IV Domenica di Quaresima - Anno A - 26 marzo 2017

L’uomo fa esperienza della salvezza quando mette da parte se stesso e si consegna totalmente a Cristo

Guarigione del cieco nato

di fra Vincenzo Ippolito

Non si può calcolare quando e come ascoltare e fin dove obbedire se l’amore ci spinge, se in noi c’è il fuoco di Dio, se l’esperienza della sua presenza ha donato nuovo vigore ai nostri passi sulla strada della gioia vera e della realizzazione piena della propria umanità.

Dal Vangelo secondo Giovanni (9,1-41)

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».
Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». 

 

Con il Vangelo della scorsa domenica (cf. Gv 4,5-42), abbiamo sostato al pozzo di Giacobbe, nella cittadina samaritana di Sicar, per dissetare al cuore del Signore il nostro desiderio di Lui. Oggi siamo alla quarta tappa del nostro cammino quaresimale, nella domenica della luce che è anche domenica della gioia. Il colore liturgico viola, infatti, segno del monito alla conversione che genera la confessione delle nostre colpe, ameno per oggi, lascia il posto al rosaceo, il colore tenue che preannuncia la luce con la quale il Risorto ci avvolgerà il mattino di Pasqua.

La pagina evangelica odierna, saltando ben quattro capitoli – la scorsa domenica abbiamo letto Gv 4,5-42, mentre oggi Gv 9,1-41 – ci dona come scenario della narrazione proposta la città santa di Gerusalemme, brulicante di gente per la festa delle capanne (cf. Gv 7-10). Il nostro brano liturgico si può dividere in più scene, nella prima l’Evangelista narra la guarigione del cieco, con le prime reazioni al miracolo (cf. Gv 9,1-12), nella seconda il processo intentato dai farisei sull’accaduto (cf. Gv 9,13-34), nella terza l’incontro del cieco sanato con Gesù e l’incapacità dei farisei nel riconoscere la propria cecità (cf. Gv 9,35-41).

Anche questa domenica, nella celebrazione liturgica è data la possibilità di leggere la forma breve del Vangelo (cf. Gv 9,1.6-9.13-17), ma questa è una scelta pastorale che anzi, se attuata, rende ancor più necessario, durante la settimana, leggere per intero il brano e farne oggetto di meditazione e di preghiera personale, in coppia ed in famiglia. Solo così, infatti, il tempo di Quaresima sarà vissuto con Cristo, nel costante ascolto della sua Parola che lampada ai nostri passi, luce sul nostro cammino.

Nulla è impossibile all’onnipotenza di Dio

Il brano liturgico odierno, sempre tratto, come la scorsa domenica, dal Vangelo secondo Giovanni, inizia descrivendoci lo sguardo di Gesù che si posa su un uomo cieco fin dalla nascita (v. 1). Potrebbe sembrare una notizia non importante, una sorta di indicazione marginale che introduce unicamente la scena, ma, a ben pensarci, non è così. Entrando meglio nel brano, infatti, ci si rende conto come l’Evangelista ponga in parallelo due sguardi, quello del Signore – che viene descritto – e l’altro dei discepoli che, pur se non narrato, è mostrato nelle parole che rivolgono al Maestro: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (v. 2). L’uomo tante volte guarda le situazioni della vita altrui con freddo distacco ed indifferenza, come se il dolore o la sofferenza dei fratelli non lo toccasse. Così fanno anche i discepoli, iniziano a disquisire, seguendo i raggiri di parole propri della casistica giudaica, e chiedono al Maestro la causa di quella cecità. Il loro sguardo è rivolto al passato, la cui analisi non risolve la situazione dell’uomo, ma anzi la loro ricerca appare vuota, un dispendio di energie perché, in concreto, non si entra nel dramma dell’altro.

La prospettiva di Gesù è diversa. Guarda l’uomo cieco, ma non per andare alle cause della sua malattia, scomodando le tradizioni antiche che collegavano il male fisico subito con un peccato personale o dei propri genitori, come fanno intendere i discepoli. Il Maestro non cede alla tentazione di rivolgersi al passato, cercando di comprenderne le dinamiche, quanto, invece, preferisce guardare al futuro, partendo dalla situazione concreta di quel cieco. Questo non significa che il Signore rifiuti una riflessione teologica, quanto, invece, che preferisce soccorrere l’uomo, risollevarlo dalla sua prostrazione, incontrarlo nella sua difficoltà, soccorrerlo nella problematicità. In questa prospettiva comprendiamo la sua risposta che appare come una non risposta, perché non offre ciò che i discepoli si attendono “Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché in lui siano manifeste le opere di Dio” (v. 3). Gesù, come altrove (cf. Gv 6,6) già sa ciò che sta per compiere, ma vuole, prima di tutto, rompere il tradizionale rapporto di dipendenza dell’infermità dal peccato e mostrare come la malattia sia il segno della caducità e della debolezza della natura umana. Naturalmente tale discorso è solo accennato e rappresenterà una catechesi che la chiesa primitiva sarà chiamata a sviluppare sulla base di questo breve, ma incisivo insegnamento del Maestro. L’accento è quindi posto su ciò che Dio opera nella vita quando l’uomo si lascia guidare da Lui ed obbedisce alla sua voce.

Nella nostra vita, pur segnata dal dolore e dalla sofferenza, Cristo è capace di manifestare la sua opera, la sua onnipotenza d’amore. Egli non si perde in chiacchiere, non si dilunga in disquisizioni sottili di alta teologia che non hanno incidenza nella vita concerta. Al centro della sua missione c’è l’uomo, nella concreta situazione della sua esistenza, l’uomo così com’è, l’uomo che conosce la difficoltà di sbarcare il lunario e di trovare la gioia, l’uomo che desidera la luce, ma non riesce a vedere il chiarore della presenza del Signore nella sua vita.

Risulta inutile il più delle volte, davanti alle situazioni di dolore e di sofferenza della nostra storia, andare alla ricerca del perché, voler capire la ragione e le cause vere di ciò che soffriamo, di quanto viviamo con intensa partecipazione. A che serve capire il passato, tenere il volto rivolto a ciò che è accaduto, se poi non interveniamo sull’oggi, se la situazione, pur di difficile gestione, non cambia o non proviamo a cambiarla, con la luce e la forza che viene da Dio? Quanti vuoti ragionamenti prendono la nostra mente e consumano il nostro cuore Bisognava fare così … forse se avessi preso quella strada … dovevo impormi prima … Sono queste tutte frasi fatte che dimostrano la nostra frustrazione di fondo, ma ci impediscono di prendere ora in mano le situazioni che viviamo o che altri vivono, per cercare, con determinazione e coraggio, una soluzione appropriata. È quello che fa Gesù. Davanti ai discepoli che si perdono nelle dispute teologiche delle scuole rabbiniche, Egli preferisce guardare la difficoltà dell’uomo che gli sta innanzi e far divenire la sua vita, la creaturalità ed il limite che caratterizza la sua storia, il dolore e la mendicità che lo porta a dipendere totalmente dagli altri – l’Evangelista lo farà comprendere in seguito al v. 8 – luogo della manifestazione delle opere di Dio. Questa è la vita dell’uomo, la sua storia, pur segnata da dolore e angoscia, il luogo in cui il Signore opera meraviglie. È questo il grande e straordinario annuncio che il Discepolo amato rivolge ai suoi lettori: la tua vita è visitata dalla potenza del Signore, per quanto le difficoltà vogliano apparire conseguenze del peccato tuo o altrui, Dio vuole toccarti, entrare nella tua storia, sanare il tuo corpo piagato, operare meraviglie per la tua gioia.

Gesù Cristo non ha paura delle nostre infermità, Lui che si è addossato i nostri dolori, che ha fatto sua la nostra debolezza creaturale. Si tratta del Dio dell’esodo che non disdegna di snudare il suo braccio santo e di stende la sua destra onnipotente perché l’uomo sia liberato dalla schiavitù che lo opprime. Ecco perché la nostra preghiera deve echeggiare la voce dell’orante ispirato: “Come in antico ti mostrasti grande in mezzo a noi, così ora mostrati grande fra di loro”. La mia famiglia è la dimora delle meraviglie del Signore, la comunità di cui faccio parte, il gruppo che frequento, per quanto le situazioni che si vivono possano apparire disastrose, è il luogo santo dove il Risorto fa sentire la sua voce che è un preludio di una creazione nuova “In te io manifesterò la mia gloria”. E allora “Perché temere nei giorni tristi, quando mi circonda la malizia dei perversi? … ma Dio potrà riscattarmi, mi strapperà dalla mano della morte” (Sal 49,6.16).

Quello di Gesù è un approccio diverso alla storia rispetto a noi. Siamo abituati ad andare alla ricerca delle cause, figli della rivoluzione scientifica, siamo assetati di chiudere tutto nei nostri ragionamenti. Ma il risalire alle radici delle situazioni non significa riuscire a trovare la via d’uscita. Dobbiamo, invece, confrontarci con le nostre difficoltà così come sono, senza scappare in vuoti ragionamenti che ci portano a divagazioni, non a trovare la strada della risoluzione e della pace del cuore. Dobbiamo imparare da Gesù a vedere con occhi nuovi la nostra storia come evento di salvezza e di redenzione.

È così difficile vedere la nostra vita con i tuoi occhi, o Signore e considerare anche le situazioni limite il luogo dove tu operi con potenza la nostra gioia. Tante volte nel cuore c’è posto solo per la disperazione e la tristezza consuma il nostro animo, eppure tu proprio nei nostri deserti vuoi compiere meraviglie. Perché non crederci? Tu, Signore sei un Dio potente ed io voglio lasciarti operare in me, voglio che la tua mano tocchi il bubbone della mia colpa, che il tuo braccio si stenda sulla cancrena del mio peccato. Tu sei il Medico che mi può guarire, il Signore che può ridurre all’impotenze le potenze delle tenebre, il Maestro che può camminare sulle acque impetuose dell’inquietudine umana senza soccombere. Manifesta in me la tua onnipotenza d’amore ed io, proprio io, sarò salvo grazia a te, in te avrò la vita, per te conoscerò la gioia senza fine.

Gesù, artefice della creazione nuova

Dopo i primi versetti dedicati alla presentazione del cieco nato, attraverso lo sguardo di Gesù e la reazione dei discepoli che cercano di risalire alle cause della sua infermità, l’Evangelista ci narra l’insperata guarigione che il Signore opera. Cristo prima ribadisce ai suoi discepoli di essere la luce del mondo (Gv 9,5), come già in precedenza (cf. Gv 8,12) e poi fa seguire la realizzazione di quanto affermata, si dona come luce e illumina colui che è nelle tenebre.

La prima cosa che notiamo alla lettura del brano evangelico è l’iniziativa di Gesù. Il Maestro, infatti, non consulta l’uomo, non solo non chiede se vuole essere guarito – cosa che avviene nel caso del paralitico in Gv 5,6 – dal momento che, cieco dalla nascita, non può sapere cosa sia la luce e neppure desiderarla. Questo sottolinea quanto la salvezza sia dono totalmente gratuito di Dio per l’uomo. Difatti, non richiesta e neppure voluta, la guarigione è il segno di quanto Cristo abbia a cuore il nostro bene, di come si preoccupi delle situazioni problematiche che viviamo. Gesù non può attendere che il cieco formuli la sua richiesta perché si è ormai abituato alla sua situazione di infermità e neppure si pone il problema che ci possa essere per lui una possibilità di guarigione. Il primato quindi è della grazia, dell’amore di Cristo che rompe il grigiore di una vita senza speranza e rimette in circolo una gioia mai pensata come possibilità attuabile. Ecco il Dio che fa cose stupende, che compie meraviglie nelle situazioni limite dove l’uomo non ha più nulla da sperare ed attendere. Da questo impariamo che per il cristiano non esiste e non può esistere la rassegnazione perché il discepolo di Gesù è l’uomo della consegna e dell’abbandono, non della rassegnazione, che non è mai la resa incondizionata che l’amore genera, ma il desiderio fallito di avere la meglio. Dio è onnipotente nel suo amore, la sua parola può ricreare, la sua mano riplasmare. Da questo nasce e rinasce la speranza e la gioia del discepolo.

Chi ama di più, prende sempre l’iniziativa e propone all’amato la strada della vita. Incurante del primo passo, si lascia portare dall’amore che accende dentro e la sola idea della gioia che l’altro potrebbe godere muove il desiderio e porta a muoversi con coraggio e determinazione, anche a lottare contro le paure e le ritrosie che l’altro dimostra. L’amore vero non si ferma davanti a nulla, proprio come Gesù. Per chi ama l’ottusità e la cecità sono situazioni limite che richiedono ancor più coraggio e forza d’animo. Il Signore non si lascia frenare nel suo desiderio di donare salvezza e né si ferma alla costatazione di ciò che vede nell’uomo infermo. La malattia dell’altro non lo frena, ma è proprio il male a rendere e mostrare onnipotente l’amore. Nulla è, infatti, impossibile a chi ama perché l’amore – afferma san Bernardo – è la più grande forza spirituale. Ma l’amore, per quanto grande sia, si ferma sempre dinanzi alla porta del cuore dell’altro e attende, bussa ed attende, almeno che l’uscio si apra di poco, proprio come fa Dio con ciascuno di noi.

La descrizione dell’Evangelista è molto cadenzata e permette di figurarsi bene dinanzi agli occhi i movimenti di Cristo. “Sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco” (v. 6). Si tratta di azioni conseguenziali, tutte di tempo finito, quindi compiute in se stesse, anche se l’una collegata alla seguente, in una sequenza dinamica che mostra l’azione di Dio sull’uomo, creato un tempo a sua immagine e somiglianza ed ora ricreato dalla potenza di Dio che rivive in Gesù. Le immagini che l’autore utilizza richiamano la creazione dell’uomo nel libro della Genesi che ora Gesù sembra completare con il tatto della sua mano. È Lui, infatti, che modella la sua creatura e, come un tempo plasmò la polvere del suolo ed in essa insufflò l’alito della vita (cf. Gen 2,7), così ora prende il fango, elemento naturale, e lo unisce alla sua saliva che è il segno dell’energia del suo Spirito. Cristo, in tal modo, ricrea l’uomo con la potenza del Consolatore che Egli solo può donare in pienezza e crea le condizioni perché sperimenti la pienezza di vita, nella capacità di godere della gioia della sua luce. 

Signore Gesù, tocca i miei occhi perché abbia anch’io la vista. Senza di te siamo tenebra, ma se mandi il tuo Spirito siamo ricreati. Con la tua mano, ricreaci a tua immagine perché senza di te non possiamo somigliare a te, senza lo Spirito che tu ci doni, non possiamo avere in noi la vita e la luce tua. Nel silenzio della preghiera, mostrati Unto di Spirito Santo e ungici della grazia del Consolatore perché anche noi riceviamo la forza della testimonianza e tra i fratelli diveniamo segno del tuo amore che guarisce e risana i cuori affranti.

L’uomo, collaboratore dell’azione di Cristo su di lui

È vero, alla lettura attenta della pericope giovannea, l’iniziativa è di Cristo, è Lui che si accosta al cieco, dopo averlo visto passando, è Lui che spalma sui suoi occhi il fango impastato con la sua saliva. Ma l’azione di Dio sul cieco non è tutto perché la guarigione è sì opera della mano di Cristo, ma anche della docile accoglienza dell’uomo. Il Maestro, infatti, con i suoi gesti, non priva il cieco della libertà di scegliere la salvezza ed accoglierla con consapevolezza, perché non decida il bene dell’uomo senza che questi lo voglia. La guarigione è sempre un dono da accogliere con piena volontà e totale abbandono, non la si può imporre. Colui che ti ha creato senza di te – insegna Agostino di Ippola – non può salvarti senza di te. La presenza di Cristo medico deve essere scelta. Ci troviamo sempre nella situazione del popolo d’Israele che, prima di entrare nella terra promessa, viene richiamato da Giosuè a decidere se appartenere o non al Signore (cf. Gs 24,1-28). È necessario scegliere Dio nella propria vita, perché l’essere cristiani è sì un suo dono gratuito, ma è anche frutto della nostra libertà di optare per Lui e di vivere nella sua alleanza. La sua amicizia è dono e responsabilità sempre. Dio è onnipotente in noi, ma solo se noi gli permettiamo di esserlo.

Il testo evangelico sottolinea bene come la guarigione sia opera di Dio e dell’uomo. Da una parte, infatti, notiamo la volontà di Cristo di donare ed operare la salvezza del cieco – “Sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco” (v. 6) – dall’altra è l’uomo stesso che, accogliendo il comando di Gesù, deve rendere fattiva la sua potenza di salvatore e dirigersi alla piscina per lavarsi. Ecco perché il discepolo amato aggiunge al v. 7, “e [Gesù] gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. È l’obbedienza alla parola di Gesù che salva e guarisce. È durante il cammino, al pari dei dieci lebbrosi (cf. Lc 17,11-19), che il Signore sana la cecità e dona la luce. Comprendiamo da questo la sinergia tra l’iniziativa di Dio e l’obbedienza dell’uomo. Da questa dipende la guarigione, non basta la sola volontà di Dio e neppure il desiderio dell’uomo di essere guarito. È necessario che Cristo incontri l’uomo e si crei quella relazione di abbandono e di obbediente fiducia in lui. La fede in Cristo è scandita dall’ascolto e l’ascolto di Gesù e della sua parola di vita è vero solo se genera l’obbedienza, quale capacità di lasciare che la parola udita plasmi l’azione e la determini. In tal modo ciò che io compio non è più il frutto della mia volontà, ma di quella di Dio che guida la mia vita e dirige i miei passi nel suo progetto di amore. L’uomo fa esperienza della salvezza, quando si lascia guidare da Dio e dalla sua parola e mette da parte se stesso, le voci del suo mondo interiore, affidandosi a Cristo e consegnandosi totalmente alla sua volontà.  

Se l’ascolto vero genera l’obbedienza e da questa nasce una vita che segue l’orientamento ricevuto da Dio che ha parlato, in quale terreno cresce e si sviluppa l’ascolto? È così immediato e semplice fare silenzio perché il Signore parli? Come il cieco lascia a Cristo la possibilità di operare e permettere che la sua voce plasmi le scelte della vita? Talvolta l’ascolto obbediente può essere generato da un convincimento o da un ragionamento interiore o con altri – è il caso di Naaman il siro a cui il profeta Eliseo comanda di immergersi sette volte nel fiume Giordano per guarire dalla lebbra. Egli si rifiuta e saranno i servi che lo convinceranno ad obbedire, cf. 2Re 5,10 – ma per noi che conosciamo Cristo e abbiamo la grazia di sperimentare e godere della potenza del suo amore, l’ascolto è generato dall’amore. Se amo e mi sento amato, io ascolto e verrò ascoltato. È l’amore l’anima dell’ascolto che fiorisce in obbedienza. Non si può calcolare quando e come ascoltare e fin dove obbedire se l’amore ci spinge, se in noi c’è il fuoco di Dio, se l’esperienza della sua presenza ha donato nuovo vigore ai nostri passi sulla strada della gioia vera e della realizzazione piena della propria umanità. Con l’obbedienza della fede, siamo all’interno della dinamica di una relazione profonda ed amicale con Dio e non possiamo mettere limiti e costruire muraglie nel rapporto con Lui. Al tempo stesso non possiamo pretendere di comprendere sempre ciò che il Signore ci chiede, ma dobbiamo avere fiducia in Gesù e credere che Egli desideri il nostro vero bene più di noi. Solo così i nostri occhi saranno rivolti al Signore, sapendo che dalle sue labbra ci è donata quella parola che è proposta di vita vera e piena per noi. È necessario riflettere meglio sulla virtù dell’obbedienza e su come questa sia generata da un ascolto plasmato dall’amore. Dobbiamo pregare maggiormente perché nelle nostre famiglie la volontà di Dio venga accolta nella fede e più che chiedersi il perché, ci lasciamo portare dal Signore, nella certezza che Egli non chiede mai se non per un bene più grande. Non è importante capire tutto, ma sapere che Dio è con noi.  Solo così la sua proposta diverrà l’orizzonte della nostra gioia.

Tante volte, Signore, nel nostro rapporto con te, la disponibilità che diamo non solo è temporanea, ma è anche limitata nella profondità. Tu devi accontentarsi della quantità che noi decidiamo, come anche della qualità che noi stabiliamo. È così anche nei nostri rapporti, gli altri che devono fermarsi alla staccionata che noi fissiamo, ai limiti invalicabili che noi stabiliamo. Donaci, Signore, la potenza del tuo amore e sbaraglia le nostre paure. Donaci un ascolto di te e dell’altro totale ed incondizionato, fa’ nascere in noi la certezza che obbedendo a te avremo la gioia e ricercando nelle nostre famiglie la tua volontà sperimenteremo la luce e la pace. Non ti chiediamo che la nostra mente esaurisce nella comprensione la tua volontà, ma il nostro cuore sia acceso dal desiderio di fare come Gesù, dire sempre “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te”.

Dio può guarire solo chi riconosce la propria cecità

Il cieco guarito miracolosamente nel corpo ora deve incominciare un percorso di illuminazione interiore. Ciò che è avvenuto ai suoi occhi è segno di quanto accadrà nel suo animo. Al pari della samaritana e, per alcuni aspetti, ancor più di lei, anche quest’uomo, nell’interrogatorio dei farisei (cf. Gv 9,13-34), dovrà prima confessare Gesù come un profeta (cf. Gv 9,17) e poi come il Signore, dinanzi al quale ci si può prostrare per ottenere in pienezza la salvezza (cf. Gv 9,38). Il vero problema non è però la guarigione del cieco, ma dei farisei, ovvero di quanti credono di vedere e, invece, camminano nelle tenebre e sono maestri di oscurità. La Quaresima serve perché ciascuno di noi non si indurisca nella propria superba illusione di non aver bisogno della luce di Cristo. Solo alla sua luce noi vediamo la luce e camminiamo nel chiarore della sua presenza, nella gioia della sua testimonianza.




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