Ascensione del Signore – Anno C

“Voglio portarti in alto con me, con la forza dell’Amore che è disceso dentro di me”

Ascensione del Signore

di fra Vincenzo Ippolito

Nell’educazione dobbiamo saper legare presenza e parola, chiedendo la grazia talvolta di saper tacere, di guardare l’altro perché rifletta su ciò che ha detto oppure si appresta a fare. Solo Gesù conosce ed insegna quest’arte perché una presenza che non è accompagnata dalla parola, al tempo opportuno, diviene l’omertà, mentre una parola che non è detta da chi è presente, non solo manca di incisività, ma non è segno della solidarietà, dell’amore ed è portata via dal vento.

Dal Vangelo secondo Luca (24,46-53)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».       
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio. 

 

 

È asceso al cielo e siede alla destra del Padre” con queste parole, nella professione di fede, ricordiamo il mistero che la liturgia ci offre oggi di vivere, con la solennità dell’Ascensione. Il Signore Gesù Cristo, dopo quaranta giorni dalla Pasqua, ritorna nell’abbraccio del Padre con il suo corpo glorioso, passato attraverso la morte. L’amore che ha strappato il Figlio dall’oscurità del sepolcro, lo accoglie ora nei cieli, mentre i discepoli, estatici, bramano di poter godere ancora della sua dolce presenza. Oggi domandiamo per le nostre famiglie la grazia di ascendere, con la forza dell’amore, dai nostri piccoli e grandi problemi, a quell’altezza che ci permette di vedere con gli occhi di Dio la nostra vita e di giudicare le cose secondo il Signore.

Gesù risorto, presenza e parola

Ritorniamo a prendere tra le mani, con la liturgia odierna, il Vangelo secondo Luca, la cui lettura ci accompagnerà in maniera continua con la solennità del Corpo e Sangue del Signore (29 maggio) e poi con la ripresa del Tempo Ordinario (5 giugno). Nelle prossime domeniche, infatti, leggeremo nuovamente il Vangelo secondo Giovanni, sia il giorno di Pentecoste (15 maggio), che nella festa della Santissima Trinità (22 maggio).

Il brano odierno è la parte finale del capitolo XXIV del Vangelo secondo Luca, l’ultimo quadro letterario che l’autore ci offre nella sua opera. In esso è possibile ravvisare quattro scene: nella prima, le donne, andate al sepolcro, incontrano due uomini in abiti sfolgoranti, annunciatori della resurrezione di Gesù (cf. Lc 24,1-10); nella seconda, l’Evangelista narra lo stupore degli undici e la corsa di Pietro per rendersi conto della veridicità dell’annuncio ricevuto (cf. Lc 24,11-12); nella terza due discepoli, Cefa ed il suo compagno, sulla strada verso Emmaus, incontrano il Signore, discorrono con Lui e solo nella frazione del pane lo riconoscono vivo e vero, risorto dalla morte (cf. Lc 24,13-35); la quarta è l’apparizione del Risorto alla comunità a Gerusalemme, con la promessa dello Spirito Santo, il commiato e l’ascensione (cf. Lc 24,36-52).

La pericope liturgica che leggiamo è parte dell’ultima scena (otto versetti su diciassette), comprende le parole del Risorto con le indicazioni ai suoi discepoli e poi, in chiusura, la sua ascensa in cielo (in soli due versetti), e la vita della comunità di Gerusalemme, scandita dalla gioia e dalla lode. Su questo quadro ci soffermiamo, guidati dalla presenza del Paraclito, entreremo nel Testo sacro, nel flusso letterario che media la potenza della resurrezione del Signore per imitare l’esperienza gioiosa dei discepoli.

La prima cosa che il testo lucano ci porta a riflettere è la presenza di Gesù nel cuore della comunità. Non sono i discepoli a cercare il Signore, ma è il Risorto che si fa loro incontro, li visita lì dove sono riuniti e gli partecipa la gioia che il Padre ha Lui donato con la sua resurrezione. Si tratta della dinamica dell’amore che previene, dell’affetto che rincorre, del bene che anticipa, della parola che rompe il silenzio della paura per far nascere, inaspettata, la gioia del cuore. Gesù è presente e ricorda la parola spezzata durante la sua vita pubblica. Presenza e parola liberano i discepoli dalla schiavitù della paura, dagli spettri dei pensieri che si aggirano nella cittadella del cuore. La presenza senza parola rincuora sì, ma non permette di entrare consapevolmente nella dinamica dell’evento che resta incomprensibile; la parola senza presenza non genera la speranza, è una voce lasciata al vento, perché ha bisogno di labbra che la pronunciano, di sguardi che permettano alle parole di vincere la durezza degli orecchi e del cuore per essere seminate nel terreno dell’animo e portare frutto. Una presenza eloquente è quella del Risorto, non è un fantasma che appare e scompare, ma una Persona viva che si lascia vedere, toccare ed ascoltare, una presenza che dona la bonaccia nella tempesta, una voce che rassicura l’anima, mentre assoggetta le potenze delle tenebre nel furore degli astrusi pensieri che soffocano il nascere della speranza. Gesù è presenza e parola, promessa e realizzazione, annuncio e compimento. Non lascia i discepoli smarriti, in preda alle dicerie comuni sulla sua sorte dopo la morte, ma continua ad essere il Maestro ed ora, ancor più di prima il Signore, perché è questo il nome, al di sopra di ogni altro nome, che il Padre gli ha conferito nel mistero della sua glorificazione (cf. Fil 2,10-11).

La prima sollecitazione che il testo scritturistico offre alle nostre famiglie è proprio quello di vivere la dinamica dialogica della presenza – parola. Spesso abbiamo nei nostri rapporti la scissione di queste realtà che, principalmente nell’educazione, sono pietre miliari che vanno poste una accanto all’altro, pena la non stabilità delle relazioni. Assistiamo spesso a presenza di genitori che, per paura, sono l’ombra dei propri figli, presenze imposte e sopportate, non accolte e vissute come occasioni liberanti, possibilità per aprire dialoghi e strade nuove di gioia. La sola presenza dei genitori spesso è subita dai figli che non crescono nella fiducia e non vengono considerati maturi, capaci, gradualmente, di prendere in mano la propria vita e di rendere ragione delle scelte prese, idee vagheggiate, pensieri fatti. Spessi i genitori sono pronti a risolvere ogni difficoltà, ad appianare ogni situazione, ad entrare, con la duttilità dell’acqua di un fiume che ha superato gli argini, lì dove, forse, si ha bisogno di tempo maggiore, di interiorizzazione serena e di riflessione ponderata.

Dobbiamo imparare da Gesù una presenza chiara, ma discreta, reale, ma risorta, ovvero che abbia conosciuto e vissuto le tappe del cammino che l’altro sta affrontando, capace di non imporre l’itinerario compiuto, ma che lo doni come esperienza condivisa, possibilità gioiosa che illumina la strada dell’altro e crea la condivisone ed il dialogo. Presenza e parola devono essere scanditi dalla libertà. L’altro, il figlio o la sposa, l’amico o il fratello, non devono sentire il fiato sul collo, vivere l’oppressione di una presenza inquisitoria da accettare e subire perché motivata dall’amore (questo non è amore, quanto, invece, egoismo, appropriazione e strumentalizzazione dell’altro, perché l’amore vero genera e determina la libertà dell’amato). Non possiamo, infatti, chiedere che la nostra parola saccente e perentoria venga accolta – l’altro/a, in tal caso, si sente violentato e, invece, di aprirsi al confronto o meglio all’obbedienza pretesa, si chiude a riccio, senza sentire e dare ragioni – perché la persona che mi è accanto ha il diritto di sperimentare la prossimità di colui/colei che ama e che, spinto dall’amore, è presenza affettuosa e sincera, parola di speranza che risolleva e guarisce, infonde fiducia spinge a scelte coraggiose. Dobbiamo sapere legare insieme nel processo educativo presenza e parola, chiedendo la grazia talvolta di saper tacere, di guardare l’altro perché rifletta su ciò che ha detto oppure si appresta a fare. Solo Gesù conosce ed insegna quest’arte perché una presenza che non è accompagnata dalla parola, al tempo opportuno, diviene l’omertà, mentre una parola che non è detta da chi è presente, non solo manca di incisività, ma non è segno della solidarietà, dell’amore, della gioia di procedere insieme ed è portata via dal vento.

La presenza e la parola del Risorto, infatti, spinge ad osare, osare nei sogni e nelle parole, nei desideri e nei propositi, nelle relazioni e nel futuro da costruire insieme. A ben pensarci questo verbo è spesso dimenticato nel vocabolario dell’amore familiare. Non osiamo con la nostra presenza per non essere scacciati, buttati fuori dalle situazioni e dai pensieri dell’altro/a, soprattutto dei figli che, crescendo, ci appaiono sempre di più come degli estranei. Non osiamo spesso neppure con le parole perché potrebbero ferire, anche se non è questa l’intenzione segreta che le muove. E così le nostre relazioni si trascinano, perdono di incisività, raggelati dalla paura di fare un passo falso e di essere messi alla berlina, non siamo capaci di osare, di metterci in gioco, di puntare il tutto per tutto, come il Maestro che non cerca proseliti, ma amici, non vuole essere seguito come un guaritore, ma come il Pastore che dona la sua vita per le pecore. Il Gesù che il Vangelo ci dona ha la capacità di osare in ogni rapporto, in ogni ambito, in ogni relazione o dialogo. Cristo, infatti, non si lascia imbrigliare nello sgomento che lo circonda, ma osa, non permette al timore di assediare il suo cuore, ma osa, anche dinanzi all’indifferenza di chi gli è avverso, osa con determinazione e coraggio, con quella ferma dolcezza che solo Lui, Dio e uomo insieme, riesce ad avere. Cristo, infatti, osa con la sua parola e non indietreggia neppure davanti ai potenti; osa con il suo occhio che giunge a scrutare i pensieri dei cuori; osa con il tatto della sua mano che raggiunge ogni uomo perché sperimenti la guarigione e la salvezza.

L’educazione come arte del ricordare

Nel cenacolo di Gerusalemme, mentre il Risorto porta i discepoli allo stupore, la sua parola rischiara le tenebre e fa nascere la gioia. Gesù è presente e parla e parlando, ricorda la Scrittura trasmessa dai padri, mentre rilegge la vita sua e dei discepoli. È come se stesse componendo un puzzle, unisce tessera a tessera, rispettando l’incastro di un pezzo con il suo corrispondente. Gli apostoli, si pensi ai due di Emmaus, non conoscono quest’arte perché l’interpretare la propria vita, comprenderne il senso, ricavarne la presenza di Dio e della sua volontà è come leggere la Scrittura, richiede un metodo, una maestria che solo lo Spirito può comunicare al cuore dell’uomo. Il Risorto, come con Cefa ed il suo compagno (cf. Lc 24,27), apre l’Antico Testamento, con l’autorevole autorità che dimostra nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,14-30) e legge la vita con la Parola di Dio e la Scrittura con la storia. Nella parola del Risorto vediamo una straordinaria circolarità tra Parola di Dio scritta e trasmessa e Parola di Dio vissuta, affidata alla storia fatta di volti, eventi, situazioni ben circostanziate. Dio è “in cielo, in terra ed in ogni luogo. Egli è onnipresente”, recita il Catechismo classico di san Pio X, ovvero Dio abita la nostra vita misteriosamente e l’uomo deve vederne le orme, riconoscerne la presenza, avvertirne il fragrante suo profumo di vita. Vangelo e storia vanno letti insieme, sempre. Un Vangelo, che è in se stesso storia narrata e trasmessa, se non incontra la storia degli uomini, diviene ideologia, quando l’ortodossia (la retta fede confessata) non sposa ed ispira l’ortoprassi (la vita concerta perché divenga evangelica), così come la storia se non incontra il Vangelo perde la dimensione verticale dell’esistenza e l’ortoprassi diviene sociologismo. Non solo non possiamo dividere il Vangelo dalla storia, ma neppure possiamo credere che camminino insieme, una accanto all’altra, come le rette parallele che in geometria mai si incontrano. Esiste una circolarità tra Vangelo e storia e la Chiesa è chiamata a darne ragione, a provarne l’efficacia, a rivelarne la necessità. È quello che fa Gesù, conduce i suoi a legare e leggere in sinossi il rivelarsi di Dio nella Scrittura ed il rivelarsi di Dio nel mistero della sua Pasqua. Ecco perché non possiamo mai assolutizzare la Bibbia oppure, di contro, dare maggiormente importanza alla nostra sensibilità e a quello che noi viviamo.

I discepoli, dopo la passione del loro Maestro, sono nella paura e nello sconforto perché guardano la storia, ma senza il riferimento oggettivo alla Parola ricevuta durante la vita pubblica di Gesù. Hanno sì una storia da comprendere e metabolizzare, da accogliere e nella quale riconoscere l’agire di Dio, ma senza la Parola del Maestro non possono comprendere perché la storia, ogni storia ha bisogno di una parola che la illumini, come una rosa rossa che un uomo invia alla sua donna, ha bisogno di una parola e di un nome su un biglietto che doni un volto e un cuore concreto per chi la riceve. Gli apostoli hanno una storia, ma senza senso, hanno un evento, ma senza chi li aiuti a decifrarlo, hanno un corpo, anzi essi stessi sono il Corpo di Cristo, la Chiesa, ma a loro sembra che manchi il cuore che faccia circolare il sangue che lo vivifica e lo rende in grado di agire. Ecco perché i genitori sono chiamati ad essere i primi educatori per i loro figli, mettendo in contatto le energie del Vangelo con la vita vissuta, lasciando che la Parola del Signore illumini i passi, sostenga le scelte, motivi l’impegno, doni l’orizzonte nel quale muoversi liberamente. Dobbiamo sempre più educarci a fare della Scrittura la nostra lampada di Diogene, a portarla dovunque con noi, a tenerla sempre a mente, lasciando che lo Spirito ricordi ciò che il Signore ha detto lungo la strada con i suoi.

Il primo compito che Gesù risorto adempie nella sua opera di rieducazione della sua comunità-Chiesa è quello di mettere insieme Vangelo e storia, ciò che gli uomini hanno vissuto e quanto Dio ha voluto rivelare nell’evento della croce. Egli prende la Scrittura, ricorda le parole pronunciate durante il cammino e dona un senso nuovo alla sua morte che è la vera Pasqua. “«Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora tra voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture” (Lc 24,44-45) scrive l’Evangelista poco prima della pericope donataci dalla liturgia odierna. Aprire la mente è un compito del pedagogo Gesù. La mente dell’uomo è chiusa, come anche i suoi occhi, perché l’uomo è un idolo per se stesso quando dal suo orizzonte scompare Dio e la sua parola, “Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, dalla gola non emettono suoni”. Senza Dio, l’uomo non comprende il mistero della sua vita e non può parlare; senza Dio, gli occhi sono incapaci di vedere il vero ed il bene, il bello ed il giusto; senza Dio, non esiste comunicazione autentica e la vita è il palcoscenico di una guerra di tutti contro tutti (bellum onmium contra omnes).

L’educazione è l’arte del dare un senso, del mettere in ordine le cose, del saperle legare tra loro. È questo il modo in cui Gesù educa la sua comunità: dona un senso allo smarrimento dei discepoli, supera il loro timore, traghetta la barca dei suoi oltre lo sgomento, ordina i pensieri, lega promessa e compimento, parola scritta e vita vissuta e nelle tenebre lascia che sorga la luce della sua Pasqua. L’educazione è l’arte del ricordare, del comprendere le intenzioni, delle varianti di ogni situazione, talvolta, prevedendole. L’educatore ha una storia da indicare come riferimento ed un futuro da costruire come l’argilla grezza da plasmare. Ma chi deve sporcarsi le mani è il discepolo, deve entrare nella storia con la ricchezza delle indicazioni che ha ricevuto, pur sapendo che non basta l’obbedienza cieca, devi egli saper mettere a frutto, con un lavorio di attualizzazione, ciò che ha imparato.

Noi oggi abbiamo la memoria troppo corta, pensiamo di essere i primi, miopi nel riconoscere di appartenere al flusso di una storia che ci ha preceduto e che, per volontà di Dio, ci seguirà. Ricordare il passato, le opere di Dio nella nostra vita ci apre alla lode, al ringraziamento, alla supplica. Spesso la nostra superficialità, ci porta a dimenticare. Solo l’amore ricorda tutto dell’amato e lega al braccio il ricordo dell’altro perché la dimenticanza mai vinca sull’amore promesso.

Fuori dal chiuso, benedetti da Dio

Luca è molto scarno nel descrivere la scena dell’ascensione. Scrive, infatti, in maniera asciutta “Poi [Gesù] li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui” (Lc 24,50-53a). La prima cosa che Gesù compie è il condurre fuori i discepoli. È un’azione che anche Giovanni riferisce a Gesù, il buon Pastore: “Egli chiama le sue pecore per nome e le fa uscire fuori. Quando le ha spinte fuori tutte, cammina davanti a loro” (Gv 10,3b-4a). Il Figlio di Dio, infatti, “non considerò un tesoro di cui appropriarsi la sua uguaglianza con Dio, ma umiliò se steso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2,6-7). Facendosi uomo, il Verbo esce dal seno del Padre, sposa la carne della nostra fragilità, fa proprio il limite della nostra umanità. Per il Verbo, uscire fuori significa incontrare l’uomo, facendosi Egli stesso uomo, in obbedienza al Padre che, da parte sua, non trattiene per sé il Figlio, come anche il Figlio, venendo nel mondo, non si appropria del suo essere Dio. In questo modo, Cristo insegna che la Chiesa è il suo vero corpo se esce da se stessa per andare incontro all’uomo, assumendo la sua storia e facendo proprio le gioie e le speranze del mondo.

Gesù invita i discepoli ad uscire dal cenacolo e a seguirlo sulle strade degli uomini. Una tentazione perniciosa per la Chiesa di sempre è quella di rimanere dentro, quando, invece, la dinamica che Gesù insegna è di uscire dal chiuso, di andare fuori da recinto, di vincere le assolutizzazioni, di superare le visioni parziali, di destreggiarsi coraggiosamente con le sfide del mondo. È troppo comodo, infatti, rimanere nel proprio guscio, lasciarsi vincere dalla paura, accomodarsi nelle sicurezze, credere che la cerchia ristretta delle proprie amicizie sia l’unico campo con il quale confrontarsi. Fuori, invece, c’è un mondo che attende Cristo, che lo cerca, pur senza conoscerlo, che procede a tentoni, che domanda ad ogni discepolo ragione della speranza che lo anima, della carità che lo muove, della gioia che irradia il suo volto.

Discorso analogo riguarda anche le nostre famiglie perché il venir fuori è una grazia da chiedere al Risorto anche nelle nostre relazioni. Ci sono, infatti, momenti di stallo che non riusciamo a vincere. Il chiuso delle nostre case, che sono poi il risvolto dei rapporti non riconciliati e dei momenti nei quali non riusciamo ad accoglierci, ci appaiono insopportabili. Le uscite rappresentano una realtà positiva, uscite da se stessi e capacità di entrare nel cuore dell’altro/a sono il senso della vita insieme. Noi, invece, non conosciamo le uscite, ma le fughe. Quando l’aria diviene irrespirabile tra noi ed i problemi non si vogliono risolvere, si scappa, si cerca comprensione e realizzazione altrove. Si tratta delle uscite di sicurezza del nostro egoismo, si cerca altro, altri che gratificano il nostro amor proprio e ci facciano sentire vivi. Gesù ci spinge ad uscire, il demonio a fuggire, il Risorto ad incontrare i fratelli, il Principe di questo mondo a scappare dai propri rapporti, il Signore a lasciare le proprie sicurezze, Satana a crearle fuori dall’amore promesso. Uscire con Gesù o fuggire con il demonio? Vincere le proprie paure o assecondarle gettando l’ancora delle proprie false sicurezze nel mare aperto delle tentazioni di ogni genere?

L’uscita ha una meta, uno scopo e più usciamo, condotti da Gesù, più la sua benedizione scende sopra di noi, “come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste. […] Là il Signore dona la vita e la benedizione per sempre” (Sal 133,2. 3b). Dovremmo scoprire o, meglio, riscoprire il gesto della benedizione nella liturgia familiare. Un genitore deve benedire il proprio figlio anche più volte nella giornata, deve toccarlo nel gesto tenero del vecchio Isacco che, stende le mani sul capo del suo primogenito, lo accompagna e lo invia quasi a dire “Ciò che farai è secondo la mia volontà. Sono con te. Le mie mani ti custodiscono sempre!”. Benedire è il segno della compagnia nell’amore e della comunione di intenti, dell’assistenza vigile e della vicinanza premurosa. Chi benedice, ama, sorveglia, cerca il bene dell’altro. Ma benedire è anche mettere in guardia, ammonire e preservare dal male. Dio ci benedice, riversa sopra di noi il suo amore fedele e sincero, il suo affetto vero e continuo, la sua assistenza tenera e dolce. Perché non benedire i propri figli prima che escano di casa al mattino o quando si trovano in un momento importante della vita? Perché dopo il bacio della buona notte non stendere sopra di loro le mani? Perché non carezzarli dicendo “Questa è la carezza di Dio per te, figlio mio!”? Gesù benedice i discepoli, assicurando la sua presenza e rincuorando i loro cuori perché la benedizione è un gesto da ricordare sempre per non sentirsi mai soli.

Sale solo chi prima è disceso

Proprio mentre benediceva i suoi, il Risorto ascende, completando la parabola iniziata con l’Incarnazione. È quello che dobbiamo imparare dal Signore, nell’esercizio continuo che l’amore richiede, discendere nella vita dell’amato condividendone tutto, senza lasciarsi imbrigliare nel male, ma portandolo verso l’alto con la forza dell’amore. Gesù ci precede ed in Lui, glorioso, la nostra umanità è già nel Regno del Padre. Solo l’amore sposa l’umiltà e l’umiliazione, solo l’amore risolleva e fa entrare nella vita vera per sempre.




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