SS. Corpo e Sangue del Signore – Anno C

“Tutto è grazia”: impariamo in famiglia la dinamica del dono

famiglia

(Foto: © Claus Mikosch - Fotolia.com)

di fra Vincenzo Ippolito

Una famiglia che non si racconta, una coppia che non trova il tempo per condividere, dei figli che non sono stimolati ad un quotidiano confronto di crescita sono come un albero senza fiori, non conoscerà la stagione dei frutti.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi  (11,23-26)
 Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

Prima di prendere il largo nel grande mare del Tempo Ordinario, la liturgia ci offre di celebrare il mistero della Presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Istituita da papa Urbano IV nel 1264, l’anno successivo al miracolo eucaristico di Bolsena, la solennità del Corpo e Sangue del Signore fissa l’attenzione della Chiesa sul memoriale della Pasqua di Gesù e richiama ogni cristiano a contemplare, nei segni umili del pane e del vino, la grandezza dell’amore di Dio per noi.

Intorno all’altare del Signore ci stringiamo come famiglia dei suoi figli per apprendere il segreto del rendere le nostre parole capaci di trasformare, con la forza dello Spirito, la nostra vita in dono.

L’Eucaristia, ricchezza e responsabilità della Chiesa

Tra i testi biblici proposti dall’odierna liturgia, ci soffermiamo su quanto l’apostolo Paolo scrive alla chiesa di Corinto. La pericope di 1Cor 11,23-26 è, infatti, la più antica testimonianza circa l’istituzione dell’Eucaristia, databile ancor prima dei Vangeli. L’Apostolo scrive intorno all’anno 53 dell’era cristiana, da Efeso dove ha fatto tappa alla fine del secondo viaggio missionario (cf. At 18,18-22). Le notizie che gli sono arrivate circa alcuni situazioni incresciose lo spingono ad indirizzare a quella Chiesa più di una lettera (1 e 2Cor), riportate nel Nuovo Testamento subito dopo l’Epistola ai Romani. Il testo della 1Cor sembra ben articolata intorno ad alcuni nuclei della predicazione paolina, ripresi e chiariti, come l’Apostolo è spesso costretto a fare, avversando il Nemico che cerca di rubare sempre il buon seme sparso con tanta larghezza.

Ci troviamo nella seconda parte dell’Epistola (1Cor 7-14). Paolo sta rivedendo alcuni comportamenti ricorrenti nella comunità (1Cor 11-14) e, giunto a trattare della cena del Signore (1Cor 11,17-34), presenta il dato tradizionale dell’istituzione dell’Eucaristia da parte di Gesù. Possiamo considerare il nostro brano come un cuore dentro un corpo, perché da esso promana tutta la forza della comunione che caratterizza la vita cristiana. Si tratta, infatti, di un gioiello assai prezioso, che con pochi altri – si pensi a 1Cor 15, 3-7, il piccolo credo apostolico – testimonia quanto Paolo sia debitore alla tradizione della Chiesa delle origini e come egli sia un anello di quell’unica catena che lega Cristo alle diverse generazioni cristiane di tutti i tempi.

Prima di tutto l’Apostolo riconosce nella sua vita il primato del dono, perché ogni cosa ha ricevuto da Dio, attraverso la comunità. Questo non lo porta a sentirsi superiore ai fratelli, ma a vivere responsabilmente il dono di ciò che resta ricchezza non sua, segno puro dell’opera di Dio in Lui. Con accenti forti, già prima lo aveva affermato: “Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4,7). Per Paolo è importante il dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. È questa la povertà che deve caratterizzare la vita del discepolo, il sapere che la ricchezza contenuta nel fragile vaso della vita viene da Dio. Tale consapevolezza genera nel cuore la gratitudine e la restituzione, gratitudine per il dono che il Signore ha concesso, restituzione come non appropriazione della grazia gratuitamente concessa e continuamente sperimentata. In tal modo l’Apostolo diviene il testimone di ciò che Dio ha compiuto attraverso il corpo di Cristo che è la Chiesa e, riconoscendo il dono, confessa di non essere proprietario della grazia, ma custode e, al tempo stesso, testimone e tramite del dono che deve raggiungere anche gli altri fratelli.

Riconoscere la grazia, non vantarsi del dono – questo significherebbe appropriarsene! – restituirla, donandola: sono i passaggi obbligati dell’amore, perché più lo si vuol chiudere e più muore, mentre, invece, più lo si dona e più aumenta, come il lievito nella massa. Paolo sa bene che ogni discepolo è chiamato ad entrare nella circolarità dell’amore di Dio, attraverso la potenza del Risorto, il suo Spirito che circola e vivifica nelle membra del suo Corpo che è la Chiesa. La misericordia che il Signore ci usa non dobbiamo tenerla per noi, ma trasmetterla con la stessa benevolenza che il Signore ci ha usato. È la dinamica del “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). La maturità dell’amore, oltre che del cammino di fede, si nota proprio nella capacità di ricevere e dare, di non fermare in sé il flusso della carità di Dio e di mettere in circolo quanto ci è stato donato. Ecco perché Paolo può dire “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1Cor 15,10). L’amore è dono e responsabilità. Del dono ci rallegriamo e gioiamo intimamente, ma siamo chiamati anche a viverlo con responsabilità, ovvero a “a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15). Sarebbe un esercizio interessante ritagliarsi del tempo e, con foglio e penna, enumerare il bene che riceviamo ogni giorno da Dio e dai fratelli. Giustamente il salmista afferma “Se li voglio annunciare e proclamare, sono troppi per essere contatati” (Sal 40,6b) e, a pensarci, è così per ciascuno di noi. Dal sole che sorge, dal sorriso della persona che si ama, dal bacio di un figlio, tutto è dono ricevuto e sempre immeritato. Questo ci abilita a vivere nello stupore e nella riconoscenza, a fare anche della vita un dono perché, insegna santa Teresa del Bambino Gesù, “Tutto è grazia”. Ma, sul foglio che abbiamo davanti, meglio se piegato in due, è importate riportare anche ciò che restituiamo agli altri, il nostro donarci, l’impegno di non trattenere per noi stessi, come i bambini sempre pronti ad afferrare e a lasciare tutto, solo quando il sonno ha vinto le loro giovani forze. Sarebbe un esercizio bello vedere il rapporto tra grazia ricevuta e dono concesso, non solo a livello personale, ma anche di coppia e di famiglia. È, infatti, importante fare il punto della situazione, vedere dove e quando facilmente ci blocchiamo, notare quanto l’egoismo dirotti il cammino della maturità dell’amore. Servirebbe anche a riconoscere con umiltà i propri limiti e a lasciarsi aiutare dall’altro/a nel seguire Gesù.

La Chiesa si edifica in tempio santo di Dio quando c’è questa sinergia tra ricevere e dare, la stessa che ha caratterizzato la vita di Cristo. Spesso noi riceviamo e anche tanto, ma non solo non restituiamo, ma, cosa ancor più dannosa, non riconosciamo la gratuità del dono. Siamo convinti che tutto ci sia dovuto e così, quando nel cuore non fiorisce la gratitudine come segno della gratuità, la zizzania della pretesa infesta la vita e rende malsano ogni rapporto. Tante volte non custodiamo la bellezza dei nostri incontri, ma sciupiamo la grazia delle nostre relazioni. Se riuscissimo anche noi a comprendere la lezione di fra Galdino “Noi siamo come il mare, che riceve acqua da tutte le parti e la torna a distribuire a tutti i fiumi”. È questo il segreto dell’amore. In famiglia dobbiamo essere educati a riconoscere la gratuità dell’amore, anzi la famiglia è il laboratorio educativo della gratuità del dono, dove si apprende l’arte di riconoscersi dono dell’altro e ci si offre senza calcolo e senza misura. I figli, nati dall’amore di un uomo e di una donna, sono proprio il segno della bellezza di riconoscersi dono per l’altro e, in questa circolarità tra dono concesso e ricevuto, fiorisce la vita, segno della gratuità dell’amore e della fecondità del dono. In famiglia è necessario che i figli entrino nella circolarità del ricevere e dare che scandisce la vita dei genitori perché sono essi ed essi soli che devono rivelare per primi dove giunge la maturità dell’amore, nel quotidiano impegno a rinnegare il proprio egoismo perché non si spenga la fiamma della volontà oblativa. Guardando ai propri genitori, i figli devono sapere di vedere come in uno specchio la capacità propria di Dio di nulla appropriarsi e la forza di donarsi oltre misura in quella gara di reciproca fedeltà che rinnova di giorno in giorno l’amore promesso. In questo modo, i genitori crescono nell’amore e si aiutano mutuamente nel vincersi e superarsi nell’ascesa quotidiana del dono che sbaraglia ogni secca che l’egoismo apre nel cuore e che va riempito solo accogliendo l’amore dell’altro. È vero, talvolta la corsa può conoscere lentezze e soste forzate, ma gli sposi cristiani sanno di potersi poggiare l’uno all’altro per sostenersi e mendicare quell’amore che non sono capaci di donare. L’amore è povero, chiede umilmente perché sente il bisogno dell’altro e questo è ancor più vero quando non si riesce a donare, ma si crede che solo l’amore della persona amata può rimettere in circolo la capacità della fonte interiore di zampillare nuovamente. La persona che mi è accanto e che definisco il mio amore, riversando il suo amore in me, nel mio cuore, nel mio corpo che come un vaso misteriosamente contiene l’amore di Dio che l’altro mi trasmette, mi abilita nuovamente al dono, come una sorgente che, secca per la calura estiva, nuovamente dona acqua viva, alimentata da una falda inaspettata, quella del cuore dell’amato.

Gesù, il dono dei doni da ricevere e dare

Quello che Paolo riceve e trasmette è Gesù, il Figlio di Dio resosi Figlio dell’uomo per la nostra salvezza. È Lui il centro della trasmissione apostolica, Lui e Lui solo che gli evangelizzatori donano ai credenti, è la relazione con il Signore crocifisso e risorto che essi aiutano a costruire e a far crescere. E se Paolo può dire “Noi predichiamo Cristo Crocifisso” (1Cor 1,23) è perché egli sa bene di non avere altra scienza se non quella della croce. Non solo l’annuncio è innervato su Gesù, sul mistero della sua Pasqua, ma anche la vita dell’apostolo, di ogni predicatore è ben fondato su una relazione viva con la Persona del Risorto che nella sua Chiesa opera con potenza. La dinamica della consegna scandisce la vita del discepolo che riceve Cristo nella fede della comunità che lo genera e ad essa dona il medesimo Signore, attraverso la testimonianza della sua vita.

Ricevere Cristo significa essere evangelizzati, donare Cristo significa evangelizzare. È questa l’identità profonda della Chiesa che vive della Pasqua del suo Signore e della missione da Lui ricevuta di continuare la sua Presenza risorta tra gli uomini. Questo vale anche nell’educazione alla fede nelle nostre famiglie. I genitori sono chiamati a donare Gesù, non una dottrina che a Lui si ispira, tantomeno una morale che in Lui ha il suo iniziatore, ma il Gesù della storia che ha rivelato, nella carne della nostra umanità assunta dal Verbo, il mistero del Padre e del suo amore. La formazione cristiana sta proprio nella responsabilità di trasmettere ciò che si è ricevuto, nel dovere, avvertito come impellente, nato dalla consapevolezza della preziosità della parola del Vangelo ricevuto. Ecco perché Paolo può dire “Non è per me un vanto predicare il Vangelo, è per me un dovere. Guai a me, se non annuncio il Vangelo” (1Cor 9,16). Le nostre famiglie, come anche le comunità, devono vivere con rinnovato impegno la formazione cristiana delle nuove generazioni e, al tempo stesso, lavorare perché il patrimonio di fede non solo venga custodito, ma faccia crescere in spessore di autentica umanità cristiana quanti seguono Gesù Cristo ed in Lui riconoscono il Salvatore del mondo. Se non doniamo Cristo, con la parola e con la vita, la nostra presenza educativa non ha senso perché il fine che deve sostenere il nostro impegno nel mondo è il dono del Vangelo e la testimonianza della carità. Siamo chiamati a generare nella fede i nostri fratelli attraverso itinerari di catechesi nei quali Cristo è il perno unico ed insostituibile della comunione. Il nostro frequentare la comunità parrocchiale, un gruppo ecclesiale, una comunità religiosa deve avere come scopo l’apprendere Cristo, amare Lui, crescere nell’essere radicati e fondati nella sua Parola, nell’amore all’Eucaristia, nel servizio di carità verso gli ultimi. Solo così, si può trasmettere Cristo nella vita dei fratelli. Tale dinamica di ricevere e dare non termina mai, perché nessuno può dire di essere arrivato nella relazione con Cristo, né di aver battuto tutte le strade nell’annuncio del Vangelo.

La trasmissione del Gesù della storia passa attraverso il racconto del Gesù della fede. I discepoli, infatti, raccontano la sequela del Signore e, al tempo stesso, trasmettono anche i fatti che riguardano la sua vita terrena. È così che nascono i Vangeli, dai racconti della comunità credente interessata a conservare viva la memoria dei detti e dei fatti del Maestro, insieme all’esperienza di coloro che, fin dal principio sono stati con Lui (cf. At 1,21). È importante sentirsi parte integrante di questa comunità narrante, proclamando le opere mirabili compiute da Dio per la nostra salvezza. Si racconta agli altri la propria vita, l’esperienza con Gesù, la sua parola incisiva, il suo messaggio che scuote ed incanta le folle. È quanto fa Paolo, racconta e non solo nel racconto trasmette una storia che riguarda il vissuto di fede delle comunità primitive, la vita liturgica ancorata a ciò che Cristo ha comandato durante la sua ultima cena, ma egli stesso si sente parte di ciò che narra, un anello della catena della trasmissione che è poi alla base dei Vangeli. Nel Nuovo Testamento abbiamo, infatti, una teologia narrativa, ovvero racconti su Gesù e di Gesù che, trasmessi, suscitano la fede, creano la Chiesa, nutrono il vissuto ecclesiale, ancorano la vita alla storia di Gesù di Nazaret che è il Figlio unigenito del Padre.

È necessario recuperare questa dinamica della vita di fede delle comunità primitive nelle nostre famiglie e comunità, ovvero il racconto di Gesù e su Gesù, come capacità di trasmettere una storia nella quale Dio ha mostrato la sua azione incisiva e definitiva. Spesso, invece, la fede non si racconta, i prodigi che Dio ha compiuto nella nostra storia non si prendono in considerazione, abbiamo la memoria corta e non riusciamo ad attingere da un passato letto con fede la linfa che vivifica il presente e spinge verso il futuro. Dobbiamo recuperare la bellezza del raccontarsi in famiglia, del narrare fatti passati che sono poi le radici di scelte significative. Dobbiamo ascoltare i nonni narrare le storie che li hanno visti protagonisti, con quella saggezza che, acquistata con gli anni. Il tessuto della vita familiare è fatto della condivisione attraverso il racconto della vita vissuta, di piccoli e grandi cose che sono i fili tenuti insieme dall’ordito delle nostre quotidiane scelte ed azioni. Anche con le parole riceviamo e doniamo, esperienze e insegnamenti, amore e condivisone. Una famiglia che non si racconta, una coppia che non trova il tempo per condividere, dei figli che non sono stimolati ad un quotidiano confronto di crescita sono come un albero senza fiori, non conoscerà la stagione dei frutti.

Il trasmettere un passato carico di significato è la ragione del narrare paolino. Non possiamo misconoscere pagine della nostra storia familiare, ma dobbiamo raccontarle con la consapevolezza di chi sa che il Signore guida ed opera nella nostra vita con la potenza del suo amore. Può raccontare, solo chi rilegge la vita con gli occhi nuovi della fede, chi riconosce nella semplicità di quanto è accaduto l’incedere di Dio che previene ed accompagna i suoi figli. Nel narrare c’è anche l’interpretazione dei fatti ed è lì che siamo chiamati a sapere leggere mai con le lenti del limite e del giudizio, le incapacità dell’altro, ma sempre condotti per mano dalla misericordia che il Signore sempre usa nei riguardi dell’uomo. Siamo figli di una storia bella da raccontare, dell’amore e dell’unione di coloro che ci hanno preceduto, nella vita e nella fede, e trasmesso quanto erano ed avevano. Anche noi siamo chiamati a fare lo stesso, in questa dinamica vitale che fa della parola la pietra di costruzione e mai di inciampo, perché la casa di Dio, fondata sulla roccia, sia il tempio della sua gloria, il luogo dove i figli si incontrano e si riconoscono fratelli.

L’Eucaristia, memoriale della Pasqua di Gesù

Ciò che Paolo trasmette non è solo è il ricordo vivo della comunità circa i gesti e le parole del Maestro, ma rappresenta il memoriale della Pasqua di Gesù, ovvero un racconto attualizzante che ha in sé la capacità di rendere partecipi dell’evento narrato. L’Apostolo descrive come le comunità primitive, andando al di là del semplice memoria-ricordo, vivono la cena del Signore come evento salvifico (cf. 1Cor 11,23-25) che ha in sé la capace di incidere nel tessuto vitale dei credenti (cf. 1Cor 11,26). L’esistenza di Gesù non è solo raccontata nella comunità-Chiesa, ma anche celebrata e, nella celebrazione, il racconto di ciò che il Maestro ha fatto, accompagnato dai gesti posti da Lui, rende viva la sua volontà amorosa di donare agli uomini la salvezza.

Nell’Eucaristia, Carne e Sangue di Gesù, attraverso i segni semplici del pane e del vino, il credente fa esperienza dell’amore di Dio e si nutre del suo amare senza limiti che raggiunge perfino coloro che lo tradiscono come Giuda e lo rinnegano come Pietro. Nell’Eucaristia c’è tutto Gesù, la potenza della sua vita, la grazia della sua misericordia, la tenerezza del suo amore, la gioia del suo perdono. Nell’Eucaristia c’è tutto Gesù per noi che, non potendolo vedere nella carne assunta nel grembo di Maria, come quanti lo hanno incontrato lungo le strade della Palestina, lo contemplano con gli occhi della fede, con i sensi spirituali nella sua Presenza risorta. In tal modo noi siamo ancor più graziati ed amati dal Padre perché nell’Eucaristia, nella semplicità del Pane del Vino, non solo vediamo il nostro Dio, ma ci nutriamo di Lui che ci permette di essere assimilati a Lui, per la potenza dell’amore che lo rende vivo sull’altare per noi. La Chiesa riceve e trasmette Gesù nell’Eucaristia, nella Carne e nel Sangue passati attraverso la croce e vivificati nella grazia della Resurrezione, dal momento che nel Santissimo Sacramento – così è definito il memoriale della Pasqua di Gesù, perché nell’Eucaristia è presente l’Autore della grazia e non solo, come negli altri sacramenti della Chiesa, si trasmette la grazia – Gesù, il mio amore crocifisso e risorto, è vivo e vero, vivifica quanti si nutrono di Lui, opera in coloro che lo accolgo, incendia di amore la vita e rafforza il desiderio di annunciare la sua morte finché Egli venga (1Cor 11,26), con una esistenza che della Pasqua di Gesù è un tersissimo specchio.

Per ogni famiglia l’Eucaristia è la scuola permanente del Vangelo. È dall’adorazione prolungata e silenziosa che si impara a stare nella vita dell’altro senza nulla pretendere, proprio come fa Gesù; dal nutrirsi di Lui, Pane che sfama, si apprende la forza per donare se stessi, anche quando l’altro è pronto a voltarti le spalle; dalla frequentazione continua del racconto di Gesù e su Gesù, troviamo il coraggio di lasciare che lo Spirito comunichi la sua potenza perché le parole dell’amore scambiate con tenerezza diventino carne per la vita dell’altro. Il tabernacolo è come il monte Sinai, lì brucia il rovento ardente dell’amore di Dio senza mai consumarsi; lì il Signore ci attira per accendere in noi, come in Mosè, il desiderio di condurre i fratelli nella terra della libertà, dove scorre il latte della gioia ed il miele della dolcezza di Dio.




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