IV Domenica di Pasqua – Anno C

Amare senza appropriarsi dell’altro, ma custodirlo

abbraccio

di fra Vincenzo Ippolito

La custodia è ciò che rende tenero e delicato l’amore perché serba l’amato come un tesoro, non per ciò che offre di sé o potrà offrire, ma per quello che è, per il dono che è per se stesso.

Dal Vangelo secondo Giovanni (10,27-30)
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 

Siamo alla quarta tappa del nostro itinerario pasquale, a metà del cammino, equidistanti dalla Pasqua di Gesù e dalla nostra che si compirà a Pentecoste, con il dono dello Spirito. La gioia dell’attesa pervade il nostro cuore perché Cristo è risorto ed anche noi camminiamo con Lui in una vita nuova (cf. Rm 6,4).

Relazioni non mediate, ma dirette

La pericope che la Liturgia oggi ci offre è formata da appena quattro versetti tratti dal capitolo decimo del Vangelo secondo Giovanni (10,27-30). Il contesto del brano è di chiara ostilità nei riguardi di Gesù. Già dopo la guarigione del cieco nato (cf. Gv 9,1-9), i farisei indagano la verità del prodigio (cf. Gv 9,10-34) e mentre l’uomo guarito si apre alla fede (cf. Gv 9,35-39), gli avversari del Signore continuano a rimanere nell’incredulità (cf. Gv 9,40-41). La medesima dinamica si riscontra nel capitolo successivo, il decimo: Gesù si presenta come la porta dell’ovile (cf. Gv 10,1-6) e il buon pastore (cf. Gv 10,7-18), ma i Giudei disputano tra di loro (cf. Gv 10,19-21) e, durante la festa della dedicazione del tempio, entrano in polemica con Gesù (cf. Gv 10,22-30), giungendo perfino a raccogliere pietre per lapidarlo (cf. Gv 10,31-39). In questa cornice comprendiamo meglio il nostro brano che è la risposta di Gesù alla domanda dei Giudei, “Se sei tu il Cristo, dillo a noi apertamente” (Gv 10,24). Senza tener conto di questo dialogo – la liturgia omette di riportare la domanda degli avversari e ci offre solo le parole di Cristo – si perde la bellezza del brano, la pacatezza del Maestro nel parlare, la determinazione sua nell’agire, la chiarezza del suo insegnamento, la pazienza che usa per ricondurre le altre pecore a divenire “un solo gregge, un solo pastore” (Gv 10,16).

Alla luce di questo dialogo, che somiglia tanto ad una battaglia all’ultimo colpo, una partita di fioretto, ma senza l’uso della maschera, possiamo ripensare la dinamica della comunicazione nelle nostre famiglie. Capita spesso, infatti, che tra noi si intavolino dialoghi tra sordi. I preconcetti giocano in questo brutti scherzi. I nostri rapporti, anche familiari, sono il più delle volte mediati dall’esperienza degli altri e non ci rendiamo conto di quanto questo sia deleterio per l’unità e la sincerità delle nostre relazioni. I Giudei non riescono ad ascoltare Gesù e neppure a prendere in considerazione il suo insegnamento perché il loro confabulare li ha portati a farsi delle idee precise, pur se sbagliate, di ciò che il Nazareno dice e compie, al punto tale che non vogliono mettere in discussione ciò che credono. Non riescono a prendere con il bene dell’inventario quanto pensano ed identificano la realtà con il loro pensiero. È quanto capita anche a noi. Non incontriamo l’altro, ma ciò che dell’altro pensiamo ed altri ci fanno erroneamente credere. La realtà non ha una sua oggettività alla quale conformare la nostra mente, ma è vero ciò che pensiamo, sentiamo, avvertiamo noi o che, nel confronto con altri, avvertiamo come tale. L’ascolto diviene superfluo perché già so cosa l’altro vuole dire, ciò che ci è stato raccontato di lui è più che soddisfacente. Le relazioni quindi non sono vere, perché mediate dal parere di altri e dalle idee che altri hanno fatto sorgere in noi. Spesso un figlio guarda il padre con gli occhi della madre e viceversa e così non solo le relazioni si inclinano, ma si impedisce di far nascere nei giovani quella maturità, frutto della capacità dei genitori di contenere i propri sentimenti e di permettere che le relazioni altrui non vengano avvelenate dalle proprie.

Gesù ci insegna che è necessario sempre stare nella relazione, anche quando questa è complicata e si vuol fuggire per gettare tutto all’aria. Scappare non serve, non ha senso, infatti, misconoscere le difficoltà proprie e credere che non esistano, mettendo la testa sotto la sabbia come lo struzzo, e neppure è utile allontanarsi dall’altro quando ci percepisce nemico. Gesù riesce a stare in ogni tipo di relazione, non si allontana mai da quanti lo cercano, eccetto nei casi in cui il suo ministero può essere strumentalizzato. Dialoga con i farisei, siede a mensa con i pubblicani, ascolta i sadducei e gli scribi, accoglie i peccatori, si intrattiene affabilmente con donne e bambini e questo senza permettere che altri mediano i suoi rapporti e determinino le sue parole, si pensi a Betania, Marta desidera che Gesù giudichi Maria con le proprie categorie, ma il Maestro rifugge dalla pretesa della padrona di casa (cf. Lc 11,41).

È così difficile per me ascoltare l’altro con i miei orecchi e guardarlo con i miei occhi, in maniera diretta? È possibile, invece, accogliersi senza preconcetti, dialogare senza pregiudizi, ascoltarsi privi della pretesa di reputare superfluo se non inutile la parola dell’altro/a? È necessario stare in ogni relazione e rimanerci tutt’interi, proprio come fa Gesù, conservando quella serenità che non è saccenteria o superficialità e che non nasce dalla superbia e dal disprezzo di quanto l’altro è, pensa, dice ed opera. Dobbiamo chiedere con insistenza il dono del discernimento per separare il grano dalla pula, dopo il raccolto, aspettando con pazienza che la zizzania cresca con il buon grano, senza pretendere di sradicarla, così da afferrare senza accorgersi anche il frumento che cresce. Da Gesù bisogna imparare ad offrire sempre possibilità per ritornare nel gregge e vivere nella serenità che solo il buon pastore può offrire.

Appartenere all’altro come dono

Fermando la nostra attenzione sul brano dell’odierna liturgia, ci accorgiamo che il linguaggio usato da Gesù mostra una significativa coerenza con quanto precede nel medesimo capitolo. Ritorna, infatti, l’immagine, tanto cara alla tradizione d’Israele, del pastore e delle pecore, come anche realtà significative offerte già in precedenza (conoscenza/voce/ascolto/sequela). Naturalmente il contesto qui è diverso, il discorso è diretto ai suoi avversari perché con umiltà si riconoscano pecore ed obbediscano alla voce dell’unico Pastore. Il Maestro, infatti, vuole che i suoi interlocutori smettano l’abito della disputa e si aprano, nella fede, ad accoglierlo come l’inviato del Padre. Questo perché chi ama non si arrende dinanzi alla durezza del cuore dell’amato e si strugge vedendolo causa della sua stessa tristezza. Non c’è dolore più grande per chi ama di voler salvare l’altro e non poterlo fare, impedito da lui che crede di vivere nel bene, quanto, invece, abita nella morte e semina la medesima tristezza, credendola luce piena. Cristo è coraggioso nell’amare tutti, anche i Giudei suoi acerrimi avversari. Egli sa che non sono nemici, operano credendo di fare bene, ma si sbagliano e, in nome della legge dei padri, si oppongono a Colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo. Il Signore non deve combatterli come avversari, quanto invece combattere nel loro cuore il muro che si oppone alla grazia, la durezza della mente che non sa riconoscere la giustizia, Egli deve rimuovere i paraocchi perché essi vedano la luce. In una parola desidera che la relazione con Lui divenga sorgente di vita vera. È, infatti, la relazione la chiave per la comprensione delle parole di Gesù. Fuori dal rapporto con Lui, dall’essere sue pecore, dall’ascoltare la sua voce, dall’obbedire ai suoi comandamenti, c’è la morte. Se non si segue Gesù, si presta attenzione alla voce dei mercenari a cui le pecore non interessano perché non appartengono loro. Esiste, infatti, un rapporto profondo tra Gesù-pastore e discepoli-pecore. Il Maestro dice “Le mie pecore ascoltano la mia voce” (v. 27). Definisce sue le pecore, pur avendo piena consapevolezza che gli sono state date come dono dal Padre. Lo dirà in seguito “Erano tuoi [i discepoli] e li hai dati a me” (Gv 17,6). L’uso del possessivo nelle parole di Gesù non sta ad indicare un’appropriazione indebita, una proprietà personale, un tesoro di cui mai non rendere partecipe gli altri – cf. Fil 2,6 “Gesù Cristo […] non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio – perché il Figlio di Maria vive nel dono il dono ricevuto, ovvero il dono resta tale ed Egli è sempre pronto a restituire al Donatore ciò che ha generosamente elargito, come l’amministratore saggio che mette a frutto i talenti ricevuti. Le monete non sono sue, le custodisce e le fa trafficare per restituirle al padrone centuplicate. Gesù si sente custode di quanti il Padre gli ha dato (cf. Gv 17,12) e sente di non dover perdere nessuno dei suoi (cf. Gv 6,39).

È per noi difficile amare senza appropriarsi dell’altro/a, così come è difficile custodire l’altro lasciandolo libero di fare ciò che a lui sembra meglio. Il prendere e stringere come un tesoro geloso è la radice di ogni peccato, l’inizio della fine di ogni rapporto, perché l’amore che lega è egoismo, mai vero amore o, al massino, un amore da purificare nel crogiuolo della sofferenza scelta ed accolta, vissuta ed offerta per divenire maturi nell’amore. Gesù, ricevuto il dono dei fratelli, non se ne sente proprietario, ma continua a vivere nel dono, la dinamica del dono che il Padre gli accorda lo conduce a fare di se stesso un dono ai fratelli. In tal modo, non li lega a se gelosamente, ma si offre a loro perché riconoscano la gratuità dell’amore del Padre in Lui e si aprano al dono di se stessi sull’esempio suo e nella forza dello Spirito dell’amore e del dono che Egli elargisce con abbondanza ai suoi. Dobbiamo imparare a dire “mio” senza che indichi un possesso, una proprietà di cui essere gelosi. Il marito è un dono per la moglie e la sposa per lo sposo, la gelosia impedisce all’amore di fiorire e chiude nell’egoismo il bene che il Signore chiede di operare nella grazia e nella forza del suo Santo Spirito. Dobbiamo gradualmente comprendere che non possiamo bloccare in noi il flusso del dono perché siamo chiamati a guardare verso Gesù che rende il dono la nota dominante della sua vita e della sua relazione con gli altri.

Dall’ascolto alla sequela

Si appartiene a Cristo, si è parte viva del suo gregge solo se si ascolta la sua voce, distinguendola dalle altre, visto che le pecore “non conoscono la voce degli estranei” (Gv 10,5). L’ascolto nasce dalla conoscenza e la conoscenza dall’amore perché è l’amore che dona la capacità di non confondere la voce di colui che si ama e dal quale ci si sente profondamente amati, indissolubilmente uniti. È l’amore il motore della conoscenza e della volontà di entrare nella vita dell’altro, di scrutarne i segreti per il puro piacere di sapere tutto di lui come nessun altro; è l’amore che accende nel cuore il desiderio di “mangiare” l’amato solo con lo sguardo, di seguire i suoi passi, mentre si allontana per ritornare prima possibile; è l’amore che mendica tutto dell’altro perché l’amato è tutto, è la vita, il respiro, la gioia, il colore della giornata, il sorriso sulle labbra. L’amore determina la conoscenza, la motiva, la nutre, la spinge, la pretende, mentre la conoscenza, nata dall’amore, genera il desiderio di più amare e ancor più conoscere. È il circuito dell’amorosa conoscenza che le pecore vivono con il Pastore – “conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14) – mutuato dalla relazione amorosa che il Figlio vive con il Padre – “come il Padre conosce me ed io conosco il Padre” (Gv 10,15) – e così come il Figlio ascolta, obbedisce e segue il Padre così le pecore ascoltano, obbediscono alla voce del buon Pastore e lo seguono, sempre.

Gesù mi conosce e mi ama così come sono. Non pretende che io cambi, ma solo che lo segua, non pur con le mie debolezze, ma proprio con le mie debolezze. L’amore che motiva la conoscenza non si estingue e diventa non amore, una volta che si è conosciuto l’amato, anzi lo si ama ancor di più perché l’amore è soccorrere l’altro nel bisogno, in quella necessità che l’amore ha fatto scoprire nell’altro e che, sempre l’amore, richiede di celare agli estranei perché chi non ama non conosce e non comprende, guarda dall’esterno e senza entrare, presume di capire. L’amore entra, senza che l’amato si sente violentato e soccorre senza essere visto e usa compassione, solo lui può farlo perché il balsamo dell’amore discende dal cuore che trabocca del dono di Dio. Gesù mi ama e più io sento l’amore suo, per me unico, irripetibile, eterno, più la sua voce mi seduce – “Una voce! L’amato mio” (Cnt 2,8) – il suo chiamarmi per nome mi incanta, il suo sguardo lo ricerco come vita. Ognuno corre dove si sente amato e segue colui che ama. Solo Gesù ama, mai non per scherzo e usa misericordia per essenza, tenerezza per natura, accoglienza per accondiscendenza.

Se seguo Gesù è perché riconosco la superiorità e l’unicità del suo amore per me; se seguo il Maestro è perché non ho paura di farmi da Lui conoscere, anzi di scoprire, senza averne vergogna, che Lui da sempre conosce me e mi ama, prevedendo le mie infedeltà; se seguo Gesù non è perché sono buono e bravo, ma perché Lui si è innamorato di me ed io ho scoperto che senza il suo amore non esisto, privo del suo sguardo non vivo, misconoscendo la sua voce non ho pace. Seguo Gesù perché Lui mi ha seguito per primo, ha lasciato le novantanove pecore nel deserto ed è venuto a cercare me, che valgo più delle altre al sicuro, solo perché sono lontano da Lui. Seguo Gesù perché Lui è vita eterna, gioia perfetta, dolcezza senza fine, pace smisurata. Seguo Gesù non per avere altro all’infuori di Lui, perché è Lui che voglio e bramo seguendo Lui solo. Lo seguo non per raggiungere la meta, perché è Lui la meta, non per conseguire il premio, perché l’amore suo è per me premio, ma solo e unicamente perché nel lavacro del suo Cuore divengo creatura nuova. Ciò che determina in me la sequela del Signore non è la capacità che la sua voce ha di convincermi, ma la forza dell’amore che Lui mi comunica. La sequela non nasce da un procedimento razionale, dall’arte umana di persuadere, ma dalla spontaneità di un incontro che ti cambia il cuore. Hai scelto la persona che ti è accanto e con la quale condividi la vita non perché l’hai pensata e scelta, ma perché l’hai sognata ed attesa e, quando è arrivata, l’hai riconosciuta perché in te aveva preso forma da sempre. In amore non ci si sceglie, ci si riconosce perché questo è l’amore, l’arte di riconoscere l’amato come la parte di te alla quale sei unita da sempre e per la quale Dio ti ha pensata per sempre.

Amore, conoscenza, sequela sono le tappe di ogni relazione significativa che incide in profondità nella nostra vita, facendo nel cuore quei lunghi solchi che permettono ad ogni seme buono di germinare e fare frutto in abbondanza. Così è l’amore di Dio ti seduce, ti abbraccia e tu non puoi vivere senza di Lui. Così è dell’amore umano che Dio ha voluto a sua immagine nell’uomo, seduce senza legarti, attira senza violentarti, ti riempie senza toccarti e se ti afferra, nel suo abbraccio ti senti vivo/a sul serio.

Nella mano di Dio

L’amore conduce il buon Pastore a custodire le sue pecore perché non vadano perdute e nessuno le strappi mai dalla sua mano (cf. Gv 10,28). La custodia è ciò che rende tenero e delicato l’amore perché serba l’amato come un tesoro, non per ciò che offre di sé o potrà offrire, ma per quello che è, per il dono che è per se stesso. Anche la custodia dell’amato nasce dall’amore, come la vigilanza del figlio per una madre sorge come esigenza naturale della sua maternità, anzi ne è parte integrante. Chi ama, custodisce e non demanda ad altri la grazia della custodia. Così è anche per Cristo. Egli è “il custode ed il difensore nostro” dice san Francesco nelle Lodi di Dio Altissimo, capace di proteggerci come la pupilla del suo occhio. Siamo custoditi nella mano di Gesù, la mia sposa è da Lui custodita, la nostra famiglia è nelle mani di Gesù e del Padre, è questo che dobbiamo sempre ripeterci. C’è una sorta di anatomia della misericordia nella vita del Maestro: il suo occhio vede ed ama come un giorno vide ed amò Levi Matteo, la sua mano tocca e guarisce come la suocera di Pietro, dalla bocca di Cristo fiorisce la parola di vita che ci risuscita come accadde a Lazzaro, la sua mente scruta il mio animo senza giudicarmi ed accusarmi, l’orecchio suo ascolta ed esaudisce la mia preghiera, come ascoltò e beneficò il cieco di Gerico, il suo cuore si strugge nel desiderio di aprirsi per donarmi il sangue e l’acqua, lavacro di rigenerazione e vita nuova nello Spirito Santo.

È da Gesù che dobbiamo imparare l’amore che non imprigiona e stringe l’altro/a nella morsa della propria mano, ma che lo tiene teneramente perché il tesoro della sua vita non sia sciupato. Come Dio ha me nella sua mano, io ho l’altro/a nella mia mano, dal giorno del sacramento nuziale, lo custodisco con delicatezza, lo serbo con amore, lo guardo con stupore. E se nessuno strapperà me dalla mano del buon Pastore e del Padre, mio compito è non perdere l’amato/a, ma custodirlo, impedendo che la sua vita mi sia strappata e che altri, mercenari, ladri e briganti, la custodiscano al mio posto per puro interesse. È necessario chiedere con insistenza il dono della custodia amorosa perché è questo il segno della fedeltà che rende duraturo l’amore promesso.




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