Educazione

Il figlio ignorato

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di Giovanna Pauciulo

Questione educativa: genitori non si nasce si diventa. Diventare padre e madre è il frutto di un cammino che non è affatto automatico e scontato. Possiamo applicare anche all’educazione un principio della sapienza antica: “nessuno può dare quello che non ha”.

Il primo figlio di una coppia di sposi è la coppia stessa. Per diventare buoni genitori gli sposi devono innanzitutto vivere pienamente il loro rapporto coniugale. Nella Lettera alle famiglie, pubblicata nel 1994 in occasione dell’Anno Internazionale della Famiglia, Giovanni Paolo II presenta la generazione come una sfida per l’unità coniugale: “I figli da loro generati dovrebbero — qui sta la sfida — consolidare tale patto, arricchendo ed approfondendo la comunione coniugale del padre e della madre. Quando ciò non avviene, occorre domandarsi se l’egoismo, che a causa dell’inclinazione umana al male si nasconde anche nell’amore dell’uomo e della donna, non sia più forte di quest’amore. Bisogna che i coniugi se ne rendano ben conto.”. È un linguaggio nuovo quello che il Papa usa in questa lettera, un modo nuovo di presentare la generazione dei figli. L’accoglienza della vita non è solo un compito che impegna i genitori a donare se stessi, ma anche un’occasione per rileggere la propria identità di sposi e di coppia. Nella misura in cui matura la coscienza del noi, i genitori sapranno anche donare amore ai propri figli.

Diventare genitori. Il processo educativo coinvolge tanti e diversi soggetti. Ma i genitori hanno senza dubbio una parte attiva e decisiva in questo percorso, sono loro a generare e spetta a loro perciò prendersi cura dei figli. Non devono perciò abdicare al loro compito, delegando gli altri; né devono lamentarsi perché ci sono anche altre (e spesso più agguerrite) agenzie educative. Nelle diverse fasi della vita, anche in quelle segnate da una maggiore autonomia, i genitori rimangono un essenziale punto di riferimento. Possiamo rappresentare la famiglia come una porta scorrevole, dalla quale si esce per immergersi nella società (scuola, aggregazione, mondo del lavoro) e per la quale si entra per ritrovare se stessi, per ritornare a respirare un clima sereno. L’impegno educativo inizia fin dal concepimento: quella vita che comincia appena a sbocciare sul piano biologico è già oggetto di attenzione e cresce in relazione alle cure che riceve. Inizia così un legame che attraversa l’intera esistenza e che in ogni tempo si arricchisce di nuove esigenze e responsabilità. L’errore che molti genitori commettono, spesso in buona fede, è di ritenere di saper svolgere convenientemente il compito educativo nell’infanzia e nella fanciullezza e non preoccuparsi perciò di acquisire quella formazione pedagogica che oggi appare sempre più necessaria. Dal momento che l’educazione non consiste anzitutto  nell’istruzione, il ruolo della famiglia diventa indispensabile, possiamo anche dire che acquista un valore fondativo nel senso che è la pietra angolare dell’edificio educativo che sarà poi costruito con l’intervento di molti altri agenti. L’impegno educativo inizia nel tempo della gravidanza e accompagna, con diverse modalità e diversa intensità, tutte le fasi della vita. Le forme della genitorialità cambiano a seconda delle stagioni ma rimane il desiderio e l’impegno di stare accanto ai figli per trasmettere le ragioni della vita. Non bisogna dimenticare questo dato perché descrive efficacemente il compito peculiare affidato alla famiglia e lo distacca da quello svolto da tutti gli altri.

L’esperienza educativa vissuta nella prima fase appare sempre più decisiva. Nascere significa infatti trovarsi in balia di qualcuno, il neonato porta con sé una domanda di essere che evidentemente egli non è capace di soddisfare. È qui che interviene la famiglia, essa si presenta come una comunità capace di rispondere ad un bisogno. In essa è come presente l’intera società che attraverso la famiglia accoglie quella nuova creatura e la inserisce nella più vasta comunità umana. Qual è il ruolo che svolge la famiglia in questo periodo? Dal punto di vista strettamente antropologico possiamo anzitutto notare che l’educazione si presenta come relazione, il bambino si viene a trovare dentro una rete relazionale segnata dalla gratuità, che è l’espressione più limpida dell’amore. Egli prende coscienza della sua identità all’interno di questa esperienza, la coscienza di essere amato gratuitamente lascia in lui una traccia ineliminabile che può generare successivamente un progetto in cui la responsabilità e la solidarietà diventano criteri fondamentali. 

In questa fase la responsabilità della famiglia è insostituibile, ogni altra delega rappresenta una deviazione rispetto al percorso ordinario e non potrà che colmare parzialmente il vuoto educativo. Se viene a mancare la famiglia, nel senso tradizionale che questo termine ha assunto, l’impegno educativo assume contorni più sfumati e diventa oggettivamente – cioè al di là delle buone intenzioni dei soggetti chiamati a svolgere questo ruolo – più difficile. Ma il bene dei figli è davvero il cuore della vita familiare, il valore che soggiace a tutti gli altri? In realtà accanto ad una cultura puerocentrica, che ha messo cioè al centro il bambino, oggi si va affermando una tendenza che pone in primo piano il bene stesso dei genitori, gli stessi figli sono desiderati e accolti solo in ragione del benessere genitoriale. I dati sulle separazioni, sull’aborto e la stessa fecondazione artificiale mostrano come il barometro sia leggermente spostato sul bene degli adulti piuttosto che su quello dei minori. In realtà il problema non è quello di scegliere un bene al posto dell’altro ma di scegliere la famiglia come bene comune nel quale trovano il loro benessere anche gli altri soggetti. 

La sfida. La generazione è una dinamica che coinvolge anche i genitori, anche loro infatti crescono insieme ai figli. Diventare padre e madre è un progetto: un processo che non può essere definito una volta per tutte. L’essere figli è la prima e naturale condizione dell’uomo sulla terra. Diventare padri e madri è il frutto di un cammino che non è affatto automatico e scontato. Possiamo applicare anche all’educazione un principio della sapienza antica: “nessuno può dare quello che non ha”. In un bellissimo film che narra la storia di un capo tibetano, un anziano membro del villaggio, dice al giovane che ha saputo conquistare il ruolo di leader: “Ricorda bene che può essere capo solo colui che obbedisce agli dèi”.

All’inizio del 2008, Benedetto XVI ha indirizzato alla diocesi di Roma una lettera per richiamare l’urgenza dell’educazione. La Lettera, come è ovvio, non parlava solo alla diocesi di Roma ma invitava tutti a prendere in seria considerazione la questione. Il documento non ha avuto l’attenzione che meritava non solo sui mass-media (ed è naturale) ma anche all’interno della comunità ecclesiale non ha trovato una doverosa risonanza. Anche questo purtroppo può essere interpretato come il segnale della scarsa attenzione che dedichiamo a questa problematica. Il documento è passato troppo in fretta, come oggi avviene. Si tratta invece di una Lettera  breve ma interessante: il Papa invita tutta la comunità ecclesiale (e non solo) a compiere un’attenta riflessione sulla questione educativa. Questo compito, che appartiene naturalmente alla famiglia e più in generale al mondo degli adulti, oggi ha assunto una sempre maggiore rilevanza, fino ad apparire un banco di prova decisivo. Se, infatti, gli adulti non sono capaci di trasmettere le ragioni del vivere alle nuove generazioni, rischiamo di avventurarci nel futuro trascurando le radici della civiltà (Cf Gaudium et spes, 31).

Il contesto culturale rende assai più difficile l’opera educativa. Da una parte siamo figli di un’epoca in cui la tecnologia crea una permanente discontinuità con il passato. E questo fa apparire l’educazione come un patetico tentativo di trasmettere i valori di un passato che alle nuove generazioni appare ormai sepolto. D’altra parte, il relativismo oggi imperante toglie valore ad ogni proposta morale, che rimane il cuore dell’impegno educativo. Gli educatori si sentono così spaesati e disarmati. Molti rinunciano, rassegnati. La scuola ha abbandonato ogni ambizione educativa e si limita alla trasmissione di conoscenze. Anche la famiglia soffre questa situazione e tanti genitori vivono la débacle educativa come un autentico fallimento.

Benedetto XVI, da teologo raffinato, conosce assai bene le difficoltà che ostacolano, anzi che soffocano sul nascere l’impegno educativo. Per questo, da uomo di fede, rinnova l’invito che Gesù rivolge agli apostoli: “Non abbiate paura” (Mt 14,27). La paura, specie quando è alimentata dalla rassegnazione, consiglia di battere in ritirata e ritiene inutile ogni sforzo. La Lettera del Papa, invece, invita a non chiudersi nella sterile lamentazione e ad affrontare la sfida educativa con quella forza che deriva dal Vangelo. Il termine sfida fa capire che questo compito non è facile ma neanche proibitivo: una sfida è una “provocazione” che mette in crisi ma anche una sollecitazione a darsi da fare, trovando le risorse necessarie per combattere la buona battaglia. In fondo, questo è lo scopo principale del breve documento: sconfiggere quella sfiducia, che serpeggia e fa sempre più discepoli nel mondo degli adulti. Il Papa offre anche alcune indicazioni, molto semplici e concrete, ma possono diventare la premessa di una nuova coscienza della responsabilità educativa e generare di conseguenza un nuovo impegno.

 

 




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