V Domenica di Pasqua

Senza Gesù non c’è futuro

di fra Vincenzo Ippolito

La famiglia deve essere scuola di autenticità: i figli non devono vedere discrepanze o pareri contrastanti tra i genitori e se questi ci sono, le discussioni devono condurre a giocare a carte scoperte la partita del proprio rapporto di coppia, perché i giovani devono vedere che non si bara quando c’è di mezzo l’amore.

Vangelo (Gv 15, 1-8)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.

Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.

Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Commento

Siamo nel cenacolo, intorno al Maestro, gustando gli ultimi momenti della sua vita terrena. Il clima è intenso e mentre la tristezza sembra velare il volto dei discepoli, Gesù apre il cuore, permettendo ai suoi amici di bere a larghi sorsi dalla sorgente della sua intimità con il Padre. I discorsi di Gv 13-17 – solitamente definiti di “addio” – sono, infatti, il Vangelo del cuore di Gesù,  i ricordi che dell’evangelista Giovanni affida alla sua comunità perché l’oblazione del Maestro modelli la sequela dei discepoli.

Gli otto versetti che la liturgia oggi ci dona (Gv 15,1-8) sono il centro di questi grandi discorsi, quasi un cuore nel corpo. In essi il Signore, parlando della circolarità dell’amore tra Lui, il Padre e i discepoli ricorre all’immagine della vite e dei tralci, simbolo caro alla storia dell’antico Israele (cf. Is 5,1-7). Ma questa volta non è il popolo dell’alleanza la vigna scelta e piantata da Dio, è Gesù la vite, la vite vera: solo il suo amore al Padre è obbediente, solo la sua risposta alla volontà di Dio ha seguito in tutto il comandamento ricevuto. Tutta l’attenzione del testo è sull’aggettivo “vero” che spesso sfugge, nella lettura affrettata del brano. La presentazione che Gesù fa di se stesso è basata sull’autenticità. “Un albero – aveva già detto in precedenza – si riconosce dai frutti”, così anche una vite è vera se produce un raccolto abbondante, se si lascia coltivare con docilità, se non si oppone alle cure amorose dell’agricoltore.

È quanto capita anche tra noi, nel tessuto delle nostre famiglie. Un matrimonio, infatti, è vero e l’amore reciproco tra gli sposi si può definire autentico se la promessa fruttifica nell’obbedienza quotidiana e nelle ricerca sincera e senza pregiudizi della volontà del Padre. Un amore non scandito da parole autentiche e da gesti veri che riflettono nella vita i moti del cuore ed i pensieri dell’animo, chiudono i rapporti nel formalismo e nell’apparenza e tutto diviene vanità, ogni cosa perde di senso, si parla sì, ma non c’è scambio, le parole trasmettono informazioni, ma non generano la vita nel cuore dell’altro perché non portano in sé la volontà di trasmettere la vita. È quanto capita anche con il linguaggio del corpo: se dinanzi all’altro non si ha il coraggio di spogliarsi del proprio io, la nudità non è più il riflesso del desiderio del cuore e così, come Adamo ed Eva, si intrecceranno foglie che coprano nelle membra l’incapacità del cuore di vivere nella verità.

Gesù, invece, è vero, è sincero perché sa che, come creatura, ha bisogno di Dio Padre, della cura della sua mano, dell’amore e della tenerezza dei suoi gesti. La vite è debole, fragile, va curata, accompagnata e Gesù non ha paura di essere vero nella debolezza, autentico nel manifestare il proprio bisogno. Il cuore dell’uomo ha estremo bisogno di verità e di autenticità e se questo lievito, questo sale manca alle famiglie cristiane e alla nostre comunità il mondo come imparerà che Cristo Gesù è la via, la verità e la vita per ogni uomo? La famiglia deve essere scuola di autenticità. Mai i figli non devono vedere discrepanze o pareri contrastanti tra i genitori e se questi ci sono, le discussioni devono condurre a giocare a carte scoperte la partita della propria vita e del proprio rapporto di coppia perché i giovani devono vedere che non si bara quando c’è di mezzo l’amore.

Altro passaggio significativo del testo – dopo il primo rappresentato dalla relazione con se stessi: io mi conosco in verità, io mi faccio conoscere in maniera autentica – è il rapporto Gesù – Padre  simile alla relazione vite – agricoltore. Dio, sembra insegnare tra le righe il Maestro, non pota e taglia a caso, ma persegue sempre il bene della sua creatura. E questo perché l’amore non è dispotismo o capriccio, ma cura dell’altro, capacità di vedere e porre dei gesti che, pur se dolorosi e non compresi in principio, portano in futuro frutti abbondanti. La cura della persona amata, la reciproca capacità di correggersi e di “tagliare” gesti e parole non consoni alla propria identità di sposi cristiani è l’impegno quotidiano di ogni vita condivisa nell’amore. Quante potature sono necessarie perché l’amore produca frutto! Un amore che non richiede potature, ma lascia che l’altro cresca senza ordine ed armonia, una amore che non accoglie, per il bene proprio ed altri, il rimprovero costruttivo ed il confronto pacato non è modellato sul rapporto Gesù – Padre e si espone a tagli definitivi, a rotture che portano alla fine del rapporto. Non si è agricoltori della vita dei figli, chiamati ad essere come “virgulti intorno alla mensa”, se non si interviene con determinazione perché il cammino sia indirizzato al bene; non si è sacramento dell’amore di Dio se la propria sposa non è coltivata e considerata come “vite feconda nell’intimità della propria casa”. La famiglia è il laboratorio dove si apprende la difficile arte della correzione reciproca, dell’accompagnamento paziente, dove non si guarda l’orologio perché ciascuno ha i suoi tempi di crescita e di maturazione. Tra le mura domestiche si apprende, infatti, che l’altro ti aiuta nel togliere la trave dal tuo occhio, mentre tu, con delicatezza, sei invitato a liberare la pupilla dell’altro dalla pagliuzza. È un’arte difficile quella del prendersi cura dell’altro. Spesso si imbocca la strada alternativa dell’accontentare o cedere alle moine altrui: quanti cedimenti per una pace formale, quante volte si scende a patti, incapaci di una ricerca sincera del vero e reciproco del bene! Invece è necessario  camminare insieme in un continuo discernimento per produrre “più frutto”.

In questo itinerario di reciprocità, la parola di Gesù ci sostiene e rende le parole nostre vie di purificazione del cuore, perché il campo della relazione sia sgombro da pregiudizi. In famiglia più si parla con il cuore – se non si parla con il cuore ed in sincerità in famiglia dove si potrà farlo senza la paura di essere giudicati e condannati? – più si ascolta con docilità, senza pretendere di averla vinta e più si ricerca insieme la luce ed i problemi, anche quelli più difficili, trovano nell’amore e nel dialogo via di uscite e soluzione.

Rimanete in me” dice Gesù ai suoi quasi pregandoli mentre nel loro cuore il buio della paura e la forza della fuga prendono il sopravvento sulla volontà di continuare ad essere discepoli. Gesù chiede di rimanerne con lui mentre gli apostoli sono già pronti a scappare da Lui. Parole inutili le sue? Supplica poca realista? No, la sua è la richiesta che nasce dall’amore dell’altro, dal vero suo bene, dalla volontà di salvarlo in extremis, di redimerlo mentre, come il buon Ladrone, tutto sembra inutile. Un amore che non rimane legato all’altro, che abbandona il cuore dove ha liberamente scelto di abitare per tutti i giorni della sua vita,  è falso e nulla è resa la promessa d’amore scambiata, si è perso il sapore del sale, non si ha più la forza, come il buon lievito, di far fermentare la massa della vita. L’amore va nutrito con la linfa della volontà e del sacrificio, altrimenti, come il tralcio, secca e non è più buono a nulla. La famiglia è la vena che fa scorrere il sangue capace di nutrire la vita nell’amore e nel dono. Solo la famiglia può restituire al tessuto della società la vocazione autentica di ogni uomo a costruire, senza mai dividersi, la civiltà dell’amore.

Rimani con me che offro la mia vita per te!”. Dovrebbero dirsi questo i nostri fidanzati e gli sposi che desiderano vivere ogni giorno la bellezza della vita di Dio in loro: “Rimani in me, resta con me, rimani nel mio cuore, sii ancorato al mio braccio, non ti allontanare nel mio buio, non lasciarmi solo nella mia notte!”. Ogni famiglia deve rimanere innestata su Gesù, nel mistero della sua Pasqua se vuole produrre frutti e rimanere salda. Non basta la buona volontà di essere migliori, per comprendersi, per costruire una famiglia, per sperare in un domani luminoso. Senza Gesù non c’è futuro, senza la sua grazia la vita non ha senso, senza la sua scuola brancoliamo nell’egoismo, senza il suo Vangelo camminiamo lontani dalla gioia vera.




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1 risposta su “Senza Gesù non c’è futuro”

Grazie di cuore, fra Vincenzo! Io sicuramente non sono tra quelle che si lasciano coltivare con docilità ma è pur vero che se non restiamo legati a Lui, la nostra vita diventa sterile e infeconda.

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