V Domenica di Pasqua – Anno C

Non basta dire: “Ti amo”, è necessario capire “come” amare

coppia

di fra Vincenzo Ippolito

Avvengono, nelle nostre famiglie, delle reazioni a catena, un rapporto inclinato o una difficoltà riscontrata per una divergenza ha delle conseguenze disastrose sugli altri. Non capita questo ai figli quando una relazione di coppia è difficile da gestire o ai genitori quando gli amori adolescenziali o i primi inevitabili fallimenti fanno capolino e conducono a chiusure mal gestite e spesso ingigantite?

Dal Vangelo secondo Giovanni 13,31-33a.34-35
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». 

 

In queste ultime domeniche che ci dividono dalla Pentecoste, attraverso la narrazione del Vangelo secondo Giovanni, entriamo nel cenacolo di Gerusalemme per ascoltare il Signore che introduce gli apostoli nelle profondità del suo mistero d’amore. È il Vangelo del Cuore di Gesù quello che ci viene donato dalla liturgia in questa parte finale del nostro itinerario pasquale. Ecco perché è necessario ascoltare in silenzio ciò che il Maestro ci dice e comprenderlo alla luce del compimento del suo dono d’amore sulla croce. In Cristo, infatti, le opere manifestano e confermano quanto le labbra pronunciano perché solo il Signore può accorciare le distanze tra il dire e il fare e rendere navigabile qual mare che per noi è così impervio.  

 Uscire di scena nella vita dell’amato 

L’attacco – così si definisce in termini giornalistici l’incipit di un articolo, lo utilizziamo con la dovuta cautela, sapendo che si parla di un brano evangelico – è molto significativo perché ci fa capire quanto sta accadendo nel cenacolo di Gerusalemme, in quell’ultima sera. Gesù ha lavato i piedi ai discepoli (cf. Gv 13,1-11) e, dopo aver spiegato il giusto significato del suo gesto (cf. Gv 13,12-20), annuncia il tradimento di uno di loro, senza rivelarne l’identità (Gv 13,21-30. La narrazione che la liturgia odierna ci offre inizia proprio con l’uscita di Giuda dal cenacolo, dopo che ha preso il boccone che il Maestro ha intinto per lui (cf. Gv 13,30-31). L’Evangelista appunta laconicamente: “Ed era notte” (Gv 13,30). L’espressione è agghiacciante perché rende plasticamente lo spaccato interiore del cuore di Giuda: la parola del Maestro non ha messo radici perché la zizzania ne ha infestato tutto il terreno; i suoi orecchi, incapaci di ascoltare la Verità, sentono solo il tintinnio delle trenta monete che il Sinedrio ha fissato per lo scambio pattuito; i suoi occhi sono annebbiati e non sanno distinguere il bene dal male, la luce dall’oscurità, mentre in bocca ancora mastica quel boccone che ha ricevuto dal Maestro quale segno del suo amore e della sua volontà di riconquistarlo alla causa del Regno. Il traditore esce di scena, mentre nel cuore la tenebra lo divora e il deliberato consenso di consegnare il suo Maestro attende solo che si crei l’occasione propizia. Sembra un’azione semplice quell’uscita di Giuda e, invece, è il consumarsi di una frattura tra Maestro e discepolo, tra chi rimane dentro con il Signore e chi, fuori, è nel mondo del Male, separazione che crea un abisso, come quello tra Lazzaro ed il ricco epulone (cf. Lc 16,19-31). Varcata la porta si è fuori, fuori dal calore dello sguardo di Cristo, fuori dalla custodia del buon Pastore, fuori dalla mano del Padre che tutti protegge, fuori dal recinto sicuro che tutti difende. Perché non riusciamo a pensare, quando il Maligno ci assale, che, a braccetto con lui, come Eva con il serpente, usciamo dalla sua amicizia, ci allontaniamo dal nostro vero bene, crediamo che le tenebre siano la nostra vera ed unica luce? Perché il frutto dell’albero della disobbedienza ci appare particolarmente gustoso, mentre, invece, una volta affondati i denti, come Biancaneve, siamo avvelenati dal male celato? Perché il mistero dell’iniquità è per noi così seducente, ci carezza ed abbraccia per poi gettarti nel baratro, mentre noi attendiamo di salire verso ben altre e prestigiose mete?

Com’è profonda la notte di Giuda, intessuta di solitudine, intrecciata dei più disparati fili dei pensieri contrari a Dio e ai fratelli!

“Era così difficile per te, fratello Giuda, parlare con Gesù, manifestargli la difficoltà nel seguirlo, prenderlo da parte ed aprirgli il tuo cuore inquieto? Era così impossibile, scavalcare Pietro e Giovanni e gettarti ai suoi piedi perché Egli, di cui hai visto la potenza nei miracoli, potesse guarire anche te, come un giorno Zaccheo, dalla seduzione del denaro, dal tarlo della ricchezza, dal desiderio di esercitare il potere che umilia e schiavizza il fratello? Da quanto covavi in te il pensiero di tradire Colui che si fidava di te tanto da affidarti il denaro di quel suo piccolo gruppo? Da quanto la dolce voce del bel Pastore non dissodava il terreno del cuore tuo? Da quando, la tua mente vagava mentre i tuoi occhi vedevano il Cristo agire con potenza? Non hai sentito in te un sussulto ascoltando il Maestro ammonire le folle: “Nessuno può servire due padroni […] Nessuno può servire Dio e la ricchezza” (Lc 16,13)? Quelle parole non erano forse rivolte a te che, con l’ardire di Pietro, avresti dovuto dire: “Signore, queste cose le dici per gli altri o anche per noi?”. Giuda, Giuda, “tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è necessaria” (Lc 10,42), tu l’avevi, perché non l’hai serbata, Cristo era con te perché hai lasciato la forte stretta della sua dolcissima mano?

Vorrei comprenderti, ma non ci riesco, vorrei tanto fermarti nel tuo gesto estremo di uscire dal cenacolo ed imboccare la strada della morte per far vincere il male, per causare il peggio. Non ti accorgi che stai lasciando tutto, che stai buttando all’aria i tre anni di sequela, la libertà dell’amore, la bellezza del dono? Vuoi tornare alla vita di un tempo, ma perché? Non ricordi che la moglie di Lot divenne una statua di sale proprio per quel suo volgersi indietro, mentre camminava verso la salvezza e la libertà? Hai superato perfino il popolo d’Israele, ribelle e dalla dura cervice, essi sognavano il ritorno in Egitto, tu lo hai attuato, abbandonando la Sorgente della vita. Eppure senza Gesù non avrai il pane dell’eternità e la luce del mondo, morirai di sete perché privo dell’acqua che zampilla per sempre e la resurrezione non ti farà sperimentare la potenza della preghiera di intercessione di Gesù, come per Lazzaro. Esci incontro alla tua morte, la stai scegliendo, mentre in bocca hai ancora il sapore di quell’ultimo boccone che il Figlio dell’uomo ha intinto nel piatto solo per te.

In realtà, caro Giuda, fratello mio, non riesco a biasimarti perché se a te la parola del Maestro non rimbomba nel cuore, a me, invece, mi percuote come un flagello. Come posso farmi tuo giudice? Il Maestro mi ammonisce: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?” (Lc 6,41) e ancora: “Medico, cura te stesso” (Lc 4,23). Sì, caro amico, sono nella tua barca, non mi vedi, accecato dal tuo stesso mistero di iniquità, non mi riconosci? Anche io mi allontano dal Signore ogni qual volta la sua Parola non fa breccia in me; anche io esco sbattendo la porta della casa del Padre, con le mani cariche dei doni della libertà che divengono per me il segno di un libertinaggio, consumato raccogliendo alla fine solo tempesta; anche io, credo che il Signore mi imponga un peso eccessivo per le mie spalle, che mi domandi l’impossibile, che, scappare fuori, lontano da Lui e dai miei condiscepoli, sia l’unica strada per salvarsi. Guida, quale salvezza esiste lontano da Gesù, quale vita distante da Lui? Ma se tu non hai avuto la forza dell’umiltà per rientrare nella sala grande, per risalire al piano superiore, dove Gesù ti avrebbe accolto, ricco di misericordia, pronto al perdono, io non riesco, pur se peccatore incallito, ad allontanarmi da Lui, non riesco a non credere il suo amore più forte di ogni mio errore, non posso, per quell’amore che Egli ha nutrito e nutre per me, allontanarmi da quello sguardo che mi comunica vita, da quelle labbra che, come un favo, mi donano la dolcezza del miele di Dio. Il mio cuore, pur sedotto nel male, grida a Lui, i miei piedi, sanguinanti per le strade sassose del male vanno verso di Lui, le mie mani lo cercano, i miei orecchi lo pretendono. Sì, fratello Giuda, io rientro nel cenacolo, come un traditore pentito, ritorno nell’abbraccio del Signore e, con l’umiltà dell’emorroissa, gli dirò tutta la mia verità (cf. Mc 5,33) del mio peccato, ma tutto il mio desiderio di essere guarito dalla potenza della sua misericordia. La parola del Centurione sarà la mia confessione: “O Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma dì soltanto una parola” (Mt 8,8) ed io sarò guarito!”.

La carità non avrà mai fine

L’uscita di Giuda non frena la corsa d’amore di Cristo. Il Maestro non indietreggia, scosso dal dolore del tradimento imminente, non retrocede, colpito anzitempo dallo sgretolarsi della sua famiglia. Procede, avendo dinanzi agli occhi solo la gloria del Padre, la sua volontà e il vero bene dei discepoli. Eppure Gesù non è fatto di ferro, ha sete al pozzo di Sicar e piange dinanzi alla tomba di Lazzaro, si commuove per la morte del figlio unico della vedova di Naim e la vista di Gerusalemme, con le sue mura, scioglie il suo cuore in un pianto a dirotto. Il Figlio di Maria ha la mia stessa carne, è impastato della mia debolezza, il mio limite Egli lo ha fatto suo, scegliendo la mia povertà. Di me, Egli ha preso il limite, non il peccato, la fragilità, non la disobbedienza al Padre, Egli ha preso da me. Gesù nel cenacolo mostra cosa significa amare, prima ancora di donare ai suoi il comandamento nuovo, Egli lo vive per primo con Giuda che è uscito dalla sua vita e che, più tardi, nell’orto, con un bacio lo consegnerà ai suoi nemici. Cristo ama in libertà, l’amore che dona non dipende dalla capacità dell’altro di amare a sua volta, neppure dall’altrui volontà di eguagliare l’affetto ricevuto. Un amore che richiede il contraccambio, non è libero dalla perniciosa tentazione di ricercare un compenso, ma fa della risposta all’amore già donato la misura dell’amore da donare. Se l’amore mio non è amato ed io dall’altro non ricevo la restituzione, l’amore mio, l’amor proprio non amerà più e smetterà di amare perché non ha senso, per l’amor impastato di egoismo, amare senza ricevere il compenso. Questo capita con l’uomo che non ama in povertà, ovvero libero dalla pretesa del contraccambio, e neppure ama in gratuità, privo dal desiderio di ricevere un tornaconto. Gesù ama e basta, il suo amore è legge a se stesso, la sua volontà di donarsi regola di vita per sé. Chi batte moneta nella vita di Gesù è l’amore del Padre che genera nel cuore di Cristo l’energia di un amore che guarda solo al Padre suo e nostro come alla sua fonte. Gesù guarda gli uomini, ma non per ricevere da essi, quanto per donare e desidera che i suoi vivano e godano di quell’amore, come l’amato dell’abbraccio dell’amante. Cristo amando non chiede ed effondendo misericordia non pretende. Nell’uomo guarda il Padre, ascolta di continuo la sua voce che lo sostiene, il suo affetto che lo nutre, la predilezione che lo rafforza e quell’amore gli basta, anzi quell’amore ricevuto non lo trattiene per sé, ma con la stessa gratuità con cui dal Padre lo riceve, gratuitamente lo dona. È come se Gesù dicesse al Padre: “Tu sei tutta la mia ricchezza a sufficienza”. Richiedere l’amore dell’uomo, vorrebbe dire per Gesù che la tenerezza del Padre non gli basta, che il suo sguardo non lo rassicura e che la sua compagnia non lo appaga. La carità del Cuore di Cristo è senza fine perché, pur essendo nella natura di uomo, è Dio e l’amore suo non conosce limiti, non si arresta dinanzi al male, né si scuote per l’altrui peccato o rifiuto. 

Per noi, non lasciarsi influenzare dal fallimento dell’altro, dal suo sbattere la porta o dalla sua uscita sommessa, ma egualmente violenta, appare spesso impossibile. Il rifiuto dell’altro ha delle conseguenze disastrose in noi, nella cittadella del nostro cuore che viene scossa fin dalle fondamenta e che crolla sotto i pensieri della mente generati a raffica, per la paura ed il timore dell’abbandono. Questo accade perché nella vita costruiamo il presente e immaginiamo il futuro sull’amore dell’altro, la persona a cui voglio bene è il nostro sostegno e, se per qualche difficoltà delle più varie o anche per un momento di debolezza, egli barcolla, noi ci sentiamo morire e ci sembra di affondare nel baratro perché la nostra vita è stata minata nelle fondamenta. Ma l’altro/a è nostro aiuto, ma non fondamento, perché l’altro è plasmato di argilla proprio come me e se costruisco sull’altro la mia vita, l’altro è fondamento, non costruttore con me e se l’altro fonda la sua casa su di me, non sarà la nostra casa e neppure la costruiremo insieme, ma sarà la sua sopra di me. Un rapporto costruito sul reciproco amore non è stabile perché solo Cristo è roccia incrollabile su cui costruire senza temere lo straripare dei fiumi e il cadere dei venti. Il noi degli sposi è fatto dell’io dell’uomo e dell’io della donna che si innestano nella vera vite che è Cristo Signore. In Lui – afferma san Paolo – “ogni costruzione cresce ben salda per essere tempio santo del Signore” (Ef 2,22). Solo allora gli sposi, insieme pongono su Cristo le proprie speranze e, nella difficoltà, possono considerare che il fondamento comune è Cristo e se uno vien meno per debolezza, il crollo non è strutturale, perché non riguarda il fondamento che è incrollabile, ma la rovina della costruzione è arginabile con l’impegno e la volontà, attraverso un cammino non semplice, ma pur sempre possibile perché c’è Cristo sempre. È questa la forza della famiglia cristiana, il sapere che non si è mai soli e che ogni battaglia è combattuta con Dio, come Cristo vive le sue guerre sapendo che il Padre è suo scudo e baluardo, sua potente salvezza (cf. Sal 18,3). 

Vivere così l’amore conduce Gesù a cercare solo la gloria del Padre perché il rifiuto dell’uomo, la sua mancata risposta non compromette nulla di ciò che Egli ha scelto, non frena la sua corsa, non implica il suo ritrarsi. In Gesù, il rapporto con il Padre non viene minimamente inclinato dall’incapacità dell’uomo di rimanere nella relazione amorosa con Lui, di vivere nell’obbedienza come Gesù, condotto per mano, come Maria, dalla potenza dello Spirito. Con noi, invece, capita il contrario. Avvengono, nelle nostre famiglie, delle reazioni a catena, un rapporto inclinato o una difficoltà riscontrata per una divergenza ha delle conseguenze disastrose sugli altri. Ecco l’aria irrespirabile a tavola o l’esperienza che proprio chi non ha fatto nulla si trova poi a doverne pagare la conseguenza peggiori. Non capita questo ai figli quando una relazione di coppia è difficile da gestire o ai genitori quando gli amori adolescenziali o i primi inevitabili fallimenti fanno capolino e conducono a chiusure mal gestite e spesso ingigantite? L’arte dell’essere genitori sta nel contenere ciò che per prudenza è bene non far trapelare. Questo non significa essere falsi, quanto, invece, non infestare la vita altrui con le proprie difficoltà perché spesso accade che mentre il terreno del nostro cuore viene bonificato, quello dell’altro smaltirà con molto più affanno i veleni che era bene non affidargli. L’altro va custodito, non può essere il ricettacolo del nostro malumore, dei nostri sfoghi ed incomprensioni.

Come Gesù dobbiamo ricercare la gloria del Padre che sta nel rendere la nostra vita trasparenza del suo amore e della salvezza che prende strade impervie come quella della croce. Questa rivelazione dell’amore di Dio in noi è un dono da accogliere di buon grado perché è il Padre che glorifica il suo nome in noi, nell’amore della nostra famiglia, nello scambio dell’affetto degli sposi, nella letizia della comunione e del reciproco dono. Dio glorifica il suo nome in noi se noi gli diamo spazio, se la nostra vita è una lavagna dove Egli può scrivere con libertà, se offriamo a Lui quello che siamo per divenire strumenti docili della sua grazia tra gli uomini. È questo il caldo invito anche dell’Apostolo: “Glorificate Dio nel vostro corpo” (1Cor 6,20). In famiglia lo sposo glorifica Dio nel suo corpo divenendo trasparenza dell’amore del Signore con tutto il suo essere, nelle parole e nei gesti, nei pensieri e negli sguardi e lo stesso compie anche la sposa, insieme poi glorificano Dio quando pongono la propria volontà al servizio di quella del Padre e mettono ogni impegno perché Gesù sia amato, servito, conosciuto e annunciato da tutti in famiglia. Se riuscissimo a porre la gloria di Dio e non la nostra come fine di tutta la nostra vita! Tutto acquisterebbe la bellezza della vita di Cristo e si farebbe a gare nel perseguire la volontà del Padre che è poi la sorgente del nostro vero bene.

Nel “come” segreto del comandamento nuovo

Il tono del dialogo di Cristo con i discepoli è già accorato e carico di affetto, ma lo diventa ancor di più quando il Maestro chiama i suoi “Figlioli” (Gv 13,33). Sembra che il Cuore di Gesù si apra e venga donata a tutti la grazia di contemplare il segreto della vita del Maestro, del suo predicare e guarire, della sua parola franca e dello sguardo profondo, del silenzio che attende una risposta dall’uomo e della presenza sua che inquieta. Il traditore è uscito dal cenacolo e la consegna si sta per compiere. A differenza degli apostoli, Gesù è profondamente cosciente di ciò che lo attende. Ancora per breve tempo è con loro, per questo le sue parole, cariche di emozione, hanno il sapore di un testamento. “Vi do un comandamento nuovo – Egli dice – che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13,34). Siamo dinanzi alla rivelazione più alta del mistero del Verbo incarnato e della vocazione all’amore che ogni uomo ha ricevuto in dono. Gesù insegna l’amore e l’uomo, se vuole essere felice e realizzare se stesso, devo imparare da Gesù l’arte di amare. La novità sta proprio in questo: Dio è tutto per l’uomo – è nota l’esclamazione orante di san Francesco “Mio Dio e mio tutto” (Deus meus et omnia) – è Lui a donare il comandamento e Lui a viverlo per primo in Gesù, sempre Lui poi ad offrire la forza dello Spirito per realizzarlo. È un comandamento nuovo perché non bisogna guardare alla capacità del cuore umano di donare, come nell’antica Legge – “ama il prossimo tuo come te stesso” – quanto, invece, è necessario tenere fisso lo sguardo su Gesù, il Cristo, il Signore consegnato all’abbraccio della croce e reso vivo dalla potenza del Padre.

Tutti siamo portati naturalmente ad amare e a ricercare l’essere amati, ma non è questo che il Signore ci chiede. La novità consiste non nell’amare, quanto, invece, nella modalità dell’amore, in quel come io vi ho amati” che determina nel discepolo la necessità di volgersi continuamente a Cristo per apprendere da Lui cosa significa amare e dove conduce l’amore. Il rapporto poi – ed è qui che ci si discosta ancora di più dall’antica Legge – non è tra Dio e l’uomo, neppure tra uomo e uomo, ma nella relazione degli uomini tra loro, secondo l’amore che Cristo ha vissuto. L’amore di Dio determina una rivoluzione nelle relazioni interpersonali perché Gesù è al centro come la sorgente, il Maestro ed il Modello dell’amore, come è al cuore della famiglia che da Lui riceve esistenza, energia e vita.

Non posso dare libero sfogo ai sentimenti del mio cuore e credere che in questo consista l’amore, pretendendo dall’altro che mi accolga solo perché io sono me stesso. È necessario, invece, che il cuore venga purificato, l’amore incanalato nella giusta direzione perché tutto il nostro essere sia modellato sul Cuore di Cristo. Questo significa che per imparare ad amare e ad amare come Gesù bisogna essere con Lui, innestati nel mistero della sua Pasqua, legati al suo Cuore per ricevere il sangue che ci rigenera e l’acqua che ci rinnova. È dalla frequentazione del mistero di Gesù Signore, nella Parola e nell’Eucaristia, nella preghiera e nel volto del fratello che io mi lascio inquietare dal mio Dio e permetto a Lui di indicarmi la via dei suoi comandamenti. Posso forse amare come Cristo se non guardo verso di Lui, se non permetto al suo Spirito di modellare il mio cuore, di smussare il mio carattere, di lasciare operare Lui in me, per mezzo della sua grazia? E poi amare come Cristo, fino al dono della vita è possibile solo se Egli effonde su di noi la grazia del suo Spirito, se interiormente siamo mossi dalla sua forza, abitati dalla sua potenza, irrobustiti dalla sua determinazione, sanati nella nostra volontà ribelle.

È dall’amore reciproco, modellato su quello di Cristo, che dipende la nostra testimonianza nel mondo perché l’essere suoi discepoli non dipende da quello che facciamo, ma da come operiamo, dall’amore suo in noi che la nostra vita lascia trasparire. Nell’amore sta la credibilità della nostra fede e nel desiderio nostro di ricominciare ogni giorno mettendoci alla scuola del Risorto la forza del nostro essere in Cristo una sola cosa, uniti a Lui e tra noi per la grazia del suo Spirito.




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