VI Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 12 febbraio 2017

Non sono le norme a salvarci, ma la comunione della nostra famiglia con Lui!

mani con croce

(Foto: Rinelle - Shutterstock.com)

di fra Vincenzo Ippolito

Siamo figli della nostra storia e le esperienze fatte ci hanno determinato, nel bene e nel male, mostrandoci che come Dio ci ha accompagnato, così anche ci aprirà la strada nei deserti che affronteremo con la sua forza. Non bisogna misconoscere il proprio passato, ma scorgere la progressione del cammino, anche se spesso esso è in salita.

Dal Vangelo di Matteo (5,17-37)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla legge neppure un iota o un segno, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli.
Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. 
Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non uccidere”; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna. Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono. 
Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo! 
Avete inteso che fu detto: “Non commettere adulterio”; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.
Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, càvalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tàgliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna. 
Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio”; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti; ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno».

 

Oggi la liturgia ci chiede un ascolto attento e prolungato perché di ben ventuno versetti è il brano evangelico che ci viene proposto. Esso, sempre tratto dal discorso della montagna (cf. Mt 5-7) che ci sta accompagnando in queste ultime domeniche, raccoglie le indicazioni del Maestro su situazioni concrete della vita del credente. Gesù, infatti, svela la dinamica della nuova legge codificata nelle beatitudini, mostrando come le prescrizioni trasmesse da Dio a Mosè raggiungano in Lui e nel suo insegnamento il loro compimento.

Se la pienezza della legge è l’amore (cf. Rm 8,10), solo Gesù, che è la misericordia di Dio fatta carne, può insegnarci ad andare al cuore di ogni norma per trovare la vita. È questa la via della gioia per le nostre famiglie. Lasciamoci guidare da Gesù per trovare nell’amore del Padre il motore di ogni nostro gesto e pensiero.

Un camminare verso il compimento

Con il brano evangelico odierno, Matteo – e prima di lui Paolo di Tarso, lo apprendiamo dalle sue Lettere – risponde alle preoccupazioni delle prime comunità cristiane, dove molti provenivano dal Giudaismo: se Gesù è il vero Mosè e ci dona nelle beatitudini la vera Legge, come bisogna intendere quella del Sinai? Se la nuova ed eterna Alleanza stipulata da Cristo è superiore all’antica, bisogna ancora osservare le prescrizioni di Mosè? Tra il Decalogo e le beatitudini c’è rottura o continuità?

La comunità a cui Matteo indirizza il suo Vangelo è formata in maggioranza di giudeo-cristiani e questo spiega perché lui, più degli altri Evangelisti, chiarisca tale problematica, fornendone la risoluzione. L’Evangelista, infatti, non solo ha una buona conoscenza dell’Antico Testamento, come dimostra nella stesura della sua opera, ma sembra trasferire nel Vangelo la sua esperienza di fede, il suo vissuto alla scuola del Nazareno. L’autore, infatti, dona quanto ha compreso nel suo cammino e la risposta che offre alla sua comunità è il frutto maturo del suo ripensare la fede giudaica alla luce del mistero pasquale di Cristo. Proprio perché Gesù è il Messia atteso, l’Emmanuele promesso (cf. Mt 1,22-23), il Signore che visita il suo popolo e rimane con i suoi fino alla fine del mondo (cf. Mt 28,20), Matteo sa che la fede in Lui rappresenta lo sbocco naturale del credo di Israele. Il Signore che parlò sul Sinai e donò la legge a Mosè è lo stesso che nel Figlio di Maria cammina lungo le strade della Palestina, sanando i malati, perdonando i peccatori, spargendo a piene mani la parola di salvezza. Il primo Vangelo è ricco di citazioni dell’antico Testamento proprio perché il suo autore vuole dimostrare che Gesù il perfezionatore della Thorà, la pienezza delle norme che ispiravano la vita del popolo d’Israele.

Esiste quindi una continuità di fondo tra il Dio che si rivelò a Mosè e il Maestro di Nazaret, non sono in opposizione, anzi si richiamano a vicenda. Per Matteo si tratta di tappe diverse di uno stesso cammino che raggiungono la meta ed il compimento in Gesù e nella logica del Regno che egli annuncia. Quella dell’Evangelista non è la dinamica dell’aut aut (o l’uno o l’altro) – o Gesù o la legge di Mosè – e neppure egli sposa la strada mediana dell’equilibrismo, armonizzando la novità del Cristo e la Legge dell’antico Israele. Si tratta, invece, di un cammino progressivo nel quale si procede verso la pienezza della rivelazione che non sta al principio, nel Decalogo e nelle prescrizioni che ne derivano, ma alla fine, con Gesù Cristo. Come la storia è un progressivo cammino in avanti, così anche la fedeltà a Dio non sta nel vivere orientati ad un passato che non ritornerà più, ma nell’affrontare le sfide del presente, tenendo fissi gli occhi sull’inizio che determina il cammino e lo motiva, spingendolo però sempre in avanti. L’albero trae linfa e stabilità dalle radici, ma i rami che si sviluppano oltre il tronco sono segno della vitalità che la pianta riceve proprio dalle radici. È questa la logica proposta da Matteo. Gesù è lo sbocco naturale del cammino che Dio ha inteso fare con il suo popolo e solo in Lui la legge di Mosè trova ragione ed è ridimensionata non perché non sia più valida, ma perché c’è un di più, un plus che Gesù rivela con la sua Incarnazione e dona in pienezza con la sua Pasqua. Alla legge di Mosè non mancava l’autorità del legislatore divino, ma la definitività, la completezza che solo Gesù può donare. È Lui il mediatore e la pienezza della Rivelazione perché chi vede Lui vede il Padre. Nell’incontro personale con Cristo, nell’amore che ci dona in abbondanza, nel dialogo amicale ed amoroso che intesse con ciascuno, facciamo concreta esperienza di Dio che ci parla lungo il cammino.

Dobbiamo imparare da Matteo a tradurre l’esperienza della nostra fede in proposta concreta e significativa per i fratelli. È questa la sfida educativa, donare con umiltà agli altri la nostra esperienza, senza mai imporla. Non possiamo far finta che il tempo non passi e neppure vivere nella ricerca spasmodica di fermare la storia o peggio di ritornare indietro. I nostri figli vivono in tempi diversi dai nostri ed hanno differenti sensibilità. La vita, infatti, è un cammino progressivo di crescita. Solo se assumiamo questa verità, interiorizzandola come possibilità bella, diverremo collaboratori del progetto di Dio. Cambiano i tempi, ma i Valori del Vangelo sono perenni. Possono cambiare le modalità nel vivere la fede, non il radicamento in Cristo.

Camminare verso il compimento nella vita di coppia e di famiglia significa far memoria dell’esperienza passata, gioire del bene sperimentato, senza voler fermare il tempo come Pietro che sul Tabor è pronto a costruire delle tende per bloccare il mistero di Dio e non scendere nella quotidianità che, pur divorando il cuore e consumando l’anima, rappresenta l’avventura da vivere con Lui. Non possiamo fare dei tagli netti tra i vari periodi della nostra storia. Come non si può staccare Gesù dalla Legge antica che rappresenta l’humus della sua predicazione e, prima ancora, della sua personale esperienza di Dio, nella tradizione viva della fede del popolo d’Israele, così anche nella nostra vita personale, di coppia e di famiglia esiste una progressione nel comprendere e comprendersi, nell’accogliere ed accogliersi, nel vivere protesi verso un ideale grande. Siamo figli della nostra storia e le esperienze fatte ci hanno determinato, nel bene e nel male, mostrandoci che come Dio ci ha accompagnato, così anche ci aprirà la strada nei deserti che affronteremo con la sua forza. Non bisogna misconoscere il proprio passato, ma scorgere la progressione del cammino, anche se spesso esso in è salita.

Perché è così difficile capire che fedeltà è camminare in avanti, accogliendo le sfide della propria quotidianità? Procedere verso il compimento significa collaborare fattivamente alla trasformazione della nostra storia con la forza che viene da Dio: non è forse questa la maturità che Cristo ci chiede? Esistono due estremi nella vita vivere rivolti al passato, dimenticando il presente oppure essere ben piantati nel presente, credendo che ricorrere al passato sia una pura illusione. Il discepolo di Gesù vive il presente come itinerario progressivo di crescita, iniziato nel passato e proteso al futuro. È così impossibile vivere nella speranza e nella fedeltà, nel rendimento di grazia per il bene ricevuto e nella disponibilità totale a quanto il Signore vorrà donarci?

Il chiodo che regge le scelte nel Regno di Cristo

Se leggiamo il brano odierno con superficialità oltre che nella forma breve – la liturgia offre la possibilità di operare dei tagli nella lettura evangelica domenicale, ma il criterio che porta a tale scelta non deve essere la fretta e la stanchezza, perché bisogna gioire se la mensa della Parola di Dio una domenica è più abbondante! – se non entriamo nelle parole di Cristo, percependole solo come fredde norme, non riusciremo a scorgere la novità ed il compimento che l’Evangelista vuole, invece, mostrare.

Gesù non dona una legge che sostituisce l’antica, lo dice Egli stesso – “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti” (Mt 5,17) – quanto, invece, “a dare pieno compimento”. Se stacchiamo il nostro brano dal contesto vitale che è la comunione di Gesù con i suoi sul monte delle beatitudini e ancor prima la predicazione del Regno con l’annuncio della conversione (cf. Mt 4,12-17) e la chiamata dei primi discepoli (Mt 4,18-22), non riusciremo a comprendere tutta la portata innovativa del nostro brano. Il primum, il momento fontale che determina l’ingresso nel Regno è l’incontro con Cristo, è l’amicizia con Lui che cambia la vita e dona una prospettiva diversa alla propria esistenza. Non è accaduto così a Paolo sulla via di Damasco e a Francesco nell’abbraccio con il lebbroso? La vita dei santi è ricca di esempi dei più vari dell’incontro con Gesù che ha rivoluzionato il corso della vita. Il cristianesimo non è una morale, pur se ha una morale, neppure è una filosofia, anche se determina una chiara impostazione di pensiero. Il cristianesimo è la Persona di Gesù ed io posso dire di essere cristiano se ho incontrato Lui, Dio e uomo insieme, Salvatore e Redentore della mia vita. Solo nell’orizzonte di un rapporto vivo con Gesù che ho incontrato, nella capacità di vivere e di voler vivere con tutte le mie forze alla sua presenza, di rispondere al suo amore con tutte le energie del mio cuore, di ricambiare la predilezione che Egli ha iniziato ad usarmi con la chiamata, comprenderò la sua parola ed entrerò nella logica della Legge che è Lui, della misura del pensare e dell’agire che è la sua vita che arde d’amore sino alla croce.

Come il decalogo si reggeva sulla nota dominante che, pur senza rientrare nel computo delle dieci parole, ne rappresentava il fondamento – “Io sono il Signore Dio tuo, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” (Es 20,2) – così la pietra angolare su cui le parole di Gesù si poggiano e ricevono forza e stabilità è l’incontro con Lui. La fedeltà alla legge nasce dalla bellezza di un incontro fondante, la gioia di un rapporto costante, la grazia di una scelta fatta con il cuore. Gesù chiede la fedeltà alla sua amicizia attraverso le indicazioni che dona perché scelte calibrate su di Lui saranno il segno che Cristo ci ha chiamato amici e noi rimaniamo nel suo amore, portando frutti in abbondanza. Il discepolo di Cristo deve passare dall’osservanza alla fedeltà, la prima richiama la norma, la seconda la relazione amicale ed affettiva con Gesù. È la parola del Maestro che rende viva la legge e le dona un orientamento diverso perché non si rispetta la legge per essere giusti dinanzi a Dio, ma si è giusti perché Dio ci accorda la sua misericordia e dona la sua forza per vivere nella fedeltà alla sua alleanza.

Un balzo in avanti Gesù chiede ai discepoli perché solo guardando a Lui si supera il legalismo degli scribi e dei farisei. Non è infatti la nostra osservanza della legge che ci rende giusti – se così fosse la giustificazione dipenderebbe dall’uomo! – non le pratiche esteriori che ci meritano la benevolenza divina che invece è pura gratuità, ma l’atto di fede che Dio fa sorgere nel cuore e lo rende credente. Non è forse questa l’esperienza di Paolo? Egli desidera “guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede” (Fil 5,8-9). Gesù, e sulla sua scia Paolo, pone l’accento non sull’osservanza della legge, ma sulla relazione amorosa con Dio. Non sono le norme che io rispetto a donarmi la salvezza e “costringono” Dio a piegarsi alla nostra volontà, ma la fede in Lui, come risposta al suo rivelarsi nella nostra vita. La comunione con Lui determina una condotta diversa perché il mondo per chi ha fede “de te Altissimo porta significazione” canta Francesco D’Assisi. La nostra fede è un’esperienza viva con Cristo vivo, solo così la legge, pur se importante, passa in secondo piano perché il primo posto spetta a Dio che si rivela come sorgente d’amore. La legge poi viene dopo anche perché senza la grazia che Cristo ci dona non siamo capaci di osservare i suoi comandamenti e di essere come Lui, discepoli che vivono le beatitudini e divengono sale delle terra e luce del mondo.

Su quali fondamenti si poggia il nostro matrimonio? Ci sono stati momenti di crisi che hanno minato alle radici la nostra vita insieme? Come ne siamo usciti? Da chi ci siamo fatti aiutare nell’affrontare le difficoltà per superarle con impegno? Prima di tutto l’unità della coppia: è questo un criterio che abbiamo sempre rispettato? In che modo siamo riusciti ad armonizzare l’essere una carne sola con il dono della genitorialità? Nell’educazione le regole che ruolo hanno? Si impongono per disciplina o sono il segno della bellezza delle relazioni che conduce a scelte audaci e mature? Le rinunce che facciamo sono percepite come il risvolto di un di più da custodire e vivere nella responsabilità e nella gioia, nella fedeltà e nel dono?

“Avete inteso che fu detto, ma io vi dico …”

Il brano evangelico odierno ha una dinamica interna molto coerente. L’orizzonte è costruito dalle beatitudini (cf. Mt 5,1-12) che conducono il discepolo a divenire sale della terra e luce del mondo (cf. Mt 5,13-16), attuando scelte concrete di vita che si rifanno non più alla Legge di Mosè, ma a Cristo che di quelle antiche prescrizioni è il compimento e la pienezza (cf. Mt 5,17-19). Se in antico Dio aveva iniziato con il suo popolo un dialogo di amicizia, solo ora, con Gesù si può dire che esso sia completo e giunga a pienezza. Attraverso il mistero di Cristo, infatti, Dio pronuncia la sua definitiva parola nella relazione con l’uomo, qui riguardo la Legge, altrove sui vari ambiti rimasti aperti dall’Antico Testamento. La dimostrazione di questa tesi – Gesù dona pienezza e compimento alla Legge – è sviluppata nei versetti che seguono (cf. Mt 5,21-48, ma noi oggi leggiamo fino al versetto 37). Una solenne dichiarazione di principio – “Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (v. 20) – introduce la rivisitazione della Legge antica da parte di Gesù, legislatore definitivo e perfezionatore della Thorà. Egli non solo mostra nella corretta comprensione della giustizia l’orizzonte dell’intero suo discorso, ma indica anche la meta a cui deve tendere l’impegno morale del discepolo. Si tratta non di un perfezionamento etico che faccia sentire l’uomo superiore agli altri e giusto dinanzi a Dio, come il fariseo nel tempio che tesse le lodi di se stesso. Tutto deve condurci ad entrare nel Regno, a vivere con Cristo e di Lui. Entrare nel Regno vuol dire entrare nella vita di Gesù, facendo proprie le beatitudini che sono la sintesi del sentire e dell’agire di Gesù. Più il discepolo interiorizza la relazione amorosa con il Maestro, maggiormente assimila la sua vita e attinge forza di pensiero e di azione alla sorgente dello Spirito del suo Signore. È lo Spirito, infatti, che ci conforma a Gesù, ci comunica il suo pensare (cf. 1Cor 2,16) e il suo sentire (cf. Fil 2,5), innestandoci nella vita del Risorto per essere segno suo e testimoni tra gli uomini del suo amore, capace di vincere anche la morte.

Se riuscissimo a comprendere che Gesù ci chiama a superare il formalismo degli scribi e dei farisei per accogliere la sua giustizia, per vivere da persone rinnovate dal sacrificio della sua Pasqua! Se riuscissimo a capire che giusto non è chi rispetta pedissequamente quanto la legge prescrive, ma chi, attraverso le norme accolte con fede, risponde con amore al Signore che gli partecipa la gioia della sua alleanza e stipula con lui un patto di amicizia. Non è la legge per la legge, perché nessuna prescrizione salva, ma la fedeltà ad un rapporto. La relazione vera richiede la giustizia, ovvero il camminare nella fedeltà all’amore ricevuto e che si intende ricambiare. Ecco perché Giuseppe di Nazaret è definito “uomo giusto” (Mt 1,19), non si ferma al rispetto di facciata della Parola di Dio, ma si lascia interpellare da essa per giungere alla volontà del suo Signore. Quando un uomo accoglie Dio e ricambia l’amore di elezione che riceve, ponendosi alla sequela di Gesù, ricerca il progetto del Padre su di lui – è questa la giustizia – ed opera scelte che hanno come meta l’entrare nel Regno, condividere tutto in Dio e sedere alla sua mensa per essere serviti da Lui.

Quante volte facciamo le cose senza cuore, senza amore, né interesse. Lo dobbiamo fare, ma tutto sembra aver perduto un senso e la superficialità consuma i nostri rapporti. Gesù ci insegna a tenere fisso lo sguardo sulla meta, il suo Regno, la partecipazione alla sua vita, la gioia della comunione profonda con Dio e tra noi. Se perdiamo l’orizzonte del Regno, se non guardiamo a Gesù che è la sola bussola ben tarata, capace di darci la giusta direzione, non andremo da nessuna parte. Dobbiamo perseguire la giustizia di Dio, ovvero il suo amore, la sua misericordia in ogni situazione della vita, dobbiamo fare tutto per il Regno, per Dio, realizzare la sua volontà, compiere in noi il suo progetto. Il nostro impegno è una riposta a Colui che ci ha amati per primo. In questo orizzonte si muove san Paolo: “Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,12).

È Gesù che dona pienezza al nostro amore: ne siamo veramente consapevoli, lo sperimentiamo sempre? Ci sentiamo senza guida e pastore quando nella nostra giornata non riusciamo a dedicare personalmente, come coppia e come famiglia del tempo a Lui, alla preghiera e all’ascolto della sua Parola? Avvertiamo in noi un senso di incompletezza quando non guardiamo le cose con lo sguardo di Cristo? Cosa significa per noi vivere per il Regno, fare tutto per la gloria di Dio? È una categoria così lontana quella del Regno di Cristo o riusciamo a vedere e vivere che la nostra famiglia è il luogo dove incarnare la scelta di Gesù, dove lo Spirito pone la sua dimora perché la vita sia come quella del Maestro?

Pienezza e compimento nella radicalità dell’amore

Quattro precetti dell’antica legislazione mosaica vengano riletti da Gesù che svela, attraverso il suo insegnamento, l’intenzione di Dio che parlò sul Sinai, mostrando come non è bene fermarsi alla lettera, ma bisogna giungere allo Spirito che vivifica la norma. Tale Spirito poi è il dono che solo il Risorto può accordare perché Lui ne è in pienezza la sorgente zampillante. Il Maestro dona la radicalità della scelta di Dio: il quinto comandamento “Non uccidere” riguarda non solo il gesto, ma anche la parola. Rispettarlo vuol dire vivere la riconciliazione sempre, senza assecondare la divisione e l’animosità nei rapporti. Il “non commettere adulterio” concerne la purezza del cuore, dello sguardo, oltre che del corpo perché l’uomo e la donna non devono assecondare l’istinto, ma frenare le passioni per contenere anche nel proprio corpo la grazia divina che li rende tempio dello Spirito. La temperanza e la prudenza sono doni di Dio e siamo chiamati a custodirci nell’amore, perché il rifiuto ed il ripudio è il segno della vittoria in noi dell’egoismo. Il “non giurerai il falso” della legge antica diviene in Gesù vivere nella verità e testimoniarla con animo semplice e parole sincere.

È Gesù il vero esegeta, Lui l’unico scriba che trae fuori dal tesoro della Legge “cose antiche e cose nuove” (Mt 13,52). Come fa per il riposo del sabato, il Maestro ci insegna qui che non è l’uomo per la legge, ma la legge per l’uomo perché il cuore della legge è tutto nell‘amore. “Non abbiate alcun debito con nessuno – scrive Paolo – se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: “Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare” e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13,8-10). Ecco perché Agostino di Ippona dirà Ama e fai ciò che vuoi. È l’amore che determina la fedeltà nella libertà che l’amore ha di esprimersi, perché l’amore è legge a se stesso. Solo l’amore rende radicali e vere le nostre scelte. Solo l’amore ci rende come Gesù liberi nel dono e pronti all’offerta.




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