Andata e ritorno

Dal freddo di un istituto al calore di una famiglia

Nell’epoca della crisi e dell’instabilità delle coppie crescono a dismisura in Italia le cause di separazioni. A questo dato inquietante segue una drastica diminuzione delle domande di adozione. I Tribunali italiani registrano un calo del 20-25% negli ultimi due anni. Eppure tanti, troppi sono ancora i bambini che attendono una famiglia. Abbiamo raccolto la storia di Luigi e Rosaria. Anni di attesa, il desiderio di un figlio, la gioia di essere famiglia.

Quando avevamo scoperto di non potere avere dei figli, avevamo pensato che fosse la cosa peggiore al mondo, solo quando ci siamo recati in Bulgaria per conoscere nostro figlio abbiamo capito che invece ciò che è davvero tragico è non poter avere dei genitori. Mi sembrava di vivere un incubo, mentre percorrevo quelle strade continuavo a ripetermi che mi sarei svegliata da un momento all’altro e che il più bel sogno della mia vita non poteva essere immerso in uno scenario infernale come quello. Eravamo ad un’ora di macchina da Sofia, la capitale della Bulgaria, in una piccola città della quale non saprei nemmeno pronunciare il nome. Ci avevano detto che potevamo andare a conoscere nostro figlio dopo anni di trepidante attesa e io e mio marito eravamo partiti subito con il cuore in gola, mordendo la strada che ci separava ancora dall’Istituto nel quale era ospitato il bambino.
Quello che pensavo un orfanotrofio degno della sua missione, non era altro che un casermone enorme. Le pareti erano spoglie, l’ambiente distaccato, asettico. Ovunque si sentivano voci di bambini, ma di fanciullesco quel posto, non aveva davvero nulla. Avevo freddo, anche se la temperatura era piuttosto gradevole. Ci accompagnarono in una piccola stanza dove ci attendeva un bambino, aveva solo due anni, piangeva terrorizzato e tremava come una foglia, forse anche lui aveva freddo come me. Pensai che se lo avessi preso in braccio, ci saremmo riscaldati l’uno nel tepore dell’altro e d’istinto lo feci. Lo misi sulle mie ginocchia e tanto bastò, mi guardò negli occhi, si rassicurò e dopo qualche istante disse: “Mamma! È mamma mia”. Non mi aveva mai vista. Non poteva sapere per quale motivo ero lì, il mio piccolo Davide, mi aveva chiamata così perché aveva riconosciuto istintivamente il mio abbraccio, il calore dell’affetto che già gli portavo, esattamente come una madre che ama suo figlio prima ancora di metterlo al mondo. Lasciarlo lì fu il momento più doloroso della nostra vita, ma dovevamo farlo, era l’iter burocratico. Fummo costretti a tornarcene in Italia per piombare in quella pozza di fango fatta di attesa, di ricordi e di paure. Il via libera ci giunse dopo circa nove mesi, ci dissero che potevamo andare a prendere Davide e noi ci precipitammo in Bulgaria senza attendere oltre. Fu bellissimo. Nostro figlio ci aspettava a braccia aperte, ed io mi affrettai a sollevarlo per portarlo via di lì; varcata la soglia d’ingresso però una ressa di bambini ci venne incontro, ci circondarono, cercarono di attirare l’attenzione nella speranza che portassimo via qualcuno di loro. Ricordo in particolare una bambina, gli occhi azzurri come il cielo, i capelli cortissimi, si avvicinò, mi prese la mano e disse: “Davide mamma? Io?”. Quella vocina animò le mie notti per settimane, anche nel periodo in cui ero felice perché finalmente avevo quel figlio che avevo tanto a lungo desiderato. A poco a poco si faceva strada dentro di noi, il desiderio di fare di più. Potevamo farlo, ne avevamo i mezzi e inviammo richiesta per un’altra adozione; avrei voluto una bambina, ma non osavo chiederlo e tuttavia, il 10 giugno del 2011 durante una celebrazione eucaristica, mi giunse una telefonata. Mi dissero che mi era stata affidata una bambina di tre anni e che potevo andare a conoscerla. Temevo di rivivere quello strazio e questa volta fu anche peggio. Quando arrivammo in un orfanotrofio diverso da quello in cui era stato Davide, una scolaresca di bambini ci salutò alzandosi in piedi e allineandosi accanto alle pareti. Erano silenziosi, spenti, privi del brio della loro età, ci salutarono con la manina come fu ingiunto loro, incastrati in un sistema di regole e orari, tipici di un ordine militare. Mio marito sospirò cercando di riprendere fiato, era talmente agitato che potevo sentire il suo cuore martellare rabbioso. Tutto quel dolore era davvero troppo per noi! Quando tocchi con mano l’inferno che un bambino deve provare in assenza degli affetti più cari, giustifichi tante brutture e distorsioni del volto umano. Arrivi lì nella convinzione di fare qualcosa per loro e invece nel bene o nel male, sono sempre loro a fare qualcosa per te. I figli di nessuno, quelli che si portano addosso l’etichetta dell’abbandono e che imparano a nutrirsi di dolore e rassegnazione. Quelli che soffrono all’ombra del mondo, dimenticati da tutti, finanche dai propri genitori. L’incontro con Sara fu bellissimo, molto simile a quello che avevo già vissuto. Trascorsero sei mesi, prima che potessi portarla a casa e lei ci ha aspettato tutti i giorni, seduta sulla panchina dove c’eravamo viste la prima volta e dove sapeva che sarei andata a prenderla. Oggi sono qui, tutti e due con noi e spesso mi capita di incantarmi nel guardarli dormire. Mi sembra che siano sereni e che nemmeno si ricordino di quello che hanno vissuto in Bulgaria. Io e mio marito racconteremo loro la verità, entrambi sapranno che non sono stati generati dalla nostra carne, ma che sono la nostra anima. Non voglio che crescano sentendosi dei diversi eppure talvolta, mi capita di scontarmi con l’indelicatezza della curiosità, di quanti seppure senza cattiveria, finiscono con l’additarli come quei bambini, quelli adottati. Davide e Sara, per me sono figli, a tutti gli effetti, senza distinzioni. Noi quattro insieme, siamo una famiglia, la famiglia Colurcio.




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