XI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Gesù e la peccatrice: il linguaggio dell’amore

Gesù e la peccatrice

Opera derivata da Andrey Mironov (CC BY-SA 4.0)

di fra Vincenzo Ippolito

Come ha fatto quella donna peccatrice ad entrare, a vincere le tradizioni e i costumi della sua gente? Tutti la conoscevano bene, sapevano della sua vita dissoluta, ma questo non la intimorisce, né la porta ad abbandonare il suo desiderio. Il suo è il coraggio di ritornare al Signore con tutto il cuore, di sperimentare l’abbraccio della misericordia che solo il Cristo può donare.

Dal Vangelo secondo Luca (7,36-8,3)
In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo.
Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!».
Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene».
E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco».
Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».
In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.  

 

Anche questa domenica la Chiesa ci offre un brano tratto dal capitolo settimo del Vangelo secondo Luca, il cui centro è l’esperienza della misericordia. Dopo la vedova di Nain (Vangelo della scorsa domenica, cf. Lc 7,11-17), la peccatrice perdonata ci conduce a comprendere ancor meglio le viscere di misericordia del Figlio di Dio fatto uomo e a lasciare che lo sguardo di Gesù diventi criterio di discernimento nei nostri rapporti. Dal perdono accolto al perdono donato: è il cammino della gratuità dell’amore che ogni discepolo è chiamato a compiere, alla scuola del maestro Gesù.

Nella casa di Simone, a tavola con Gesù

Il quadro che l’Evangelista ci presenta è uno dei più significativi del ministero di Gesù in Galilea (cf. Lc 4,14– 9,50), perché focalizza l’attenzione del lettore su come, progressivamente nella vita pubblica, si stia realizzando l’anno di grazia, annunciato nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,14-21). La preoccupazione di san Luca è, infatti, chiarire che la misericordia ed il perdono è il cuore della buona novella da annunciare ai poveri (Lc 4,18) e che, mentre “i farisei e i dottori della legge […] hanno reso vano il disegno di Dio” (Lc 7,30), il discepolo di Gesù deve comprendere che il suo Maestro, pur se definito “amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc 7,34), realizza la missione ricevuta dal Padre, donando agli uomini la salvezza di Dio (cf. Lc 3,6).

La dinamica dell’intero capitolo settimo aiuta nella comprensione del nostro brano: dopo la guarigione del servo del centurione (cf. Lc 7,1-10) e la resurrezione del figlio della vedova (cf. Lc 7,11-17), Giovanni il Battista invia alcuni dei suoi discepoli a informarsi sulla messianicità di Gesù (cf. Lc 7,18-31), mentre il rifiuto da parte dei farisei e dei dottori dimostra la loro immaturità – sono paragonati a bambini capricciosi in Lc 7,31-32 – e la grettezza della chiusura della mente e del cuore (cf. Lc 7,31-35). Luca, con i segni messianici della guarigione e della resurrezione, dimostra che il Maestro di Nazaret è veramente il Cristo atteso, perché realizza le Scritture, mentre con il brano della peccatrice perdonata, rivela che sentirsi giusti e puntare il dito contro gli altri ci esclude dalla salvezza di Dio. Si comprende come i vari brani siano i diversi anelli di una medesima catena argomentativa e come il contesto aiuti nella comprensione del messaggio delle singole scene.

Diversamente dal centurione e dalla vedova, scene ambientate rispettivamente a Cafarnao la prima (cf. Lc 7,1) e sulla porta di Nain l’altra (cf. Lc 7,11), l’evangelista non localizza la città, ma preferisce indicare la casa di Simone il fariseo come il luogo della convivialità e del perdono. In realtà il contesto del capitolo – la disputa di Gesù con i farisei e i dottori della legge – ben motiva l’occasione del brano e mostra quanto Gesù non dimostri preconcetti nei riguardi di nessuno. Simone, infatti, invita Gesù a “mangiare con lui” (Lc 7,36) ed il Maestro, senza nessun problema, entra “nella casa del fariseo e si mise a tavola” (Lc 7,36). È questo il primo dato che emerge dal testo circa l’agire di Cristo: Egli vive le relazioni con gli altri senza pregiudizi, non si ferma all’apparenza, ma accetta ogni occasione perché, entrando nella casa dell’altro, pur se apostrofato come avversario e nemico, si crei un rapporto di amicizia cosicché la salvezza entri nella sua vita, oltre che nella sua casa (cf. Lc 19,9). In questo Gesù fa scacco alla nostra mentalità perché ciò che Egli critica, non è la persona, ma il suo agire, non colpisce duramente il reo, ma il suo peccato, perché il colpevole può redimersi e cambiare vita. In tal modo la casa di Simone è un terreno per Lui avverso ed impervio. Non ci sono però missioni impossibili per chi è condotto unicamente dalla misericordia di Dio! Gesù dimostra una stupefacente libertà nei riguardi non solo delle cose, ma anche delle persone. La povertà evangelica che Egli richiede ai suoi consiste nella totale assenza di ciò che potrebbe impedire la relazione con Dio e con il fratello. La povertà deve generare relazione perché la sua scelta determina il bisogno dell’altro, ad ogni costo. Tal povertà è propria di ogni stato di vita perché è accoglienza della propria creaturale necessità di vivere con l’altro. In Gesù scegliere la povertà come possibilità di relazionalità lo porta a non chiudersi a nessuno e a non far vincere in Lui i pensieri contrari alla relazione con l’altro che sono poi dei veri e propri pregiudizi che inficiano i rapporti. Quanti pregiudizi impediscono il sorgere di amicizie sincere tra noi, di scambi familiari, di rapporti che ci conducono a maturare e a crescere? Quante volte la mente elabora pensieri peregrini che impediscono al cuore di librare libero e di accogliere l’altro facendogli spazio?

Il Maestro, diversamente da noi, dimentica il maltorto subito, le parole mordaci, i tranelli tesi per trarlo nell’errore e quando una persona lo invita non rifiuta la proposta, non inventa una scusa, non rimanda a un altro giorno, ma vive, come per Zaccheo, l’oggi della salvezza e della gioia. Dio non rifiuta il nostro invito, non si infastidisce della nostra preghiera, ma entra e si siete a tavola con noi, ci considera amici, familiari suoi, desidera intrattenersi con noi, lascia le folle per stare in nostra compagnia, dinanzi a qualcuno che gli apre la casa spalanca il cuore suo e offre di entrare nella camera segreta dove il Padre rivela il suo volto di luce e dona la pace. Mettersi a tavola è un gesto quotidiano per noi, è il segno della familiarità, del desiderio di condivisione. Non si invita un nemico – volesse il cielo! – ma una persona che si stima e con la quale si condividono scelte importanti. Gesù ci insegna a recuperare la dimensione familiare, sociale e di fede propria della convivialità – quanti insegnamenti nei Vangeli si originano proprio da un invito a mensa! – ripensando il nostro stare a tavola come un momento importante di relazione e di scambio che accresce la nostra amicizia e rigenera i nostri rapporti.

Gesù si mette a tavola con noi, quando ci sediamo intorno alla mensa, preghiamo e ringraziamo Dio Padre per il dono del suo amore e condividiamo il cibo. Questo è il tempo sacro per ogni famiglia. Nella nostra società i pasti sono vissuti nella fretta, accompagnati dalle voci della tv o dal trillo delle chat che ci impediscono talvolta persino di scambiare una parola. A mensa c’è Gesù con la famiglia che condivide il pane. Ecco perché la preghiera, prima di iniziare il pranzo o la cena, serve a dare il giusto tono al nostro stare insieme, ricordando la presenza di Gesù in mezzo a noi, è Lui che apre la mano e sazia la fame di ogni vivente, è sempre il Maestro che ci invita a far parte i poveri di ciò che è dono di Dio e del nostro lavoro. Lo stare insieme è preghiera sempre, per questo l’Apostolo esorta “sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1Cor 10, 31).

La dignità della donna, prima del suo essere peccatrice

A parte il primo versetto (cf. Lc 7,36), tutta l’attenzione dell’Evangelista non è tanto sul fariseo e neppure sulla sua casa o sull’invito a mensa, ma su un ospite inaspettato, un’amica inopportuna ed importuna – così potremmo definire la donna peccatrice – che si fa strada tra i commensali per incontrare Gesù. Luca dipinge la scena, come è solito fare, con poche parole – “Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città” (Lc 7,37) – piccole pennellate di colore che mostrano bene la drammaticità dell’incontro. L’ordine delle parole non è un caso, è ben studiato dall’autore che non appunta “Ed ecco una peccatrice, una donna di quella citta”, ma “Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città”. In algebra, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia, non così in grammatica. La persona che si presenta davanti al Maestro è una donna, perché il peccato, ogni tipo di peccato non cancella la dignità della persona, il suo essere immagine e somiglianza di Dio. Come donna si presenta al Signore nella situazione concreta della vita che, per alterne vicende e scelte fatte o subite, l’ha resa peccatrice. Si nasce deboli e fragili, ma non colpevoli, il peccato è una scelta determinata e ben ponderata contro il vero bene e contro Dio. Il peccato determina la mia identità, talvolta può cambiare il mio carattere e i miei atteggiamenti, radicandosi nella mente e nel cuore e sfigurando, nascondendo ed adombrando la primigenia bellezza ricevuta da Dio. Ma il peccato, in quanto tale, non fa parte della natura umana, dell’originale disegno di Dio sul creato e sull’uomo. Il peccato non è contemplato nel paradiso dell’Eden, dove Adamo ed Eva avevano la libertà di vivere nella relazione amorosa con Dio creatore e con l’intero creato. La colpa è venuto per istigazione del demonio che ha portato e porta l’uomo a credere che possa esistere un bene più grande fuori dalla volontà di Dio, una gioia più profonda lontano dal Signore, una vita piena assecondando il proprio egoismo. Peccare significa ricevere da se stessi una propria identità, alternativa rispetto a quella ricevuta da Dio, è come non riconoscere la propria origine creaturale, la mano del Signore che ci ha plasmati, è come se un vaso dicesse al vasaio che lo ha modellato “Perché mi hai fatto così?” e decidesse da sé la forma da avere.

La donna ha peccato e di questo ne è profondamente cosciente. Va da Gesù, cerca il suo sguardo, brama la sua parola di perdono, perché sente il bisogno di recuperare la sua identità profonda deturpata dal peccato ed essere ai suoi occhi semplicemente donna. È il cammino che l’Evangelista fa compiere al lettore, donna è e sarà sempre, incappata nelle maglie del male, è divenuta donna peccatrice ed ora, per la potenza del perdono di Cristo, rinasce donna, ritrova la sua identità profonda, riacquista ciò che il peccato ha nascosto, la somiglianza con Dio che la colpa aveva deformato. Indirettamente, attraverso la figura del fariseo Simone, Luca vuole che ciascuno si riconosca bisognoso di perdono e si lasci ricreare dalla potenza dell’amore che il Signore gratuitamente effonde. L’Evangelista, nella sua delicatezza, non dà spazio a soddisfare curiosità inutili, dice semplicemente che è “una peccatrice di quella città” e non aggiunge altro, perché, per chi si pente, non serve ricordare quelle colpe che Dio ha già gettato in fondo al mare. È la delicatezza di chi dice e non dice, di chi copre, con un velo di compassione, l’errore dell’altro. Non farà forse così anche il Manzoni, ricordando la storia di Geltrude, la famosa monaca di Monza? La sua frase lapidaria e scultorea “La sventurata rispose” lascia intuire tutto, ma senza aggiungere nulla.

Abbiamo bisogno di questa delicatezza nei nostri rapporti, della capacità di stendere un velo sul peccato dell’altro, senza che questo diventi omertà e crei strutture ingiuste dove l’errore è falsamente e bonariamente giustificato. L’Evangelista non rinfaccia nulla alla donna, mette in luce il suo desiderio di essere rivestita di luce e di venire ricreata da Gesù. Non contano le colpe, ma il desiderio di cambiare vita, non ha senso rinvangare il maltorto, ma superarlo sapendo che il nostro egoismo ci porta sempre a ravvisare lucciole per lanterne.

Leggendo quanto Luca scrive viene da chiedersi: come ha fatto questa donna ad entrare, a vincere le tradizioni e i costumi della sua gente? Tutti la conoscevano bene, sapevano della sua vita dissoluta, ma questo non la intimorisce, né la porta ad abbandonare il suo desiderio. Il suo è il coraggio di ritornare al Signore con tutto il cuore, di sperimentare l’abbraccio della misericordia che solo il Cristo può donare perché Egli della divina misericordia è il volto umano. La narrazione lucana è il canto della determinazione dell’amore, del desiderio del perdono, della sete di salvezza.

La donna porta con sé del profumo, nient’altro, il segno semplice della bellezza che si effonde, della dolcezza che rallegra, del superfluo che riempie il cuore a somiglianza dell’aria in cui si espande la dolce fragranza dell’olio. La donna, contrariamente alle vergini stolte, da vera saggia, porta con sé dell’olio, la lampada della sua vita è spenta, ma solo il Signore può riaccendere ogni speranza. Egli, infatti, è luce alla nostra lampada e con Lui le tenebre sono come luce. Una vita spenta, una donna senza dignità, un’esistenza scandita dal dolore e dall’angoscia di appartenere a tutti, ma a nessuno veramente con il cuore, la spinge a rischiare. Non ha parole, ma gesti, non dice nulla, ma compie tutto. La scena è cadenzata, descritta con una curata tecnica narrativa, quasi a rendere in immagini quanto si descrive. È come se esistessero solo Gesù e la donna, la capacità, da parte del Signore, di non scandalizzarsi di questi gesti e dell’inusuale linguaggio dell’amore che richiama l’intimità degli sposi e la forza del vincere ogni forma di preconcetto da parte della donna per ottenere ciò che il suo cuore desidera.

La scena è di una delicatezza tutta femminile, di un amore totalmente oblativo della sposa per il proprio sposo. Non avanza con superbia, ma si ferma “stando dietro, presso i piedi di lui”, senza la sfrontatezza di chi guarda in faccia l’altro per sfida, ma con l’umiltà di chi sa che non può osare se non è l’altro a permetterlo. La donna piange. È lecito immaginare che la ragione delle sue lacrime sia il peccato o il desiderio di perdono, ma il testo non lo dice. Ancora una volta, Luca lascia che sia il lettore ad entrare nel senso delle parole, identificandosi con i personaggi e completando con la propria personale esperienza le scarne notizie che fornisce. Gesti cadenzati sono quelli della donna che parla con il suo corpo, gesti eloquenti i suoi che esprimono il suo cuore, il suo pentimento, più di mille parole. Bagna di lacrime i piedi del Maestro, li asciuga con i suoi capelli, li bacia, li cosparge di olio profumato. Gesù accoglie la donna, ne ammira il linguaggio, in silenzio segue la dedizione e la delicatezza, comprende la ragione del suo fare ed il desiderio di perdono e salvezza. Il cuore di Cristo entra in empatia con quello donna e, andando oltre la scorza del suo peccato, la corteccia delle sue cadute, comprende le sue intenzioni e l’amore che interiormente la muove. Anche con la donna, oltre che con Simone il fariseo, Gesù non ha preconcetti. Entrambi sono sullo stesso livello davanti a Lui perché anche il sentirsi irreprensibili e giusti, come il fariseo, è una colpa più grave, soprattutto quando poi si presumere di essere degni di puntare il dito e giudicare gli altri, in nome di quella rettitudine che, alla fine, ci accusa ugualmente dinanzi a Dio come trasgressori della legge.

È il linguaggio dell’amore che la donna utilizza, comprensibile solo a chi ama. Nel Vangelo secondo Giovanni, in una scena analoga, Giuda interverrà dinanzi allo spreco del nardo, unguento assai prezioso, che Maria sparge sui piedi del Signore e che riempie di profumo tutta la casa di Betania (cf. Gv 12,1-8). Solo chi ama comprende la profondità dei gesti dell’amore dell’altro. È l’amore la chiave per capire comportamenti che per chi non ama risultano immotivati e spropositati. Senza amore – è il caso di Giuda a Betania e di Simone nella sua casa – si resta fuori e non si fa altro che giudicare quell’eccesso che è il linguaggio dell’amore. Sì, l’eccesso, lo spreco è la logica che scandisce la vita di chi ama perché l’effusione dell’amore, la traduzione dell’amore nella tenerezza dei gesti non è contenibile, né misurabile. L’amore vero è eccesso del dono di sé, della propria anima e del cuore, del corpo e dei sentimenti. Amare è donarsi in totalità ed è questo il linguaggio che gli sposi sono chiamati a vivere e testimoniare, non tanto nell’impeto del sentimento e della passione giovanile, quando la fiamma dell’innamoramento infuria e sembra non possa contenersi, quanto, invece, negli anni della sponsalità, quando si è chiamati a rinnovare la tenerezza e la dolcezza in gesti che devono non solo conservare la bellezza del primo giorno, ma aumentarla. Con gli anni, capita tra gli sposi di non avere momenti di intimità bella, tempi per stare insieme, come quelli cercati e rubati durante il fidanzamento. In nome di tante buone ragioni, si chiede un amore maturo, adulto, soprattutto quando i figli, crescendo, ricercano attenzione ed accompagnamento. È importante che, pur con il passare degli anni e il crescere degli impegni familiari e delle responsabilità, la relazione di coppia si nutra continuamente di attenzione e di delicatezza, di gesti di affetto che non solo rasserenano il cuore e fanno sentire amati, ma rendono il clima della famiglia più profondo, i rapporti più distesi, il sapore delle relazioni più affettuoso. 

Entrare nello sguardo di Gesù, dell’amore sovrabbondante che diviene perdono

Simone non riesce a comprendere il motivo per cui Gesù lascia che quella donna si comporti in quel modo. Per lui si tratta di moine di una peccatrice pubblica, da rimandare via, magari in malo modo, rinfacciando le sue colpe. L’occhio del fariseo è malato di miopia, non riesce a vedere, con lucidità, secondo Dio le varie situazioni che gli si presentano. Vede e si sente in diritto di giudicare perché in ciò che pensa non c’è il cuore, non ci sono quelle viscere di misericordia che divengono per Cristo il catalizzatore del suo sentire ed agire. Per Simone vedere e pensare sono direttamente collegati. Ciò che l’occhio scorge, la mente rielabora, ma senza che il tutto passi attraverso il cuore dove ciascuno è messo davanti al suo peccato e alla necessità di non presumere di togliere la pagliuzza nell’occhio dell’altro, prima di aver levato la trave dal proprio. Se le cose che guardo non le faccio passare nel cuore, non riuscirò a leggere nella giusta luce ciò che accade nella mia vita e nella vita delle persone che mi sono accanto, sarò sempre portato a giudizi affrettati che, pur se restano non espressi, consumano egualmente i rapporti e divengono preconcetti insuperabili, pietre di inciampo che prima o poi si traducono le parole mordaci, che feriscono e non costruiscono nulla.

Non possiamo, come Simone, prescindere dalla nostra situazione quando guardiamo gli altri, non è bello covare pensieri di dubbio e di risentimento e nascondere tutto, dietro la faccia lavata di un formalismo che nasconde la morte. Questo ci fa comprendere che non solo la donna peccatrice ha bisogno di essere guarita, ma anche il fariseo, pur credendosi giusto, ha necessità di affidarsi al perdono di Dio e di essere rinnovato dalla potenza della misericordia che Cristo dona gratuitamente. Sono peccati e situazioni di colpa diversa, la donna nel corpo, Simone nel cuore, ma la radice del peccato, come desiderio di sostituirsi a Dio, divenendo il centro del mondo, è uguale. Tutti abbiamo bisogno di essere guariti. Gesù stesso, in una pagina analoga del Vangelo secondo Giovanni dirà: “Chi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (8,7). Chi può presumere di essere giusto e retto dinanzi a Dio? Ecco perché, se Gesù, nel caso della donna, non ha detto nulla, accettando i gesti eloquenti del suo pentimento, con Simone deve, invece, far nascere la consapevolezza del suo peccato e il desiderio di essere guarito e riconciliato. Gesù non vuole che nessuno si perda, né la donna né il fariseo, ma per fare questo deve utilizzare strade diverse, percorsi differenti perché entrambi trovino in Lui la vita e la gioia. Ecco allora il suo parlare all’uno (cf. Lc 7,40-48) ed il perdonare l’altra (cf. Lc 7,48.50). La reazione dei commensali – “Chi è costui che perdona anche i peccati?” Lc 7,49 – è il segno che non è semplice lasciare alla misericordia di Gesù la possibilità di vincere le false sicurezze del cuore. È più facile perdonare i peccati di chi ha molto amato che convincere i benpensanti che la strada che si sta percorrendo li avvicina a se stesso, ma non a Dio, nutre l’amor proprio, non il desiderio di conoscere e contemplare il vero volto del Signore che è amore misericordioso e fedele sempre. Anche qui, si tratta di cammini differenti: la donna è giunta alla meta, è salva per fede, pacificata per il dono di grazia di Cristo Salvatore, ma per i farisei c’è ancora una lunga strada da percorrere, se essi veramente lo vogliono.

La narrazione – così capiterà anche con la pagina del padre misericordioso (Lc 15,11-32) – rimane aperta soprattutto per il lettore che deve compiere un cammino analogo a quello presentato nel brano dall’Evangelista. A noi e alle nostre famiglie e comunità riscrivere questa pagine per essere ricreati da Cristo nelle viscere della sua misericordia, rigenerati dal suo Spirito d’amore, pronti a vivere e testimoniare tra gli uomini l’abbraccio gioioso del Padre.




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