Storie

Vorrei davvero abbracciarlo e dirgli che l’ho perdonato

ragazzo

a cura di Silvia Sanchini

Marlon ama il suo papà. Lo ama fino al punto di giustificarlo quando lo picchia ma ha imparato a capire anche che doveva allontanarsi perché il padre potesse curarsi e guarire. La famiglia affidataria che oggi si prende cura di lui è un’opportunità e Marlon vuole prendere il meglio in attesa di riabbracciare il suo papà e dirgli che lo ha perdonato.

Io e i miei fratelli abbiamo dei nomi strani. Marlon, Catherine e Martin. I nostri genitori si sono conosciuti in una specie di comune un po’ hippie della Toscana. Mi hanno detto che è stato un periodo bello della loro vita, di assoluta libertà. Però è stato lì che il mio papà ha cominciato a drogarsi. Io all’inizio non mi rendevo bene conto del problema. Di certo aveva dei forti sbalzi di umore. A volte era tenero e affettuoso, altre violento o scostante. A volte mi guardava negli occhi e sembrava orgoglioso di me. Ogni tanto il pomeriggio costruivamo aquiloni e poi andavamo in riva al mare per farli volare. Certi giorni però il suo sguardo si trasformava. E lui diventava irascibile.

A 12 anni sono finito in ospedale perché mi aveva picchiato più forte del solito ed ero caduto dalle scale battendo la testa. Io non volevo andarci in ospedale, non volevo raccontare a nessuno cos’era successo. Io lo sapevo che non era colpa sua, avevo paura che la mamma o qualcun altro potessero arrabbiarsi con lui, non era stata colpa sua… era colpa della droga, io lo sapevo. E non ero arrabbiato con lui. Da quel momento però le cose sono cambiate in maniera imprevedibile.

Un giudice aveva deciso che io in quella casa, la mia casa, non potevo più rimanere e aveva chiesto alla mia assistente sociale di trovare per me una casa famiglia. Una casa famiglia?

Io una famiglia ce l’avevo già, che bisogno c’era di trovarmene un’altra? I miei genitori mi bastavano e avevamo già parecchi problemi senza bisogno di aggiungere quelli di un’altra famiglia. I primi giorni sono stati così strani. Io mi rifiutavo di chiamare mamma e papà le due persone a cui mi avevano affidato e mi rifiutavo di mangiare. Stavo sempre chiuso in camera e fissavo il soffitto. Avevo una mia camera. A casa mia non l’avevo mai avuta, dormivo su una brandina in salotto. I primi tempi mi avevano vietato di telefonare e vedere i miei genitori. Mi sentivo pieno di rabbia, non sapevo neanche io spiegarmi bene cosa mi faceva stare così male.

Ho cominciato anche degli incontri con una psicologa.

Io pensavo che gli psicologi fossero persone cattive, che a tutti i costi volevano dirti come dovevi sentirti o quello che dovevi fare. Ma Serena era diversa. Con lei sono riuscito a parlare di cose che a mamma e papà non avevo mai detto.

E siccome mi diceva che dovevo fidarmi dei miei nuovi “genitori” della casa-famiglia, a poco a poco, ho cominciato a dar loro qualche chance. Non lo ammetterò mai neppure sotto tortura, ma nella mia nuova casa sto davvero bene.

I miei genitori veri però mi mancano tantissimo ma so che per un bel po’ di tempo non rivedrò mio padre e che si trova anche lui in comunità perché ha deciso di disintossicarsi. A me dispiace perché sono certo che gli manchiamo molto e che si sente in colpa per quello che mi ha fatto e vorrei davvero abbracciarlo e dirgli che l’ho perdonato.

Però per il momento questa è la mia casa, questa è la mia famiglia, e voglio trarre il meglio anche da questa situazione.




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