Giornata per la Vita

“Potevo mai rispedire al mittente quella vita tornando a guardare la mia perfetta silhouette allo specchio senza inorridire di me stessa?”

di Ida Giangrande

La storia di Annalisa, la sua sete di successo e di carriera…ma poi un incontro che la fa uscire dalle sue convinzioni. Quel bambino dentro di lei non era solo un attentato alla linea ma un amore molto più grande.

Sono sempre stata una donna ambiziosa. Fin da piccola facevo progetti, sognavo di diventare un’importante imprenditrice, mi piaceva il mondo degli affari, l’atmosfera frizzante delle borse valori dove sembra tante volte si giochi il destino economico dell’umanità. Ero sempre stata affascinata dall’alta finanza e per questo mi ero iscritta ad Economia conseguendo una laurea con il massimo dei voti. La mia vita privata era sempre stata in fondo il riflesso di quella professionale.

Io e il mio fidanzato ci amavamo molto, ma eravamo senza dubbio uniti anche e soprattutto dalla stessa passione e ambizione per il successo. Il futuro era una proiezione delle nostre attese professionali, il matrimonio capitò nella nostra storia quasi senza che ce ne accorgessimo. Di ritorno da un viaggio in Grecia scoprii di essere rimasta incinta. Non fu esattamente una bella notizia per noi, ma l’accolsi con tenerezza. Non ci vidi nulla di male nel mettere al mondo un figlio e dopo una breve esitazione ci sposammo prima che la pancia si notasse troppo.

Iniziammo così una nuova avventura, dove i ritmi di lavoro erano incessanti e il mio primo figlio fu allevato più da mia madre che da me. Ero troppo impegnata con la mia carriera, i viaggi d’affari, le cene di lavoro. Per arrivare in alto è necessario sacrificare qualcosa ed io stavo sacrificando mio figlio, ma non me ne rendevo conto. Fu la volta della seconda gravidanza, dopo appena tre anni. Anche questa, una notizia inaspettata ma accettata con entusiasmo, dopotutto due figli non erano la fine del mondo, ma decisi che da quel momento avrei cominciato a prendere la pillola.

Volevo stare tranquilla, vivermi la relazione con mio marito senza troppi problemi, inoltre le cose andavano benissimo e la nostra vita spaziava tra abbondanza di mezzi e opportunità per impiegarli. Non me ne ero accorta, non lo avevo fatto di proposito, ma avevo anestetizzato la mia coscienza, trasformato la mia esistenza in un oggetto di cui rivendicavo la proprietà con la complicità di mio marito. Prendevo quello che volevo, godendomi i frutti del mio lavoro. Ripeto, non era una cosa di cui eravamo consapevoli, il lavoro e il piacere del successo, della vita comoda, agiata sono meccanismi perversi: ti persuadono languidamente come i cavallucci di porcellana sotto le giostrine con i tetti a pagoda, ci vai incontro attirata dalle luci, i suoni, i colori e poi la giostra parte e si fa sempre più veloce, quando ti rendi conto di non essere più tu a controllare le regole del gioco, è troppo tardi, ci sei già dentro fino al collo e uscirne vorrebbe dire fermare tutto, rinunciare a troppe cose. Questa  in sintesi la mia storia quando ho scoperto di aspettare il terzo figlio.

Un attimo di disattenzione, un giorno saltato sul calendario di quelle compressine e il dado è tratto. Dopo la seconda gravidanza ero rientrata perfettamente nel mio peso forma, ed ora mi sentivo una donna diversa, rifiorita, avevo ritrovato l’equilibrio che sentivo di aver perso con la nascita dei miei due figli e improvvisamente quando meno me lo aspettavo, la mestruazione cominciò a tardare e ogni secondo che passava mi sembrava di sprofondare in un abisso di paure e incertezze. Le analisi del sangue confermarono: ero incinta di nuovo. Sulle prime mi parve di aver appena appreso di essere affetta da una grave malattia, tutti quelli che incontravo, compresi genitori e amici, schiarivano la classica espressione di un’amara sorpresa come a voler dire: “Questa proprio non ci voleva!”.  Mio marito scrollava la testa di continuo e qualche volta si passava la mano tra i capelli. Era stanco. Anch’io lo ero, avevamo un ritmo di lavoro convulso, i nostri figli trascorrevano quasi tutta la giornata in un asilo nido, avevamo una bella casa grande, che non avevo il tempo di godermi perché ero fuori quasi tutto il giorno. Non c’era proprio spazio per un altro figlio.

Andammo in un consultorio, nonché fossimo insicuri sia chiaro, volevamo interrompere quella gravidanza, ma mi impressionò il modo in cui gli impiegati si limitarono a darci indicazioni sulla modalità dell’intervento e sulla modulistica da sbrigare, nessuno e ripeto nessuno in quel luogo, ci ha mai chiesto se eravamo davvero sicuri. Se ci avevamo pensato bene. L’aborto era una routine per loro. È stato il colloquio con due volontarie a farmi vedere il rovescio della medaglia, la questione vista con gli occhi di quel bambino che mi portavo dentro. Non lo accettavo, non mi sentivo pronta, ma lui c’era, era una realtà e l’avevamo concepita io e il mio amato marito, per cui la domanda era: potevo mai rispedire al mittente quella vita tornando a guardare la mia perfetta silhouette allo specchio senza inorridire di me stessa? Sarei mai tornata alla mia vita come se nulla fosse stato se lo avessi fatto?

Il primo incontro con le due volontarie fu una bolla di sapone che scoppia nell’aria senza lasciare traccia, almeno questo era quello che credevo. La loro improvvisa apparizione nella mia casa, mi apparve un’invasione in piena regola, le trattai malissimo, chiesi loro con freddezza di andare via, non fui maleducata, mi limitai a dire che non volevo quel figlio, non lo volevo e basta. Ero talmente piena di me stessa che non mi ero mai fermata ad interpellare mio marito; per la prima volta da quando ci eravamo sposati il suo parere non contava per me. Ero io ad essere incinta. Non noi. Non lui. Non so che cosa sia successo, in quella notte, una sola notte di smaniosa e convulsa agitazione in cui qualcosa cambiò. Il sorgere del sole riportò la pace nel mio cuore e nella nostra vita.

Si dice che la donna in gravidanza sia soggetta a sbalzi improvvisi d’umore, ma io sapevo che non era così. Ero io ad essere incinta e per questo ero anche l’unica a poter sentire la presenza di quel bambino, nessuno lo vedeva a parte me. Io lo portavo nel grembo come un giorno lo avrei portato in braccio. Solo io potevo salvarlo, negargli l’opportunità di vedere la luce, oppure rinascere insieme con lui. Convincere mio marito non fu difficile, ma nemmeno facile. L’amore di una madre è contagioso, bastarono pochi giorni perché si lasciasse coinvolgere dal mio entusiasmo. Chiamai una delle volontarie e la informai della decisione che avevamo preso: avremmo tenuto quel bambino e forse lo avremmo amato di più proprio perché avevamo pensato di abortirlo. Decidemmo di organizzare una gita per dire ai nostri figli che c’era qualcosa da festeggiare, una grazia da attendere e un nome da scegliere.

La mia vita subì un’improvvisa battuta d’arresto quando fui costretta a restare a letto in seguito ad un lieve scollamento della placenta. Ebbi il tempo per pensare a tante cose in quei giorni, alle vittorie che avevo segnato e alle sconfitte che invece mi ero rifiutata di incassare; notai ad esempio che pur essendo arredata con mobili e suppellettili d’élite, nella mia casa non c’era una foto. Un ambiente elegante ma spersonalizzato. Raffinato ma senz’anima. Dopo la nascita di questo figlio tutto è cambiato. Sono cambiata io. Ho riscoperto il mio essere madre e sposa, dedicando maggiore attenzione ai figli, al marito e alla casa. Ho dovuto fare delle rinunce, perché non si può avere tutto dalla vita, ma sono state gratificanti e sono rinata ancora una volta.

Quello che prima mi appariva una faticosa conquista ora è semplice, un sistema regolare e regolato da ritmi incessanti, fatti di corse per andare a prendere l’uno a scuola e accompagnare l’altro a nuoto, ma a sera quando, la tranquillità notturna spegne ogni frenesia, notiamo che quel bambino, un maschio, il terzo maschio, ha riportato nella nostra casa il senso della famiglia che avevamo smarrito per correre dietro alle ambizioni. Eravamo entrambi desiderosi di riappropriarci della nostra autonomia rispetto ai bambini, egoisticamente chiusi nei nostri limiti, smaniosamente concentrati a soddisfare quei capricci che d’un tratto erano diventati l’essenziale. Avevamo condotto un’esistenza piena di cose che fanno rumore, quel figlio mi aveva messo all’ombra di me stessa per farmi riscoprire il piacere del silenzio. Mettere al mondo un figlio, vuol dire donarsi, essere per, pensare a lui prima di te e tante volte un figlio in più, può essere una rinascita inaspettata e straordinaria.     

Questa storia è tratta dal libro di Ida Giangrande, Ti ho visto nel buio, Editrice Punto Famiglia, 2013. Maggiori info qui.




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