Tante domande, poca attenzione

di Silvio Longobardi

Nel suo secondo romanzo – Cose che nessuno sa – Alessandro D’Avenia guarda il mondo con gli occhi e il cuore di un’adolescente, Margherita, 14 anni.

È l’età dei sogni e delle domande, quella in cui si sperimenta la fragilità e l’insicurezza, ma anche quel sincero e fin troppo ingenuo slancio ideale che insaporisce la vita, l’età dell’impazienza e dell’insicurezza, l’età in cui l’amplificazione emotiva prevale sulla scelte ragionate. È l’età in cui si va formando – goccia a goccia – la personalità, si fissano le convinzioni, si compiono le scelte decisive, quelle che danno una forma precisa all’esistenza di ciascuno. Il giovane scrittore vive nel mondo della scuola e conosce bene questa fase della vita, conosce le pieghe più intime e le pieghe più nascoste. E tuttavia non esalta l’adolescenza, sa bene che senza adulti il ragazzo non trova la sua strada, rischia di inseguire illusioni, non è capace di scoprire il valore e il significato più intimo della realtà. Al centro del romanzo ci sono adolescenti in cerca di futuro ma, dietro le quinte, appare il ruolo della famiglia, anzi il prepotente bisogno di famiglia.

Gli adolescenti di D’Avenia si misurano con la vita, soli, come se fossero sospesi su un filo, senza alcuna rete di protezione. Così si sentono. In realtà non sono soli, sulla loro strada incrociano adulti che sanno comprendere il loro disagio e sanno aprire lo scrigno nel quale hanno accumulato la sapienza della vita. I dialoghi tra l’adolescente che si affaccia alla vita e la nonna che quella vita l’ha già percorsa tutta, assaporando gioie e dolori, anche se a volte appaiono poco realistici, sono sprazzi di luce, disegnano quello che ciascuno vorrebbe essere e trovare. È questo, suggerisce l’Autore, il legame che salva. Proprio quel legame tra le generazioni che oggi appare spezzato. Il romanzo racconta storie che profumano di realtà nelle quali non è difficile scorgere frammenti di umanità: adolescenti che portano nel cuore un dolore sordo e muto, giovani che sanno tante cose ma hanno paura di affrontare la realtà e si rifugiano nella magia delle parole, anziani che hanno raccolto con pazienza, nel corso degli anni, quei segreti che danno sapore all’esistenza, quelle cose che nessuno sa.Sulla scena compaiono famiglie ricche di umanità e famiglie affettivamente anemiche, famiglie stabili e famiglie fragili. “Come stai?”, chiede la mamma alla figlia appena uscita da scuola. “Come stai?” e non la classica e banale domanda “Cosa hai fatto?”. D’Avenia suggerisce una nuova grammatica della relazione che guarda la persona e non soltanto il suo agire.

A volte le domande sono buttate lì senza neppure attendere una risposta, i genitori sono troppo occupati per seguire con attenzione i loro figli. I figli invece hanno bisogno di vedere genitori attenti alla loro vita, capaci di entrare con discrezione nelle loro vicende, senza giudicare con frettolosa superficialità, e capaci di leggere negli occhi quello che solo il cuore custodisce. La relazione è veramente educativa quando incoraggia e sdrammatizza, invita a non assolutizzare ambiti ed esperienze, sono tutti tasselli di un puzzle che solo gradualmente si compone in armonia. Solo chi sa attendere con pazienza – mi riferisco sia ai genitori che ai figli potrà vedere con gioia l’immagine compiuta.




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