I frutti velenosi della separazione

di Silvio Longobardi

Un uomo uccide la moglie e il suo nuovo compagno, la figlia di lei e il suo fidanzato. Accade a Brescia ma potrebbe avvenire ovunque. Un delitto premeditato.

L’uomo ha atteso che rientrasse a casa per compiere una strage che aveva a lungo coltivato. Si fa presto a dire follia omicida. Quanto odio ha accumulato, goccia a goccia, per arrivare a pensare un progetto come questo e per avere poi la forza di attuarlo? L’odio è come un veleno che s’insinua nelle pieghe della psiche e distrugge, una alla volta, le cellule dell’amore. L’odio è un dolore acuto, che diventa un insopportabile compagno di viaggio. Dall’odio alla vendetta il passaggio è breve. Per quanto sia paradossale, la vendetta si fonda sull’idea di giustizia: perché io solo devo soffrire? Anche lei deve provare lo stesso dolore! È senza dubbio un’idea folle ma è la follia di chi vive senza Dio, senza amici, senza amore. La follia che nasce dal fatto di essere abbandonato, di sentirsi solo e vuoto, senza nessuno che mi ama e senza nessuno da amare, nessuno a cui pensare, nessuno che mi attende la sera quando rientro dal lavoro.

Casi come questi purtroppo si vanno moltiplicando. Sono il segno di un’accentuata fragilità sociale, non misurano soltanto l’incapacità personale di contenere il dolore ma anche le lacune della collettività che non sa come accompagnare coloro che vivono l’angoscia del fallimento. Alcuni usano questi fatti per denunciare il fallimento della famiglia. “La famiglia assassina”, titolava un quotidiano nazionale nel giorno del Family day. È un’interpretazione ideologica. In realtà queste tragedie nascono dalla mancanza di famiglia, anzi dal bisogno di famiglia che permane nel cuore dell’uomo. Sono il frutto velenoso di quella separazione coniugale che viene presentata come una risoluzione pacifica consensuale di un conflitto ormai insanabile. La separazione come una reciproca liberatoria. “Chi ha avuto, ha avuto”, dice la canzone napoletana, “scurdammoce ‘o passato”. Così vuole la vulgata, così insegnano le fiction televisive. La realtà è ben diversa. Sul campo ci sono morti e feriti.

Non si arriva subito alla tragedia. Quasi sempre è il punto di arrivo della solitudine e della frustrazione. Ci sono uomini delusi, arrabbiati con la vita, con gli altri e forse anche con se stessi, uomini che avvertono tutto il peso del fallimento ma attribuiscono la colpa, o la maggior parte della colpa, all’altra, a quella donna che non sanno neanche chiamare per nome. Uomini ancora più soli perché ritenuti incapaci di accudire i figli, uomini che devono mendicare per poter stare con i propri figli. Uomini condannati a morire. Perché poi stupirsi se coltivano pensieri di morte? In questi drammi della gelosia gli autori dei crimini non si nascondono. La loro non è la vendetta raffinata che spesso vediamo nei thriller, compiuta da assassini in guanti bianchi. No, qui prevale la logica del “muoia Sansone e tutti i Filistei”. Questi uomini cercano il suicidio, in fondo si considerano già morti, inutili, nessuno ha bisogno di loro. Che senso ha vivere così?

Dobbiamo abbandonare l’ingenua idea che la separazione risolve i problemi di una coppia, le relazioni affettive coinvolgono i sentimenti più intimi ma anche quelli più istintivi. È la separazione il vero dramma da evitare. A tutti i costi. Se vogliamo che la lista delle tragedie familiari non continui ad allungarsi, generando altro dolore e altre domande.




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