storie

In Italia ho trovato la mia seconda famiglia

strada

di Silvia Sanchini

Ho deciso di dare voce alla storia di Abdoul, arrivato in Italia a 14 anni, in un viaggio della speranza dal Marocco, costato molti soldi ai suoi genitori. Oggi va a scuola, ascolta musica italiana e legge i giornali del nostro Paese. È stato accolto e una nuova vita gli è stata donata.

Quando sono arrivato in Italia avevo 14 anni. Ero poco più che un bambino, ma mi sentivo un uomo. Avevo viaggiato per settimane – non so nemmeno dire quante – nascosto in un camion che trasportava pneumatici. La mia famiglia aveva pagato più di 5.000 euro per farmi fare quel viaggio. Abbiamo attraversato il Marocco, la Spagna, la Francia…e infine l’Italia. Il camion mi ha lasciato ai bordi di una strada, nei pressi di Rimini. Era il 12 febbraio e faceva freddo, ma io avevo soprattutto sete. Sentivo dentro lo stomaco come una voragine, qualcosa che mi risucchiava, non riuscivo a capire cosa. Ho cominciato a camminare, non avevo idea di dove mi trovassi e intorno a me vedevo solo scritte in una lingua che non capivo minimamente. Avevo un numero di telefono. Mia madre mi aveva detto di chiamare mio cugino Ahmed appena arrivavo in Italia e che avrebbe pensato lui a me. Su una cosa era stata chiarissima: per nessun motivo sarei dovuto tornare indietro. Una macchina blu ha accostato. Due persone con una strana divisa mi sono venute incontro. Erano poliziotti, mi hanno chiesto documenti che io ovviamente non avevo. Mi hanno fatto delle domande, ho biascicato qualcosa in quel poco di lingua francese che conoscevo. Poi mi hanno caricato in macchina e mi hanno detto: «Ora ti portiamo in una casa, in un posto giusto per te». Io pensavo che mi avrebbero portato a casa loro! Chissà, magari mi avrebbero adottato. Mi hanno detto che a volte in Italia succede. In realtà, la casa dove mi hanno portato si chiamava comunità di accoglienza. Lì c’erano altri ragazzi. Un giovane algerino, uno afghano, un pakistano. E degli educatori. Un po’ alla volta sono riuscito a dare un senso a tutte queste parole: comunità, educatori, assistente sociale, mediatore culturale, permesso di soggiorno. All’inizio era tutto incomprensibile. Mi hanno spiegato che il primo passo da fare era quello di sottopormi a delle visite mediche e poi iscrivermi a scuola: se volevo potevo cominciare un percorso. Dovevo fidarmi di persone che non avevo mai visto. Mi sembrava tutto così assurdo. Io ero venuto in Italia perché dovevo lavorare, mandare soldi a casa, aiutare la mia famiglia. Cosa c’entrava questa idea assurda di iscrivermi alla scuola media? Ho telefonato alla mamma, ho litigato con l’assistente sociale, ho sbattuto la porta in faccia agli educatori non so quante volte. Ma mi ero assunto un rischio, quello di partire, di lasciare tutto. Non potevo sprecare questa opportunità. E alla fine mi sono rassegnato. O forse ho semplicemente cominciato a mettermi nelle mani degli adulti che avevo incontrato, cosa che nella mia vita non avevo mai fatto. Nel mio Paese vivevo praticamente per strada, lavoravo come muratore e falegname, stavo in giro anche fino alle 4 del mattino, bevevo alcolici e fumavo. Qui in Italia c’era sempre qualcuno che si prendeva cura di me, che mi ricordava di farmi la doccia, che mi faceva trovare un piatto caldo a pranzo e a cena. A volte questa cosa mi faceva imbestialire. Ma, più spesso, mi faceva piacere. Ora sono stato inserito in un’altra comunità, mi hanno detto che sono contenti del mio percorso e che forse riusciranno ad aiutarmi almeno fino a 18 anni. Vado a scuola, sto imparando a fare il meccanico. Una volta alla settimana vedo i miei genitori su Skype. In comunità c’è una ragazza che mi piace, si chiama Martina. Ascolto musica italiana, leggo i giornali italiani, mi piace tenermi informato. Gli educatori sono diventati la mia seconda famiglia. Il Marocco mi manca ma se penso al mio futuro non mi dispiace immaginarmi qua. Inshalla.




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