XIV Domenica del T. O. – Anno B

La fede riveste la nostra debolezza

San Paolo

di fra Vincenzo Ippolito

È questo che gli sposi cristiani devono dire a Dio tenendosi per mano “Signore, la grazia che tu ci doni ogni giorno ci basta, sostiene il nostro cammino e riscalda i nostri cuori!”. Non è questa forse la traduzione in chiave sponsale e di spiritualità coniugale del “Ti basta la mia grazia, la forza si manifesta nella debolezza”?

Testo (2 Cor 12, 7-10)

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.

A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».

Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.


Commento

Ogni domenica, per nutrire e sostenere la nostra fede, la Liturgia ci offre tre letture che sono il centro attorno a cui si costruisce la prima parte della Celebrazione eucaristica, nota come Liturgia della Parola. La Prima e la Terza Lettura – prese rispettivamente dall’Antico Testamento e dai Vangeli – sviluppano solitamente uno stesso tema, la Seconda, invece, tratta dalle Epistole del Nuovo Testamento, propone delle situazioni concrete nelle quali le prime comunità cristiane, guidate per mano dagli Apostoli, traducono la professione di fede nell’ordinarietà della vita.

Proprio la Seconda Lettura della XIV Domenica del Tempo Ordinario – pochi versetti, appena quattro presi dalla Seconda Lettera di Paolo ai Corinzi – guiderà la nostra riflessione e preghiera.

Com’è difficile camminare insieme!

Non siamo abituati a meditare sulle Lettere di San Paolo, anche se per la Chiesa sono una miniera inesauribile, come tutti i Libri della Sacra Scrittura. Difatti, Santi come Teresa di Gesù Bambino proprio negli Scritti paolini hanno trovato la voce del Signore che ha rivoluzionato la loro vita, spingendoli a grandi passi sulla via della perfezione evangelica e della santità. È quanto può capitare anche a noi se ci accostiamo alla Scrittura con la fede dei Santi!

Il brano proposto dalla liturgia odierna – 2 Cor 12, 7-10 – è parte integrante della Seconda Lettera che l’Apostolo Paolo indirizza alla giovane chiesa di Corinto. Dalla semplice lettura di entrambi le Epistole ci si accorge che il rapporto tra Paolo e i cristiani di quella comunità non è dei più semplici. Difatti, non sempre l’Apostolo è accolto con gioia e neppure è considerato a buon diritto padre e maestro; altri predicatori hanno messo in cattiva luce il suo ministero apostolico, giudicato poco incisivo e non accompagnato dai veri segni della potenza del Signore. Eppure, nel suo servizio per il Vangelo, Paolo non getta la spugna, non si ritrae, come il Maestro, non sottrae la faccia agli insulti e agli sputi (). Non darsi per vinta è il segno che l’amore non indietreggia, il non fermarsi davanti alla durezza è la prova che l’amore, quello che ha in Dio la sua sorgente, è più forte di ogni morte. A Paolo non interessa la difesa personale del suo ministero, quanto, invece, la verità del Vangelo ed il bene di quelli che da lui sono stati generati nella vita di fede. Egli lavora non per il suo tornaconto, né per un vanto personale, ma per l’unità della chiesa e per costruire la comunione tra i fratelli. L’Apostolo, infatti, non si dà posa in questo compito che è il cuore della preghiera di Gesù al Padre – Che tutti siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola – perché sa bene che dove serpeggia l’invidia e la gelosia, la mormorazione e la superbia è presente il fumo di Satana, non il dolce Profumo di Cristo Signore.

Quanto le nostre famiglie devono apprendere da San Paolo la costanza nell’amore e la perseveranza nel servizio! Le parole – sembra dire l’Apostolo – non bastano per essere famiglia costruita sulla salda roccia di Cristo. È necessario passare attraverso grandi tribolazioni e soprattutto nella prova del rifiuto e del giudizio della persona che più si ama. Quale grande crogiuolo di sofferenza è mai questo! Tu ami una persona, ti dai pensiero per lei, ti angosci per il suo dolore, tremi per la sua vita, lavori perché lei fiorisca e poi, alla fine, ti senti non capito né accolto, rifiutato e mal giudicato. In un attimo ti senti fallito, ti sembra che nulla abbia più significato e vorresti gettare la spugna. Proprio allora è necessario rimanere, ascoltare l’insulto, accogliere l’accusa, incassare il rimprovero, confidando nella potenza della Pasqua di Gesù. Non serve controbattere, neppure difendersi. Il fuoco dell’altrui ira aumenta se con le mie parole voglio domarlo, difendendomi e presentando le mie idee. Paolo ci insegna a saper trovare tempi e modi consoni, a pazientare e magari a scrivere con calma quella lettera che, scrivendola, fa cadere il rimprovero e fa apparire solo l’amore ed il vero bene dell’altro. Camminare insieme è possibile se, dinanzi al muro dell’altro, non rispondo con la cortina delle mie paure, ma offrendo l’orizzonte del mio cuore accogliente.

Ogni rosa ha la sua spina

Paolo non ha paura di farsi vedere debole e di parlare con il cuore a coloro che sono stati pronti a farsi suoi nemici. Un padre non tiene conto del male ricevuto, tutto dimentica perché perdona l’inesperienza dei figli e i loro colpi di testa spesso compiuti più per caparbietà che per vera convinzione. Parlare della propria difficoltà è segno non di debolezza, ma di forza e di volontà di condivisione. Tenere, invece, nascosto qualcosa per viltà o perché si ha paura dell’altro, di ciò che può pensare o credere, rompe la fiducia e spezza la possibilità di un incontro sincero. L’Apostolo parla senza vergogna, i suoi devono sapere la sua difficoltà perché anche essi un giorno si troveranno in situazioni simili.

Il raccontare è alla base della vita familiare. Le esperienze si tramettono di generazioni perché i figli apprendano dagli errori e dalle cose buone dei genitori. Se in una società la trasmissione si interrompe e la catena del racconto si spezza, la storia si ferma e l’esperienza dei padri non è più lievito per la farina della madia dei figli. La storia è maestra di vita – historia est magistra vitae –  e Paolo sa che il parlare di quello che sta vivendo nella sua carne può sostenere il cammino dei fratelli e figli nella fede.

Nelle nostre famiglie dobbiamo trovare il coraggio di parlare dei problemi che viviamo. L’omertà è da bandire e il dire a se stessi “Meglio non dire nulla, riuscirò a cavarmela da solo!” è una tentazione diabolica da fugare con tempestività e senza vuoti raggiri di parole che sono giustificazioni stupide dinanzi a se stessi. Non devo togliere all’altro la possibilità di sostenermi nella prova, anche del semplice sapermi nella tribolazione. Un suo sguardo mi può salvare dalla disperazione, la sua semplice presenza mi può dare forza nella sofferenza. L’altro mi accoglie anche se debole, mi ama anche se nella tribolazione non riesco a stare in piedi.

San Paolo parla senza paura. La sua difficoltà è come una spina che porta nel corpo, soffre senza posa, ma sa, grazie a quella difficoltà, di poter non soccombere nella superbia. La prova è l’antidoto alla superbia. Troppo spesso ci sentiamo migliori degli altri, come il fariseo nel tempio, e siamo pronti ad accusare gli altri senza pensarci due volte. La prova, invece, mi ricorda che anch’io sono fragile e posso cadere, che la difficoltà è parte della mia creaturalità, che non sono perfetto, ma che, in ogni momento, posso stringere la terra dalla quale un giorno Adamo fu tratto e plasmato come primo uomo sulla terra. La prova – non lo si dirà mai abbastanza – è nostra sorella germana. Nasciamo dalla prova – il parto per una donna è la prova della sua capacità di passare attraverso la sofferenza per donare vita – e nella prova maturiamo e diveniamo grandi. La nostra vita è come una rosa, fiorisce solo dopo che lo stelo si è arricchito di tante spine, quasi come una scala che conduce alla meta. Paolo non specifica di quale sofferenza si tratta – per alcuni la spina che fa soffrire l’Apostolo è la mancata comunione nella comunità di Corinto, per altri situazioni personali di dolore – e questo permette a ciascuno di riconoscere nella spina paolina la propria croce, la difficoltà che si sta attraversando. La sofferenza esiste nel mio cuore e nel mio corpo – sembra dire l’apostolo a se stesso – ma anche in questo il Signore mi parla, mi sostiene, è il mio Maestro e Signore.

Pregare per il bene

Dinanzi alla difficoltà, come spesso capita anche a noi, la prima cosa che si chiede è la totale liberazione. L’esperienza dell’Apostolo ci rincuora, non siamo i soli a chiedere che le nubi nere delle difficoltà non offuschino il cielo sereno delle nostra gioia. “A causa di questo per ben tre volte ho chiesto che l’allontanasse da me” (v. 8). Dio è sempre pronto ad esaudire le nostre richieste, se non lo fa è perché le nostre domande sono sbagliate, ovvero non sono per il nostro vero bene e per la nostra crescita. Un genitore, quando non esaudisce un figlio, non è per cattiva volontà, ma perché le richieste spesso non sono buone o perché mancano le condizioni perché la domanda venga esaudita. Così fa anche Dio con noi. E nella preghiera il Signore risponde, dona la luce, fa comprendere la sua volontà: non si ha bisogno di altro, ciò che la basta è la presenza sua. Vivere la prova sapendo che Lui è con noi è la vera liberazione, liberazione dalla paura e dall’angoscia, dalla tristezza e dalla solitudine.

Le nostre famiglie devono diventare scuole di preghiera. Non basta insegnare le formule classiche per rivolgersi a Dio. Questo risulta troppo poco. I genitori devono condurre i propri figli a vivere una relazione matura con Dio, a sperimentare il vero atteggiamento che rende autentica la preghiera: la fiducia, l’abbandono e la ricerca costante della volontà del Padre. La preghiera vissuta unicamente come richiesta non basta perché è segno che il nostro rapporto con il Signore non è cresciuto e che noi vogliamo solo da Lui qualcosa, ma noi, di nostro, non vogliamo mettere nulla. L’atteggiamento nella preghiera vuol dire orientamento del cuore. Se io chiedo qualcosa a Dio io sono più interessato a ciò che chiedo e non tanto a Colui a cui chiedo. Il Signore che mi sta dinanzi è per me più grande ed importante di tutto ciò che posso desiderare e chiedere. Nella preghiera devo chiedere LUI, la sua presenza, la sua grazia. Non chiedere delle cose, ma domandare Lui e Lui solo. Se i figli non vengono educati in questa difficile arte non comprenderanno mai la paternità di Dio e non entreranno mai nel mistero della preghiera come ricerca della volontà del Signore che è sorgente di vera gioia per ogni figlio.

Nella vita ciò che conta è la presenza di Dio e dell’altro. Inutile perdersi in mille cose, l’altro mi riempie con il suo amore, non ho bisogno che mi colmi di regali. La sua vita è per me segno del suo amore e questo mi basta. Se l’amore non mi basta è segno che l’amore non c’è o che l’altro non me ne dona abbastanza oppure che io non sono disposto ad accogliere l’acqua dell’amore che Dio riversa nel mio cuore attraverso la fonte del cuore della persona che mi è accanto. Guardando negli occhi la persona che ho scelto come mia costola e mia carne, sarebbe bello poterle dire “Mi basti tu, il tuo amore! Tu vali più di tutto l’oro del mondo! Con te non temo neppure la sofferenza”. È questo che gli sposi cristiani devono dire a Dio tenendosi per mano “Signore, la grazia che tu ci doni ogni giorno ci basta, sostiene il nostro cammino e riscalda i nostri cuori!”. Non è questa forse la traduzione in chiave sponsale e di spiritualità coniugale del “Ti basta la mia grazia, la forza si manifesta nella debolezza” (v. 9)?

Dimori in me la potenza di Dio

È bello vedere il cambiamento di Paolo: nella prima parte (vv. 7-8) chiede di essere liberato dalla prova, in seguito (vv. 9-10), edotto dalla voce di Dio, non domanda più la liberazione, ma accoglie con gioia la sua debolezza e si riconcilia con la sua difficoltà perché sa che non è solo nella prova. La Parola di Dio, la voce del Signore ci cambia se noi ci lasciamo invadere dalla proposta che Egli ci fa. La Parola di Dio ci chiede la conversione del cuore e la trasformazione della vita, la stessa compiuta da Paolo attraverso la totale confidenza nella grazia del Signore.

Quante famiglie vivono ogni giorno la prova sorretti dalla grazia di Dio! Quanti coniugi portano con amore e dedizione l’handicap di un figlio sapendo che non sono soli e che manifestano misteriosamente la forza che viene da Dio! Quanti figli nella debolezza dei propri genitori rivivono la passione del Signore e nel servizio d’amore perseverante e silenzioso trovano al forza di vivere nella gioia!

La debolezza rivela la forza perché in noi dimora la potenza di Cristo. Sì, in noi, dimora la potenza di Cristo, il suo Spirito a cui nulla è impossibile. La nostra vita, la nostra carne, l’essere una cosa sola, la nostra famiglia è la dimora di Dio, il luogo che Lui si è scelto per essere tra gli uomini Dio con noi.




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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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1 risposta su “La fede riveste la nostra debolezza”

Un passaggio significativo quello che propone il padre in questo commento. La fede è una grande consolazione perchè ci dona quella speranza che non delude le attese del cuore…

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