diventare un segno e uno stimolo anche per le altre regioni ecclesiastiche.
Un crescente disagio
Per inquadrare la problematica dell’affido è necessario partire da una riflessione sul contesto sociale. Nonostante l’accresciuto benessere, diffuso in tutti i ceti della società, vi sono tuttora spazi di disagio sociale. Le politiche sociali che in questi anni sono state effettuate – al di là del giudizio di merito sugli obiettivi e le modalità con cui sono state realizzate – non sono in grado di contenerlo, anzi è probabile che nei prossimi decenni assisteremo ad una progressiva estensione del fenomeno. [….]
La disgregazione familiare è uno dei segnali più inquietanti di questo vasto e radicato disagio. La famiglia è un’istituzione sempre più fragile, facilmente condizionabile, in essa la crisi epocale si manifesta in tutta la sua evidenza. La mancanza di valori determina una situazione di incertezza e di instabilità. Non ci sono più certezze, tutto diventa opinione, ogni cosa può essere negoziata.[…]
I primi a pagare il prezzo di questo disagio sono i minori che in numero sempre crescente sono costretti a vivere con un solo genitore.
In questi anni come Associazione Progetto Famiglia abbiamo raccolto decine e decine di situazioni, diverse tra loro ma accomunate da una sostanziale incapacità educativa. Sono dati inquietanti che dovrebbero far riflettere. Eppure si tratta solo della punta di un iceberg. Siamo di fronte ad una storia segnata dalla fragilità, una storia insopportabilmente povera che pesa su tutti e su ciascuno ma soprattutto sui minori coinvolti, creature chiamate a camminare in salita fin dai primi anni della loro esistenza, costretti a portare il peso di errori che non hanno commesso.
Il ruolo della famiglia
Dinanzi a questo scenario già di per sé inquietante, possiamo e dobbiamo contare su un impegno solidale che non coinvolga solo pochi e attrezzati professionisti ma si allarghi all’intera società, in modo che la reazione venga dall’interno del tessuto sociale. In questo contesto il ruolo della famiglia appare senza dubbio decisivo, nonostante i profeti di sventura – quanti cioè hanno preconizzato la sua fine e lavorano per indebolire il suo ruolo istituzionale – la famiglia rimane una certezza, uno dei pilastri su cui si regge l’edificio della convivenza umana. Aiutare le famiglie a rispondere al disagio significa dunque lavorare per costruire una città solidale, creare le condizioni per un mondo in cui la solidarietà non sia la veste eroica di qualcuno ma possa diventare un’esperienza che tutti possono vivere.
È interessante notare che la Legge 149/01, che riprende la precedente disposizione del 1983, parla di “affidamento familiare” (art. 4) e specifica che quando il minore resta “temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un’altra famiglia, possibilmente con figli minori” (art. 2).  Per questo motivo, secondo Federico Eramo, Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di L’Aquila, “è preferibile parlare di affidamento familiare, anziché di affidamento dei minori”. In genere si parla di affido eterofamiliare per distinguerlo dall’affido fatto ad uno dei coniugi in caso di separazione.
Questa scelta precede di gran lunga ogni altra opzione, compresa quella dell’affidamento “ad una comunità di tipo familiare”. La legge precisa che solo quando non è possibile percorrere questa strada “è consentito il ricovero del minore in un istituto di assistenza, pubblico o privato” (art. 2). Queste indicazioni sono state confermate e rafforzate nella nuova disposizione legislativa: in essa infatti si fa espressamente divieto di affidare minori di età inferiore a sei anni in un istituto (art. 2, co. 2). La legge invita a superare il ricovero in istituto e indica una data (31 dicembre 2006) entro la quale questa possibilità perde ogni valore.
L’aggettivo familiare specifica dunque la modalità dell’affido e la finalità che esso persegue: in pratica si chiede ad un nucleo familiare di sostituire temporaneamente la famiglia di origine e di perseguire il reinserimento del minore nel suo ambiente naturale. Il disagio della famiglia viene colmato attraverso l’intervento di un’altra famiglia!
La scelta della comunità di tipo familiare, subordinata alla famiglia e privilegiata rispetto all’istituto, è motivata con una chiara indicazione di carattere psico-pedagogico: essa è caratterizzata “da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia” (art. 2, co. 4).
La famiglia, scuola di umanità
Il tema dell’affido rilancia il ruolo e la centralità della famiglia nella dinamica sociale: da un lato infatti mostra che la fragilità della famiglia genera un forte disagio e dall’altro che la famiglia è una risorsa importante e decisiva per rispondere al disagio.[…]
– La famiglia è il cuore della civiltà, il nucleo fondamentale della dinamica sociale, la prima forma di società, il primo ed essenziale luogo in cui la persona cresce. La famiglia rappresenta la prima e spesso unica risorsa per invertire la tendenza sociale. Una famiglia fedele ai suoi compiti è già una roccaforte, un sicuro baluardo.
– Essa è il luogo dell’amore e della solidarietà: è qui infatti che si impara ad accogliere e a rispettare l’altro. Il fatto stesso di vivere in comune è un continuo invito ad uscire dall’istintivo egoismo. La famiglia è una scuola di umanità, la prima ed essenziale via di socializzazione.
La famiglia è un riferimento essenziale e insostituibile per costruire una convivenza che rispetti la dignità della persona. Giovanni Paolo II scrive che “la famiglia ha la missione di custodire, rivelare, comunicare l’amore”(Familiaris consortio,17), è per sua natura il “santuario dell’amore”, il luogo in cui ciascuno è accolto come persona, indipendentemente dalle sue qualità e dai beni che possiede. Anzi, quelli che sono più deboli vengono custoditi con maggiore premura e tenerezza.[..] >
La famiglia è capace di rispondere al disagio sociale, è l’unica istituzione che lo può fare in modo adeguato, tutte le altre in qualche modo suppliscono o fanno da supporto. Ridare centralità alla famiglia significa umanizzare lo sviluppo sociale, inserire nel tessuto sociale degli anticorpi che prevengono le degenerazioni e curano le malattie.

Una forma privilegiata della solidarietà familiare 

La solidarietà della famiglia si esprime in tante forme, come ben sanno i parroci che possono contare sulla fattiva collaborazione di tante coppie. L’affido dovrebbe essere un canale privilegiato di solidarietà: non solo perché riguarda i minori, che rappresentano la componente più debole della società e quella che deve essere perciò maggiormente tutelata; ma anche perché è un ministero che coinvolge la famiglia in quanto tale, tutta la famiglia e ciascun componente di essa. I figli devono essere coinvolti in questa storia sia nella fase della scelta che in quella dell’accompagnamento, essi devono partecipare all’affido. Una tale esperienza non solo permette alla famiglia di offrire un servizio indispensabile all’umana società ma diventa anche per la comunità domestica un’opportunità di maturazione. Un affido lascia sempre una impronta. Non dico che non ci sono difficoltà e che spesso i genitori non debbano intervenire per evitare scompensi sul piano educativo o affettivo ma sono convinto che alla lunga la scelta della solidarietà favorisce la crescita della comunione coniugale e una più celere e matura responsabilità dei figli. È un’esperienza che facciamo quotidianamente nelle nostre oasi, case-famiglie in cui accogliamo minori, gestanti e madri con figli.[..]
Per aprirsi all’affido non occorre avere chissà quali attitudini o competenze specialistiche, non è necessario neppure avere molto coraggio, insomma non bisogna eroi. È sufficiente essere una famiglia normale, cioè una famiglia in cui vi è una relazione coniugale non inquinata da una continua ed esasperata conflittualità. Accogliere non significa offrire un alloggio ma creare un legame, entrare in una relazione. È questa la vera sfida. Possono aprirsi all’affido solo le famiglie che hanno imparato a costruire legami o che almeno non si stancano di tessere ogni giorno la rete della relazione e di superare le inevitabili difficoltà che la vita riserva.
Al tempo stesso l’affido richiede una specifica preparazione, non basta la disponibilità sincera e acritica offerta da molte famiglie. L’affido suppone anche un costante accompagnamento, è opportuno perciò che la famiglia sia inserita in un gruppo associativo per dare e ricevere un adeguato sostegno alla propria attività.
Una rete di solidarietà
Aprirsi all’affidamento non consiste solo nell’accogliere minori ma anche nel farsi carico di un problema che investe l’intera famiglia del minore. È questa la prima e fondamentale novità di una Legge che scommette sulla capacità della famiglia di essere e/o diventare non solo un ammortizzatore del disagio che in forma sempre più massiccia investe la società; ma anche un elemento capace di operare un effettivo risanamento delle situazioni che hanno originato il disagio. È proprio questa prospettiva, necessaria e tuttavia ricca di implicazioni problematiche, a far nascere una domanda ineludibile: la famiglia è in grado oggi di rispondere a questo compito? Ha i mezzi per accogliere una sfida di così ampio respiro? Emerge qui una delle lacune più gravi della legislazione sull’affido: la sostanziale estraneità dei diversi soggetti chiamati in causa.
La famiglia è certamente in grado di rispondere al disagio sociale, nonostante la crisi epocale che si riflette pesantemente in ogni ambito della vita sociale, la famiglia appare ancora come un’istituzione forte e capace di dare un contributo decisivo in alcuni ambiti, come quello della socializzazione e dell’educazione. Ma non può farlo da sola! Non può affrontare con le proprie forze un compito che, se da una parte s’inserisce  nel solco del suo ordinario servizio alla vita, dall’altra richiede attenzioni e capacità che non tutti hanno e che in ogni caso non possono essere acquisite da soli.
>Nel Messaggio dei Vescovi per la Giornata per la Vita 2005, i vescovi italiani, dopo aver invitato le famiglie a farsi carico del problema, chiedono a tutti – ma è chiaro che in questo caso i Pastori si rivolgono alla comunità ecclesiale – di creare una “rete di solidarietà”:
“Se una famiglia si dimostra disponibile, non va lasciata sola. Deve avvertire attorno a sé una rete di solidarietà concreta, fatta non solo di complimenti ed esortazioni, ma di tante forme di aiuto e di solidarietà. E chi si rende disponibile per l’adozione o l’affido, deve sentirsi parte di un’avventura collettiva, in cui gli altri ci sono, vivi e presenti” .
È una postilla significativa perché pone l’accento sulla comune responsabilità e invita perciò l’intera comunità ecclesiale a farsi carico di un progetto di accoglienza. Non si tratta solo di riconoscere l’importanza dell’impegno sociale ma anche di sostenere concretamente la fatica delle famiglie che accettano di intervenire. È la Chiesa nel suo insieme il soggetto di questa avventura, le famiglie che s’impegnano in prima persona lo fanno in nome di una comunità. È questo l’accento nuovo che dona all’intervento episcopale, pur stringato nella forma, una forza che gli altri pronunciamenti non avevano .

* Responsabile dell’Ufficio famiglia

della diocesi di Nocera Inferiore-Sarno




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