Vedovanza

Nella salute e nella malattia

Nella salute e nella malattia

di Ida Giangrande

Giovani e innamorati, poi sposi nell’ambiziosa ricerca di affermarsi professionalmente: qualcosa all’improvviso incrina quell’amore. Nel giorno dell’anniversario, la storia con Gino entra in una nuova dimensione.

Ancora oggi, a distanza di lunghissimi anni, mi siedo qui, sulla poltrona sgualcita dagli anni, di fronte ad uno dei poster del mio matrimonio e lo guardo come se lo vedessi per la prima volta.

Eravamo giovani e felici in quel giorno, audaci e rampanti, fiduciosi e ignari delle sorprese che il destino ci riservava. Ci eravamo conosciuti all’Università, Gino era ormai al termine del percorso di laurea mentre io avevo iniziato da poco. Fu amore a prima vista, niente di eclatante, niente di romantico, amore ordinario e proprio per questo bellissimo. Una laurea in giurisprudenza può aprirti molte porte oggi come oggi, ma all’indomani della laurea lui scelse di fare l’avvocato. Era una figura affascinante, disse e lo fece con quella strana luce negli occhi che poi ho imparato a scorgere anche nei miei: era ambizione. Nulla di negativo in fondo, eravamo due ragazzi intelligenti e svegli. Gino iniziò da subito la pratica presso uno studio molto importante, furono mesi di sacrificio, in cui si lavora molto e si guadagna poco, io intanto proseguivo il mio percorso di studi, sostenevo gli esami, studiavo moltissimo e il tempo cominciò a volare, scandito da un solo dosatore: il lavoro. Nel giro di pochi anni, ultimata la pratica, Gino aprì uno studio, era un vecchio appartamento con le piastrelle da cucina in una stanza e porte molto vecchie alle imposte, ma per il momento andava bene – mi disse – e di nuovo gli vidi negli occhi la luce dell’ambizione. Ci sposammo non appena mi fui laureata, lo studio andava bene, lui era bravo come avvocato e quando anch’io mi aggiunsi alla carovana rappresentai un valore aggiunto. Dapprima ricoprì il ruolo della praticante-congiunta, poi imparai a tenermi sulle gambe da sola, a destreggiarmi nella burocrazia e tra gli svariati uffici dei tribunali. Le resse sono all’ordine del giorno lì, i giudici sono costretti a dibattere in condizioni esasperanti, molto presto mi resi conto che per quanto potesse essere affascinante la professione forense aveva molti lati oscuri, ma così era la vita mi diceva lui nei rari momenti in cui riuscivamo anche a parlare. Intanto, le cose andarono talmente bene che decidemmo di cambiare casa, lasciammo il piccolo appartamentino in affitto, acquistammo una proprietà, una villetta, che poi divenne una villa con piscina e giardino. Erano trascorsi già sette anni, ed io quasi non me ne ero accorta. È come quando sai che devi percorrere una strada molto lunga e faticosa, e per qualche strana ragione senti dentro di te di doverlo fare, di non poterti esimere, che cosa ci imponesse di seguire il ritmo convulso di una vita frenetica, non riesco ancora a capirlo, eppure erano andati così quei sette anni. Avevamo provato ad avere dei figli. Ogni tentativo era fallito. Ci dicevamo che avremmo fatto delle indagini e poi coinvolti dalla routine quotidiana, non trovavamo il tempo per farlo. Ci amavamo ancora? Suppongo di sì, anche se non ce l’eravamo più detti dal giorno del nostro matrimonio. Eravamo complici, in ufficio sapevamo essere l’uno la spalla dell’altro, talmente ben sincronizzati da apparire quasi una sola persona agli occhi dei nostri clienti, eppure a casa, sembravamo non avere abbastanza tempo nemmeno per litigare. Fino a quel giorno, lo stesso del nostro matrimonio. Era il nostro anniversario, avevamo deciso di dedicarci una giornata: «Passo un attimo per l’ufficio e torno, impiego solo due minuti» mi disse e poco dopo sparì. Per sempre. Ero impegnata a truccarmi, quando il telefono trillò e fu come essere raggiunta da una coltellata: Gino era caduto dietro la sua scrivania, le labbra tirate da un lato, il corpo scosso da singulti spastici, la segretaria chiamò un’ambulanza e poi fu la classica trafila di questi casi. La corsa in ospedale, gli esami di routine, le lunghe attese snervanti in un corridoio dalle pareti chiare dove ogni rintocco dell’orologio sembra essere un boato. E poi la diagnosi. Le parole fredde e contrite di un medico dispiaciuto che ti raggiungono come lame e ti si spezzano nel cuore dopo esservisi conficcate con potenza. Gino era stato colpito da un ictus, metà cervello era bruciato, in sostanza le cose stavano così. «Con il tempo forse potrà recuperare – sentenziò il medico – ma…..». E quel “ma” cadde nel vuoto insieme a tutte le parole che non gli avevo mai detto e che ora lui non poteva più ascoltare. Usai tutto il denaro che avevo per portarlo dai migliori specialisti, lasciai lo studio, affidandolo nelle mani di alcuni collaboratori, tutti mi dissero la stessa cosa. Il cervello era stato danneggiato in alcune zone fondamentali, un’adeguata terapia poteva essere utile, ma non risolutiva. Insomma, Gino avrebbe vegetato fino alla fine dei suoi giorni. Quando varcammo la porta di casa, mi parve quasi di entrare in una tomba, lui sarebbe stato confinato lì forse per sempre, ed io? Che cosa ne sarebbe stato di me? Amici e parenti continuavano a dirmi che eravamo stati fortunati a non avere avuto dei figli, perché oltre ad affrontare il dolore, avrei avuto l’incombenza di dover spiegare loro l’accaduto. Io non ascoltavo le loro voci, continuavo a vegliare su Gino con la testa tra le mani, preda di un convulso senso di impotenza che un bel giorno scoppiò: ingaggiai una badante che si occupasse di lui giorno e notte, volevo riprendere la mia vita, tornare allo studio alla luce del giorno, ma quando lo feci mi accorsi che nulla più sembrava come prima.

Quando ti trovi in una condizione del genere è come stare in un luogo a metà strada tra il punto di partenza e quello di arrivo, non riesci a riprendere la tua vita, perché lui è lì, ti osserva nel silenzio di una vita spezzata e continua a restare immobile, ma la sua presenza riempie ancora quel posto e tu lo sai, né hai consapevolezza. Allo stesso tempo, rassegnarti alla sua malattia è come dire che non te ne occupi o non abbastanza. E poi c’è la speranza, una delicatissima rosa bianca che appassisce ogni giorno di più. Sperai che quel dramma non durasse a lungo, forse per egoismo, e subito dopo mi sentii un essere immondo. Qualche giorno dopo lui spirò, ed io non ebbi nemmeno il tempo di capirlo, ricevetti le visite di condoglianze, affrontai i riti funebri, tutto con innaturale compostezza, fu solo quando tornai a casa la sera e rividi il suo posto vuoto che realizzai cosa fosse successo. Gino non c’era davvero più, e io che in alcuni momenti ne avevo desiderato la morte, sentivo di spegnermi insieme a lui. Tutto quello che ho fatto nella mia vita l’ho fatto con mio marito, e anche quello che non sono riuscita a realizzare trovava una qualche giustificazione nella luce dei suoi occhi. Ero giovane quando lui è morto, avrei potuto amare ancora e di occasioni ne ho avute, ma oggi dopo quasi cinque anni dalla sua dipartita, mi accorgo che non fu un caso se lui si ammalò proprio il giorno del nostro anniversario. Quel giorno io e Gino ci siamo sposati di nuovo, per affrontare insieme un nuovo modo di vivere, totalmente altro rispetto a quello normale, ma comunque vita. Lui era lì, il suo sguardo mi parlava attraverso il silenzio, e il battito del cuore era forse anche meglio del suono della sua voce, la morte aveva cancellato anche quell’intesa speciale che senza la malattia non si sarebbe mai venuta a creare tra di noi. Esistono tanti modi per amare, tanti modi per parlarsi, tanti modi per vivere. Bloccare tutto questo vuol dire ridurre l’umanità ad un buon stato di salute e nient’altro. La verità è che l’uomo è capace di reinventare all’infinito nuovi modi per vivere, l’uomo è essenza non solo materia e la sua vita è un mistero inafferrabile e inspiegabile.




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