III DOMENICA DI PASQUA

Il linguaggio dell’amore

di fra Vincenzo Ippolito

La nostra famiglia è chiamata alla stessa dinamica dei primi discepoli. Gesù si fa vedere se sto con l’altro, se ho il coraggio di non allontanarmi da lui, di mettermi con umiltà ad ascoltarlo, facendo silenzio in me perché la zizzania del giudizio non impedisca al seme del suo raccontarsi di cadere nel terreno buono del mio cuore.

Vangelo (Lc 24,35-48)

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.

Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.

Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».


Commento

È ancora il giorno di Pasqua, ma non è Giovanni, il discepolo amato a parlare, è san Luca, il caro medico, seguace di Paolo, ad offrirci la narrazione che la liturgia ci dona in questa terza tappa del cammino verso la Pentecoste.

Il brano si lega a quello che precede (cf. Lc 24,13-35), al racconto, cosi denso e ricco di particolari, nel quale due discepoli, in fuga verso Emmaus, incontrano il Risorto sotto mentite spoglie e si lasciano guarire nel cuore dalla sua Parola, illuminare negli occhi, incapaci di riconoscerlo, nello spezzare del Pane. Senza indugio, scrive Luca (cf. 24,33), riprendono il cammino – il Risorto non è più accanto a loro, vive in loro, nel fuoco acceso dalla sua Presenza sperimentata, pur senza consapevolezza – e a Gerusalemme trovano fratelli, ricchi anch’essa della gioia donata dal Signore. Nella comunità tutti hanno il dovere di parlare, di comunicare la fede sperimentata nella propria carne, tutti, senza distinzioni, hanno il diritto di ascoltare perché non è bene privarsi della ricchezza dell’altro, della sensibilità sua abitata dalla grazia della Pasqua. È in questo intreccio tra parole donate nel racconto e parole accolte nell’ascolto che ogni comunità si edifica e cresce. La Chiesa, la mia parrocchia, la mia famiglia nasce come un piccolo seme e si edifica fino ad essere un grande albero, in questa dinamica vitale nella quale il dialogo fa crescere la relazione e l’amore accompagna il sedimentarsi della parola dell’altro nel mio cuore e del mio racconto nel suo. È così che si vede Dio, il Risorto si fa presente, il Signore, spesso da noi pensato come lontano, si fa vedere, toccare, generando la gioia. È nel dialogo costruttivo ed attento, rispettoso ed umile, che Dio passa come l’Angelo dell’Esodo (cf. Es 12,23) per salvare coloro che sono segnati del sangue dell’Agnello. Le parole nostre, infatti, devono avere il segno della Pasqua, devono passare, per generare vita e gioia, nel costato del Crocifisso Risorto. Come san Paolo, devo avere “la parola della croce” (1Cor 1,18) sulle labbra per costruire relazioni solide che testimonino il dono di Dio per ogni creature. Solo le parola infuocate, nate da labbra toccate dai carboni di Dio (cf. Isaia 6,6-7) rendono presente il Risorto e lo spingono ad “obbedire” all’uomo perché Dio sempre si rende presente tra coloro che lo amano, lo cercano e confidano nel suo amore. È Lui ad averlo promesso “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” (Mt 28,20).

Com’è grande il potere delle parole nostre, spingono Dio a venire, farsi vedere, toccare, ascoltare. La parola tra i discepoli del Signore “fanno” il sacramento, lo celebrano, lo esprimono, lo chiariscono, ovvero rendono visibile il Signore. Durante la celebrazione eucaristica, infatti, le parole della consacrazione – in quanto parole di Gesù, pronunciate dalla Chiesa per suo comando – rendono presente il Signore perché Egli si è legato nell’obbedienza d’amore a quel nostro raccontare Lui. Così noi viviamo il sacramento dell’Eucaristia e lo percepiamo Presenza di Dio (è Gesù presente sacramentalmente nel Pane e nel vino) e lo Spirito Santo rende noi sacramento di Gesù tra i fratelli con la forza dell’Eucaristia (noi siamo Presenza di Cristo nel mondo). Quale umiltà è quella che Dio vive ancora per amore nostro nel pane e nel vino! Allo stesso modo, le parole degli sposi, rese sacramento nuziale per volontà di Cristo, legano lo sposo e la sposa in una sola carne e generano l’amore fedele, l’offerta reciproca dove l’altro è per me presenza viva di Dio che nell’altro si lascia vedere, toccare, ascoltare, accogliere. Ecco perché la parola non va mai sciupata tra gli sposi, mal utilizzata nella relazione con i figli, disprezzata, lasciando che parola altre – parole inutili  e frivole – riempiano il tempo e rendano infecondi i nostri silenzi. Le parole sono le pietre miliari delle nostre relazioni, ma spesso divengono, per il nostro egoismo, pietre gettate con violenza per lapidare e seminare morte.

Quando il linguaggio in famiglia è intriso di preghiera, di Parola di Dio ruminata, Gesù, il Risorto viene in persona e sta in mezzo a noi. È Lui ad averlo promesso e la sua parola è vera: “Io sono con voi fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Il Signore sta in mezzo ai suoi, si fa vicino a coloro che sono nel dubbio e li guarisce, nella notte e li illumina, nella tristezza e dona loro la gioia. Se riusciamo, nelle situazioni di difficoltà delle nostre famiglie, a far posto al Signore Risorto passato attraverso la morte, saremo da Lui resi capaci di accogliere nella debolezza la sua forza, nel dubbio la certezza dell’amore, nell’odio la guarigione della sua dolce Presenza. Gesù in persona continua ad essere maestro e medico soprattutto nelle famiglie che fanno difficoltà a credere all’amore dopo tanto tempo, ad affidarsi all’antica promessa nuziale capace di generare vita in pienezza.

La famiglia è il luogo naturale dove si racconta Dio e si trasmette il cammino di fede ai propri figli. È nella famiglia che l’esperienza si intreccia con la vita illuminandola, la quotidianità fa da pungolo alla fede perché si aguzzi la mente e l’occhio nel ricercare la presenza reale e misteriosa del Signore nella propria storia. Gesù si fa vedere nella comunità che crede, che lo ricerca, che parla di Lui, che ascolta di Lui, che non si dà pace e non lascia tempo neppure alla notte per comunicare la gioia del suo incontro. La nostra famiglia è chiamata alla stessa dinamica dei primi discepoli. Gesù si fa vedere se sto con l’altro, se ho il coraggio di non allontanarmi da lui, di mettermi con umiltà ad ascoltarlo, facendo silenzio in me perché la zizzania del giudizio non impedisca al seme del suo raccontarsi di cadere nel terreno buono del mio cuore. Gesù è in mezzo al mio essere una carne sola con l’altro/a che Egli stesso mi ha donato, è Lui il collante che ci tiene uniti nell’amore e nel dono, senza di Lui non possiamo fare nulla (Gv 15,5), senza la sua grazia non siamo una famiglia che lo rende presente nel mondo di oggi.

E nel suo stare in mezzo a noi egli continua  a parlare, insegnare e a spingerci a annunciare gli uni agli altri “la conversione ed il perdono dei peccati” (Lc 24,49) e a rendere credibile e visibile la bellezza dell’amore che fa sempre nuove tutte le cose.

 




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