Amici per la pelle

di Giuseppe Anzani

Si può far legge sul morire umano? Si deve dar regola ai dintorni della morte? Dopo la vicenda giudiziaria di Eluana Englaro, il Parlamento italiano si è messo all’opera con la lena dei momenti di urgenza e di angoscia.

Il dibattito, dapprima concitato, si è poi prolungato, a emergenza dolorosamente finita, dopo la morte di Eluana per soppressione del nutrimento e dell’idratazione; si è fatto intenso e profondo, ha esplorato l’orizzonte dove la vita e la morte incontrano i problemi del diritto e dell’etica, della libertà e della giustizia, fino a disegnare un breve e incisivo compendio (nove articoli) di regole. E quel che più rileva, per un lettore attento ai segni di assenso o di contrasto degli indirizzi normativi  rispetto alle derive culturali che serpeggiano  nel Paese – spontaneamente o artificiosamente – a proposito di eutanasia, questo disegno di legge approvato dal Senato della repubblica e trasmesso alla Camera dei deputati per il suo turno d’esame, ha espresso con decisione e chiarezza un principio decisivo, riconoscendo alla vita umana la sua inviolabilità e indisponibilità.

Non è dunque per assecondare la morte, o per seguire pensieri di abbandono o di mascherata assistenza suicidiaria, che si trascrive nella legge la regola fondamentale del “consenso informato”, che pone al centro il paziente: con la sua libertà e il suo bisogno di rispetto non meno che di soccorso. È invece per rintracciarvi la radice di una relazione umana che viene chiamata “alleanza terapeutica”. Così importante da entrare nel titolo della legge, insieme alle “dichiarazioni anticipate di trattamento”, vale a dire le indicazioni che il soggetto confida e registra per il suo medico, perché lui ne tenga conto nell’ora in cui non potrà più comunicare coscientemente. Dichiarazioni che esprimono dunque,  – diversamente da un  elenco di rifiuti (come alcuni lo concepiscono)  e men che meno da istruzioni per la morte (come altri vorrebbero), –  il prolungamento di un “dialogo” fra medico e paziente, l’ultimo canale comunicativo di cui tener conto quando i canali ordinari della parola e dell’ascolto saranno eventualmente interrotti.

A cornice di questa alleanza la legge in esame pone i simmetrici principi di esclusione dell’accanimento e di esclusione dell’abbandono. L’accanimento è la sproporzione aggressiva, l’abbandono è la sproporzione abdicativa. L’accanimento è ricusato in modo testuale, l’abbandono è ricusato in modo ellittico ma persino più pregnante, là dove il medico può essere chiamato, per ipotesi, a  fronteggiare una dichiarazione che sostanzialmente ricusi ogni presa in cura. Sta forse qui il perno culturale e giuridico della legge. E la presa di distanza, risoluta e in equivoca, da ogni forma di eutanasia prende testo dal richiamo alle disposizioni già vigenti, che non vengono intaccate, ma ribadite.

Se si ripercorre il dibattito in commissione e in assemblea si avverte che i temi eticamente sensibili hanno acceso le coscienze. Il tema della salute e della vita s’intreccia infatti con quello della libertà e del diritto, si affaccia sul passaggio umano della morte, sul dolore e sulla terapia del dolore, sulla solidarietà umana, e infine tiene in orizzonte il bisogno di senso e il mistero dell’oltre. Un terreno di riflessione necessariamente più largo e profondo, rispetto al tema della vigilia, centrato in modo quasi radicalizzante sulla idratazione e alimentazione artificiale dei pazienti in stato vegetativo persistente, secondo lo schematico dilemma se sia una terapia o un sostegno vitale. Ma farne un problema definitorio, come se la collocazione di un gesto di cura alla persona in una categoria o nell’altra ne definisse la rifiutabilità o meno, è stato il paralogisma che ha condotto Eluana a una morte giudiziariamente autorizzata; e ognun vede le differenze che ci sono fra il “rifiutare una cura” e il “rifiutare una vita” collegando l’autodeterminazione non a modalità terapeutiche di fronte a una malattia terminale, ma a un mero concetto di qualità della vita. Ora per la legge accudire le persone non autosufficienti, comprese l’estrema disabilità dei pazienti in stato vegetativo, è assistenza doverosa, e non ha a che fare con l’ accanimento terapeutico o la terapia sproporzionata di fronte all’avvicinarsi della fine naturale della vita.

L’altro caposaldo della legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento è che il medico è obbligato a “tenerne conto”, ma non si trasforma in un automa o in mero esecutore di “istruzioni”; dice infatti la legge che il medico annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguire o di non seguire quelle indicazioni. E in ogni caso non seguirà le indicazioni “orientate a cagionare la morte”, perché non si può trasformare il testamento biologico in una sorta di prenotazione di eutanasia, né quelle in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica. Si esclude dunque che funzione del medico – la funzione di quella nobilissima arte millenaria del soccorso alla salute e alla vita – si pieghi a un puro meccanismo di morte o di abbandono: egli userà precauzione, proporzionalità e prudenza, restando fermo il principio dell’inviolabilità della vita umana.




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