XXII Domenica del T. O. – B

Con Gesù la priorità è il cuore

Gesù

di fra Vincenzo Ippolito

Dalle labbra al cuore è il cammino per i discepoli di ieri e per noi che oggi ci barcameniamo in una società che ha fatto della comunicazione la realtà per affermare la propria esistenza. Oggi vivo se parlo, se chatto, se invio una mail o un sms, se dico ciò che faccio sui network – povero Cartesio per il quale vivere era sinonimo di pensare, cogito ergo sum!. Il cuore come sede della volontà è il luogo dove il Signore vuole regnare e desidera entrare per permeare della forza della sua misericordia la nostra vita.

Testo (Mc 7,1-8.14-15.21-23)

In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».

Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».


 


Dopo che per alcune domeniche abbiamo letto e meditato il capitolo sesto del Vangelo secondo Giovanni, ritorniamo oggi alla penna dell’evangelista Marco (i cicli liturgici domenicali sono tre: nell’anno A si legge il Vangelo secondo Matteo; nell’anno B quello secondo Marco, mentre nell’anno C, il prossimo, il Vangelo secondo Luca). Dalla citazione riportata prima del brano evangelico, ci si rende conto che si tratta di tre serie di versetti (1-8; 14-15; 21-23) del capitolo settimo di Marco, in parte dedicato alle tradizioni degli antichi. Come interpretare e vivere le leggi dei padri? Quale ruolo occupa l’Antico Testamento nella sequela di Gesù Cristo? Cosa scegliere le tradizioni o la Tradizione? A questi dubbi che spesso si affacciano nel nostro cuore risponde il Signore Gesù nella sua Parola di vita.

Mai fermarsi all’apparenza

Il contesto del brano evangelico odierno è chiaramente ostile al Maestro di Nazart e al suo insegnamento ed in questo non ci siamo allontanati tanto da quello che leggevamo le scorse domeniche in Giovanni 6. Marco presenta la scena in maniera scarna, secondo il suo stile, ma con quella maestria che aiuta il lettore a comprendere facilmente la scena e a figurarsela dinanzi agli occhi: si radunano intorno a Gesù i farisei e gli scribi (v. 1) – sembra che siano dei giudici venuti ad accusare un reo – recando la testimonianza inchiodante per Lui ed i suoi seguaci – notarono che alcuni dei suoi discepoli prendevano pasti con mani impure, ossia non lavate (v. 2) – senza nessuna possibilità di controbattere e difendersi. Gesù è al centro, ma intorno a Lui non ci sono discepoli pronti a credere in Lui, ad accogliere la sua parola e stringere con la sua divina Persona la nuova ed eterna alleanza per la quale il Padre ha inviato nel mondo il suo Figlio. Scribi e farisei sono venuti da Gerusalemme quali detentori della legge, custodi dell’ordine, amministratori del sacro, giudici del giusto e del vero, credono di stringere tra le mani la volontà di Dio e non comprendono che non siamo noi a possedere Lui, ma siamo da Lui posseduti poiché in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 15,28), dal momento che egli ci ha fatto e noi siamo suoi (Sal 100,3). Non si accorgono chi è Gesù, non lo ascoltano prima di parlare, non si lasciano interrogare dal ben che compie e dalla parola di vita che dona. Scribi e farisei arrivano con un piano ben studiato, con giustificazioni sulla base di una Legge che tra le loro mani diviene lama per uccidere perdendo la sua prerogativa di essere parola di vita e di salvezza. Recano una condanna già scritta, tante volte ripetuta come un formulario da ridire perché l’altro, non più visto come fratello, ma come errante, peccatore, infedele alla legge, cambi la sua condotta di vita per la forza di una sentenza di errore che essi solo possono notificare. Si può venire da lontano per vedere Gesù e non amarlo; si può avere Gesù al centro della propria vita senza ascoltare la sua voce ed obbedire alla volontà del Padre che Egli solo, in quanto Figlio, trasmette con la misericordia che è propria di Dio. Questo ricordano a noi gli scribi ed i farisei: puoi credere di essere nel giusto ed invece la tenebra del tuo cuore è così profonda che non riesci a scorgere la tua apparente giustizia, la durezza del tuo implacabile giudizio, la superbia che divora la tua anima e ricopre il male che ti consuma dentro, l’insoddisfazione che nascondi in nome di un Dio che non abita il tuo cuore perché il Signore resiste ai superbi, ma fa grazia agli umili (Gc 4,6).

La fede è costituita da due dimensioni egualmente importanti: la relazione con Dio e, di rimando, quella con il prossimo. Sono i due bracci della croce che sostengono Gesù non solo durante la sua agonia e la sua morte, ma lungo il corso della sua vita terrena: la dimensione verticale è l’amore di obbedienza al Padre, la dedizione alla causa del Regno, la volontà ferrea di non allontanarsi da Lui e dal suo amore, unica possibilità di vita per l’uomo; la dimensione orizzontale ovvero l’amore oblativo per l’umanità, l’accoglienza incondizionata di ogni uomo che è fratello, figlio dell’unico Padre, il desiderio che tutti conoscano lui, l’unico vero Dio e Colui che egli ha inviato (cf. Gv 17). Il braccio orizzontale, ovvero le relazioni che scandiscono il nostro vivere, si regge solo se è bene fisso sulla pietra angolare che è Gesù Cristo, se su Lui è puntellato saldamente il braccio verticale, la nostra relazione con Dio Padre, il dialogo amoroso con Lui scandito dalla preghiera e dall’ascolto della sua Parola, dall’Eucaristia e dalla fede che vede Dio, il Signore, all’opera in ogni creatura sua con la potenza dello Spirito che tutto sostiene.

Gli scribi ed i farisei, spesso apostrofati da Gesù come guide cieche, sepolcri imbiancati ed ipocriti – ritorna anche oggi nella pagina evangelica quest’accusa! – vivono di apparenza, sono interiormente vuoti, molto spesso senza esserne neppure convinti, privi della reale coscienza della loro vita che non è ancorata a Dio, al vero Dio come Egli si fa conoscere e non come l’uomo se lo figura e lo disegna nel suo cuore. La vita di questi esponenti di spicco della società giudaica è simile agli ignavi di Dante, corrono sì, ma dietro a qualcosa che è priva di consistenza e che essi credono degna di ogni onore ed attenzione. Si può vivere seguendo chimere, facendosi portare da sogni, credendo di combattere cavalieri che, invece, sono mulini a vento che non lambiamo con la spada dei nostri preconcetti, priva di lama perché quando il ferro delle nostre idee non è forgiato al fuoco di Dio non serve se non a giocare, come i bambini. Siamo scribi e farisei quando lasciamo che le nostre insicurezze si vestano della forza della legge, quando rivestiamo il vuoto del nostro cuore di parole che non mangiamo, non assimilano, non interiorizziamo nella preghiera e che non ci vivificano. Siamo scribi e farisei quando abbiamo Gesù al centro, ma non del cuore e della mente, dei sentimenti e delle azioni, al centro del discorsi, ma non delle intenzioni, al centro delle pratiche di culto da fare per essere buoni, ma non dell’anima come fuoco che brucia e consuma nella costante ricerca del bene. Siamo scribi e farisei quando ci poniamo sul piedistallo e con la bacchetta del maestrino spacchiamo sentenze, pronunciamo giudizi, presumiamo di entrare nelle intenzioni dell’altro per dividerle tra buone e cattive. Siamo scribi e farisei quando ci avviciniamo alla persona che condivide con noi la vita, ai figli che Dio ci ha donato, ai fratelli che ci vivono accanto se pretendiamo l’ultima parola, divenendo violenti se non si prende in considerazione ciò che diciamo, dimenticando che non siamo onnipotenti e che solo Dio è il Signore della nostra vita.

È necessario andare al cuore e non fermarsi all’apparenza con Dio e tra noi. Quante liti tra gli sposi sono frutto di preconcetti e di giudizi affrettati, di parole mal intese e non ben chiarite in un dialogo pacato! Quante erbacce nascono e crescono indisturbate nel terreno dei nostri rapporti – erbacce di pensieri cattivi e di intenzioni non buone – quando crediamo di essere agricoltori sapienti ed invece affondiamo la mano nel sacco del cuore nostro dove abbonda il seme della zizzania dei pensieri, della gramigna dei sentimenti contrari a Dio, le talee delle spine dei raggiri umani e carnale – nel senso paolino del termine, ovvero non secondo lo Spirito di Cristo – e così spargiamo nella vita nostra e degli altri la morte e la guerra, ministri delle tenebre e non della luce che irradia il mondo dal Cuore di Cristo, unico vero sacco di Dio che dona misericordia senza limiti.

Tradizioni o tradizione?

La giustificazione che gli scribi ed i farisei adducono perché Gesù riveda il suo insegnamento e muti la sua condotta trae forza dalle tradizioni orali fatte risalire a Mosè. Essi stessi più volte lo dicono (tradizione degli antichi, v. 3. 5; per tradizione, v. 4; la tradizione degli uomini, v. 8) ed in tal modo credono che possano considerarsi giusti davanti a Dio e dinanzi agli uomini. In realtà, nel corso dei secoli, intorno alla Legge data da Dio, il popolo d’Israele, con l’intenzione di meglio tradurre i comandamenti, ha organizzato una riflessione puntuale per aiutare il credente a meglio osservare la Scrittura. Come capita con ogni istituzione umana però, lo strumento – le spiegazioni della Legge – ha preso il posto della stessa Scrittura, dei comandamenti di Dio e si è formata quella serie di tradizioni umane, così le chiama Gesù, che della legge sono soltanto una sbiadita ombra. Le tradizioni, le organizzazioni del pensiero di uomini saggi e studiosi della Legge non possono prendere il posto della Parola di Dio che rimane in eterno e tanto valgono e servono nel cammino di fede, quanto rimandano continuamente alla stessa Scrittura, alla volontà di Dio che in essa è stata codificata. La parola degli uomini resta tale e non può sostituire la Parola di Dio che è spirito e vita. Tale inversione di pensiero e di vita ha portato ad un ruolo predominante degli scribi e dei farisei nella società ebraica e così il popolo è stato sempre più allontanato dalla sorgente della vita vera costituita dalla Scrittura. I Vangeli riportano di continuo la disputa che Gesù intenta per riportatore la Scrittura al centro della vita del popolo d’Israele, senza edulcorazioni e maneggiamenti di sorta, senza mediazioni inutili e parole ampollose che impoveriscono la stessa Scrittura, pur volendola rendere meglio accessibile.

La sacra Scrittura nelle nostre famiglie e comunità deve essere letta e meditata nella sua bellezza originaria, senza che sussidi e pubblicazioni di bassa lega impediscano un rapporto vivo e vivificante con il Testo sacro. Tutto ciò che leggiamo, anche riguardo alla fede e al cammino che facciano, non deve mai prendere il posto della lettura e della meditazione della Parola di Dio. Dobbiamo educare ed educarci a tenere la Bibbia in un posto visibile della nostra casa quale punto di riferimento per la nostra famiglia. Senza la lettura del Vangelo ogni giorno non possiamo dirci cristiani e tale riflessione e meditazione quotidiana non può essere sostituita da devozioni o pratiche personali che vanno accolte e vissute solo se nascono dalla Liturgia della Chiesa e dalla Scrittura e conducono alla vita liturgica comunitaria e alla meditazione del Testo sacro letto ogni giorno nella Liturgia. San Francesco d’Assisi diceva che l’osservanza del santo Vangelo deve essere sine glossa, ovvero senza spiegazioni che allontanano dal Testo e non conducono ad esso. Anche quando non comprendiamo ciò che il Signore ci dice, se rimaniamo sul Testo, se ci confrontiamo in famiglia, illuminati dallo Spirito di Cristo – la Scrittura è ispirata da Dio e dona lo Spirito di Dio per la sua comprensione a chi la legge con fede – la Parola del Signore si apre come un riccio e ci dona la dolcezza dell’amore di Dio e la forza per osservare i comandamenti del Signore che non sono gravosi. Ci vuole costanza nella lettura della Scrittura, meglio se si prende il Vangelo della domenica che, spiegato nell’omelia dal sacerdote, può facilmente essere nostro alimento durante la settimana.

È questo il salto da fare con Dio e tra noi: non possiamo dirci cristiani per tradizione, così come non possiamo celebrare i sacramenti della nostra salvezza perché “così si usa”, senza entrare nella dinamica di un rapporto vivo e vero con Gesù Cristo. Amare Dio e osservare i suoi comandamenti è la strada maestra per vivere da redenti, da salvati, da figli del Padre celeste, docili allo Spirito che Gesù ha effuso su di noi. Quante cose in famiglia, tra marito e moglie, con i figli si fanno subendole, ma senza che ci sia un reale coinvolgimento interiore! I ruoli tra uomo e donna in casa sono quelli che la società e spesso anche il nostro essere cristiani ha creato ed avallato, ma non esiste legge che regga dinanzi all’amore. Non è scritto da nessuna parte che la moglie deve cucinare e stirare, mentre al marito competono incombenze diverse che non hanno nulla a che vedere con le faccende domestiche. Ogni coppia deve vincere i condizionamenti sociali e raggiungere un proprio equilibrio che è frutto non del compromesso, ma dell’amore e della volontà di andare l’uno verso l’altro. Non sono le tradizioni che costruiscono il nostro essere sposi e famiglia – spesso le tradizioni, che, come dice Gesù, sono precetti di uomini, appesantiscono invece di alleggerire il cammino – ma ciascuna coppia deve saper vincere i condizionamenti, dentro e fuori degli ambienti ecclesiali, e vivere la libertà dell’amore e del dono. La nostre famiglie e comunità, infatti, hanno come unico comandamento l’amore ed è l’amore che deve dettare la nostra volontà e le nostre azioni, non altro. Questo vale anche, sarebbe meglio dire soprattutto, nelle relazioni familiari allargate. Quante volte entrano in scene nelle nostre famiglie parenti ed affini che in nome del vero bene pongono regole e precetti che mortificano la relazione di coppia e limitano la libertà dei coniugi? Solo la forza che viene da Dio può dare determinazione nel perseguire il bene e rispetto degli altri a cui non compete dettare leggi e mortificare il cammino graduale di maturità delle giovani coppie e famiglie.

La via del cuore

Gesù, dopo aver chiarito, il primato di Dio nella vita del credente, arriva al centro del problema che spesso sfugge alla casistica e alle classificazioni dei rabbini di ieri e dei moraleggianti di oggi. Tutto parte dal cuore, sembra dire il Maestro di Nazart: Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male (v. 21). È il cuore l’organo che presiede le scelte, luogo intimo nel quale Dio parla nel silenzio e propone la sua volontà, ma al tempo stesso crogiuolo dove il Nemico, il Menzognero fin dal principio, crea la confusione dei pensieri ed agita le acque delle passioni e dei desideri per cambiare in male quanto Dio ha creato unicamente per il bene. La parola di Cristo è chiara: la rettitudine non dipende dai riti, come la santità non è la conseguenza dei sacrifici che nel tempio venivano continuamente presentati. La giustizia e la rettitudine, l’amore per Dio e il servizio de prossimo non provengono da gesti osservati con scrupolosità – in tal caso la fede diviene una sorta di magia, quasi una partica superstiziosa – perché il regno di Dio non è questione di cibo o di bevande, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo (Rm 14,17).

È necessario lavorare sul cuore che è la sede delle intenzioni della persona, non sugli atteggiamenti. Se andassimo al cuore dell’altro forse eviteremmo tante inutili liti perché ciò che vediamo fare non sempre è la conseguenza di una volontà di male, della decisione di perseverare nell’errore. L’altro, forse, ha fatto quella cosa per noi credendola un bene e anche se non è riuscita come sperava e voleva, che senso ha accusarlo? Non è preferibile ascoltarlo, comprenderlo ed accoglierlo con lo stesso amore con cui egli ha cercato di operare? Spesso siamo come l’agricoltore, se l’albero non fa frutti continuiamo a potarlo fino a lasciare solo il tronco e non concimiamo le radici perché, forse, è il terreno che non nutre bene la pianta, permettendo così che cresca e dia ciò che può dare e che ci si attende. È inutile una pedagogia che batta sui comportamenti senza giungere al cuore. L’educazione è l’arte di rendere maturo il cuore nelle scelte, perseverante nella ricerca del bene, costante nel perseguire la giustizia, pronto nel vincere l’egoismo, fermo nel riconoscere e rigettare gli intrighi del Maligno.

È questa l’inversione di marcia che Gesù chiede ed opera ritornando al disegno di Dio. Egli sembra dire che è necessario passare dalle labbra al cuore (v. 7) dalle tradizioni degli uomini al comandamento di Dio (v. 8), ovvero rimettere al centro Dio e la sua Parola, Cristo e la volontà di salvezza del Padre per ogni uomo. Dalle labbra al cuore è il cammino per i discepoli di ieri e per noi che oggi ci barcameniamo in una società che ha fatto della comunicazione la realtà per affermare la propria esistenza. Oggi vivo se parlo, se chatto, se invio una mail o un sms, se dico ciò che faccio sui network – povero Cartesio per il quale vivere era sinonimo di pensare, cogito ergo sum!). Il cuore come sede della volontà è il luogo dove il Signore vuole regnare e desidera entrare per permeare della forza della sua misericordia la nostra vita. La debole nostra volontà illuminata dal Signore acquista la forza di Dio a cui nulla è impossibile. È nel cuore che Cristo deve regnare come Signore, nella sede delle nostre decisioni deve penetrare per piegare le nostre volontà ribelli al suo progetto, quando decidiamo una cosa Egli deve assisterci, quando scegliamo il bene deve illuminarci per non fermarci all’apparenza e lasciarci abbagliare poiché non è tutto oro ciò che luccica! La nostra volontà, pur vedendo il bene non riesce a perseguirlo e Dio deve sostenere il nostro cammino, irrobustire le nostre scelte, rendere fedeli le nostre promesse, rinsaldare le nostre decisioni pur nella difficoltà del cammino. È nel cuore – come organo della volontà – che l’amore deve fiorire e rifiorire sempre, l’amore verso Dio e la fedeltà verso gli uomini.

Nelle nostre famiglie è necessario educare il cuore nostro e dei figli, dal momento che incentrare la relazione educativa sui comportanti da modificare e sulle azioni buon e da attuare è facile – il salmista dice non siate come il cavallo e come il mulo privi di intelligenza, si piega la loro fierezza con morso e briglia se no  a te non obbediscono  (Sal 31,9) – ma non dobbiamo mai dimenticare che l’educazione non è finalizzata al fare un’azione più che un’altra, ma a crescere nell’essere, a divenire persone vere, sincere, senza doppiezza. Ex-ducere significa tirar fuori ciò che è presente come bene, ma allora bisogna operare per seminare il bene, permettendo che cresca sempre più, senza la paura che l’egoismo distrugga ciò che a fatica cresce. Senza purificare il cuore, senza quella ascesi spirituale, quella disciplina interiore che è il frutto del rinnegamento di se stessi che il Maestro richiede ad ogni suo discepolo non c’è uguaglianza nella coppia, parità nella responsabilità, complementarietà nel dono e nel sacrificio d’amore. La famiglia è il semenzaio dove fiorisce la virtù in quella continua vigilanza ad estirpare il male con la mano dolce di chi non vuol togliere il bene e con la pazienza del padrone che lascia talvolta perfino alla zizzania di prolificare nel campo perché il male, ogni male si vince e si può vincere solo con la forza dell’amore e del bene (cf. Rm 12,21).




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