V Domenica di Quaresima - Anno A - 2 aprile 2017

Lazzaro: la grazia di fidarci di Dio e di consegnare senza riserve nelle sue mani la nostra vita.

di fra Vincenzo Ippolito

Andare a Betania è una necessità per Gesù che discende dal suo essere Dio amore, Pastore e non mercenario delle pecore. Dobbiamo maggiormente riflettere su quanto la nostra vita testimoni la nostra identità di figli di Dio e di fratelli tra noi, di sposi e genitori. Solo ricordando ciò che siamo, potremo affrontare con determinazione le sfide della nostra storia.

Dal Vangelo secondo Giovanni (11,1-45)

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».

All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».

Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».

Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro.  Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.

Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».

Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

Siamo all’ultima tappa del nostro cammino quaresimale, alla viglia della grande settimana in cui Gesù “dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). È la domenica della vita in cui ciascuno è chiamato a compiere lo stesso atto di fede di Marta, nell’abbandonarsi a Gesù, nostra vita e resurrezione. Non è semplice credere in Cristo e nella potenza del suo amore quando la morte bussa alla porta della propria casa, facendo piombare il cuore nella valle della desolazione e del pianto. Solo la mano di Gesù può custodire i discepoli, evitando che nulla e nessuno li separi dal suo amore. Come ogni atleta si prepara alla gara, così anche noi, in quest’ultima settimana, alleniamo il nostro cuore nel credere in Gesù perché l’orrore della sua croce non ci spaventi e la paura non ci porti alla fuga. Solo l’amore che abita il cuore di Maria e delle discepole può inchiodarci sotto la croce per vedere come il chicco caduto in terra muore per dare al mondo la vita.

Non lasciarsi vincere dalla paura

Dopo la pericope della scorsa domenica, dedicata al miracolo del cieco nato (cf. Gv 9,1-41), leggiamo oggi il racconto di un altro miracolo, quello della resurrezione di Lazzaro, tratto dal capitolo undicesimo del Vangelo secondo Giovanni. Si tratta di un momento delicato della vita del Maestro. Dopo il suo insegnamento nel tempio, durante la festa della dedicazione (cf. Gv 10,22, i Giudei raccolgono pietre per lapidarlo (cf. Gv 10,31). Gesù sfugge a questo come anche al tentativo di arrestarlo (Gv 10,39) e si rifugia oltre il Giordano. È qui che lo raggiunge la notizia dell’infermità di Lazzaro e da qui parte per far ritorno in Giudea, incurante dell’odio dei Giudei e delle trame che essi intessono e, ancor di più dopo la resurrezione di Lazzaro, delle bugie che semineranno per ucciderlo (cf. Gv 11,45-53).

Il nostro brano – assai lungo come quelli delle scorse domeniche – si può dividere in più scene: nella prima, Gesù è con i discepoli, riceve la notizia della malattia di Lazzaro e decide di andare a Betania (cf. Gv 11,1-16); nella seconda è narrato il dialogo del Maestro con Marta (cf. Gv 11,17-27), nella terza, l’incontro con Maria (cf. Gv 11,28-38a), mentre l’ultima è la descrizione della resurrezione di Lazzaro (cf. Gv 11,38b-46).

L’orizzonte del racconto evangelico odierno è l’ostilità dei Giudei nei riguardi di Gesù. In realtà, l’Autore ne aveva parlato (cf. Gv 5,18), ma ora l’attenzione è posta sui discepoli che mal digeriscono la volontà del Maestro di far ritorno nei pressi di Gerusalemme, rischiando così di entrare nuovamente in attrito con i suoi oppositori. L’Evangelista, tra le righe, ben mostra la differenza tra Cristo e i discepoli. Dinanzi all’incapacità dei Giudei di accogliere il Nazareno come il Messia promesso, Gesù non ha paura, anzi è sereno perché il suo cuore è fisso nel mistero del Padre e del suo amore. Egli è il suo Verbo, opera in unità con Lui, la parola che Egli dona è del Padre che lo ha mandato e Cristo nulla compie da se stesso, ma vive e agisce in totale obbedienza a Dio. Perché dovrebbe temere, agitandosi davanti alla durezza del cuore dell’uomo? Perché il rifiuto dei Giudei e i loro intrighi dovrebbero rubargli la certezza di essere il Figlio amato da sempre e per sempre? È quanto dice anche il salmista Perché temere nei giorni tristi, quando mi circonda la malizia dei perversi?” (Sal 49,6).

I discepoli, invece, sono incapaci di mantenere la calma davanti alle situazioni problematiche, proprio come capitò al re Acaz. Alla notizia dell’avanzata degli Aramei, “il suo cuore e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano i rami del bosco per il vento” (Is 7,2). Proprio come capitò ad Eva, nel guardino di Eden. La parola del serpente sradicò in lei la voce di Dio e si sostituì ad essa. Se l’ostilità dei Giudei non destabilizza Gesù – come potrebbe, visto che Lui è il Figlio unigenito, in tutto unito al Padre? – non così capita ai suoi discepoli. Nel loro cuore nasce la paura ed il timore mette radici profonde. Sì, l’ostilità li porta a bloccarsi, la parola degli uomini sembra più forte di quella del Maestro che viene così soffocata dalla zizzania seminata dagli uomini perversi. Questo dimostra che la loro fede in Gesù Cristo non è ancora salda, perché il seme del Maestro è caduto nel terreno del cuore dove i rovi spadroneggiano e così “le preoccupazioni del mondo […] soffocano la Parola e questa rimane senza frutto” (Mc 4,19). Dinanzi al Signore che intima «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?» (Gv 11,1-8). Esiste un abisso incolmabile tra Gesù e i suoi discepoli. Non solo hanno paura dei Giudei e palesemente dimostrano il loro diniego alla decisione di Gesù, ma non riescono a fare quel salto di fede che il Signore chiede. Dio chiede l’obbedienza, ma nel loro cuore c’è solo ribellione, riluttanza, contrarietà.

Non è semplice purificare il cuore dai sassi e dai rovi, bonificare la propria interiorità perché la voce del Maestro vi regni sovrana! I discepoli credono – come anche noi – di poter dare consigli al Maestro, come Pietro che, all’annuncio della Pasqua di morte e di resurrezione di Gesù, cerca di farlo desistere dal proseguire il cammino verso la croce (cf. Mc 8,31-33). Cristo è l’unico Maestro, inutile controbattere. Se lo facciamo anche noi, come i discepoli, è segno che non ci fidiamo di Lui, che non crediamo che Egli desidera il nostro bene più di quanto noi possiamo pensare, non siamo persuasi che Egli abbia una visione complessiva delle situazioni come nessun altro, visto che è Lui solo il Signore. Se le pecore non seguono la voce del Pastore è perché non la conoscono sul serio (cf. Gv 10,27) o perché non vogliono o non riescono a riconoscerla tra le tante che abitano il cuore.

Dobbiamo chiedere la grazia di fidarci di Dio e di consegnare senza riserve nelle sue mani la nostra vita e quella delle persone a noi care. Se noi desideriamo il loro bene, non lo vorrà Dio ancor più di noi Egli che è amore per essenza? Se noi facciamo ogni cosa perché i nostri figli abbiano un futuro pieno di gioia, forse non opererà il Signore ancor prima e più di noi perché tutto fiorisca in bene? Non possiamo, come il popolo d’Israele all’uscita dall’Egitto, vivere di mormorazione e neppure credere che Dio abbia bisogno dei nostri consigli per essere Dio! Nulla di più assurdo! Egli è onnisciente e conosce non solo in profondità ogni cosa, ma persino la nostra parola, prima ancora che affiorino sulle nostre labbra (cf. Sal 138,4).

Più che dire ciò che Dio deve fare – quando si presenta questa tentazione dobbiamo ricordare il rimprovero rivolto a Pietro in Mc 8,31-33 – è bene seguire l’esempio di Gesù che nel Getsemani si affida al Padre, pur tra le angosci più strazianti. A che serve la ribellione? Essa nasce quando crediamo di poter avere l’ultima parola, di sapere più e meglio degli altri, quando pensiamo di avere la chiave per la risoluzione di ogni situazione. Ci può essere illusione più grande di questa, quando applichiamo a Dio questa dinamica? Di fiducia si nutre non solo il rapporto con il Signore, ma anche le nostre relazioni tra noi perché solo nella fiducia si cresce. Non possiamo continuamente intervenire nella vita delle persone a noi vicini con consigli più o meno pertinenti e tantomeno giustificare la nostra ansia dicendo che lo facciamo per amore. Si cresce nella libertà e nella fiducia. Si potrà anche sbagliare, ma la crescita è un rischio. Chi non vuole viverlo, deve solo credere che la campana di vetro sotto cui vive sia l’orizzonte sconfinato dell’universo, ma si illude che sia così, pur sapendo che non è la realtà.

Cercare sempre e solo la gloria di Dio

Ma perché mai Gesù decide di mettere a repentaglio la sua vita per andare da Lazzaro, visto che tra l’altro è già morto ed Egli lo sa bene?
In primo luogo perché Gesù è il buon pastore, venuto per dare alle sue pecore la vita in abbondanza. Lo aveva detto in precedenza: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dona la vita per le pecore” (Gv 10,11). Ora, nella concreta situazione della morte di Lazzaro, il Maestro dimostra fino a che punto Egli è il pastore misericordioso. Per questo, Cristo non guarda la sua vita – lo stesso farà Paolo che considera la sua esistenza spazzatura, pur di conquistare Cristo e di essere trovato in Lui, cf. Fil 3,7 – non cerca un tornaconto personale, ma è sempre e solo proteso al bene degli altri. È, infatti, il mercenario che scappa nel pericolo, non il pastore che ama le pecore (cf. Gv 10,12). Legge suprema per Lui è la volontà del Padre che desidera il bene degli uomini. Nulla Egli antepone a questo criterio base della sua vita di Verbo incarnato. L’ostilità degli avversari si supera con la consapevolezza della propria identità. Gesù rimane fedele a se stesso, al suo essere Figlio di Dio incarnato e nulla può cambiare la sua confessione e la sua opera, pena l’affermazione di ciò che Egli non è. Andare a Betania è una necessità che discende dal suo essere Dio amore, Pastore e non mercenario delle pecore. Dobbiamo maggiormente riflettere su quanto la nostra vita testimoni la nostra identità di figli di Dio e di fratelli tra noi, di sposi e genitori. Solo ricordando ciò che siamo, potremo affrontare con determinazione le sfide della nostra storia.

In secondo luogo, Gesù vince la paura e l’ostilità perché trae forza dalla relazione di amicizia e di affetto che vive con Lazzaro. Il criterio delle sue scelte è l’amore per l’altro. L’Evangelista ricorda sia quando trasmette la notizia che Marta e Maria fanno giungere a Gesù – “Signore, colui che tu ami è ammalato” (Gv 11,3) – sia anche in un successivo inciso – “Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro” (Gv 11,5) – che è sempre e solo l’amore che muove il Verbo a uscire dalla sua sicurezza in Transgiordania per andare a Betania. È l’amore che determina il movimento di uscita da sé e la capacità di entrare nella vita dell’altro, dimentico delle conseguenze che la propria scelta avrà su di sé. Questa circolarità d’amore – che rende in Giovanni quel clima di intimo e familiare affetto riportato da san Luca con una scena diversa nel suo Vangelo (cf. Lc 11,38-42) – è la vera ragione della decisione di Gesù. È l’amore che lo spinge, sempre e solo l’amore.

L’Evangelista ci tiene a specificare la profondità dell’affetto che Cristo nutre per i suoi amici e, in ultima analisi, per ogni uomo. Le due frasi – “Signore, colui che tu ami è ammalato” (v. 3) e “Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro” (v. 5) – pur se riportano entrambe il verbo italiano amore, mostrano una significativa differenza – il testo greco lo palesa bene – non nell’essenza dell’affetto che Cristo ha per noi, ma nella capacità nostra di percepirlo in verità. L’amore con il quale Cristo ci ama è un amore agapico – l’amore di totale gratuità in greco è agape – un puro dono che non si merite e che non può dipendere dalla capacità dell’uomo di accoglierlo o di ricambiarlo. Dio ama perché è amore per essenza e nulla si attende da noi perché l’uomo non può amare di pura gratuità, se non è lo Spirito Santo che interiormente lo muove. L’uomo, che non ha esperienza dell’amore agapico di Dio per lui in Cristo, percepisce l’affetto di Dio come segno di amicizia da parte sua. È questo il senso delle parole di Marta e di Maria rivolte a Gesù. Nel v. 3, infatti, il verbo è diverso nel testo greco. L’Evangelista sta dicendo che l’amore agape che Dio nutre per noi è ben superiore all’amore amicale, anche se noi lo percepiamo così. È come se l’Autore volesse dire che l’uomo non è capace di comprendere e di chiudere in categorie umane l’amore che Dio nutre per lui, perché l’amore di carità che Dio prova per l’uomo è puro dono di grazia, mentre l’amore di amicizia indica la capacità non solo di accogliere, ma anche di ricambiare con la stessa intensità di affetto il sentimento che ci raggiunge.

In terzo luogo Gesù vive ed opera per la gloria di Dio, per questo può e deve andare a Betania senza nulla temere. è Lui stesso a dirlo: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” (Gv 11,4). Il Verbo è venuto nel mondo per rivelare il volto del Padre e tutto ciò che compie ha questa come unica finalità. Il termine gloria è molto diverso dal significato che noi gli diamo. Per noi è sinonimo di successo, non così l’accezione del termine in Giovanni. Gesù glorifica il Padre dimostrando il suo amore, introducendo gli uomini nella comunione con Lui, trasmettendo la sua parola, effondendo la grazia del suo Spirito. C’è una circolarità della rivelazione tra il Figlio e il Padre. Se il Verbo è venuto nel mondo è perché il Padre nel suo amore di predilezione lo ha inviato e se il Padre è conosciuto dagli uomini è perché il Figlio lo ha mostrato vivo, vero, operante nella sua vita. Cercare la gloria del Padre è ciò che Cristo desidera. Egli non vuole che lo sguardo dei discepoli si fermi a Lui, ma che raggiunga Dio Padre; non vuole che la sorgente della parola che trasmette sia la sua bocca ed il suo cuore, ma il Padre che in Lui opera e parla con potenza d’amore. Solo il Figlio glorifica il Padre perché “Dio nessuno lo ha mai visto, solo il Figlio unigenito che è Dio sul seno del Padre, Lui lo ha rivelato” (Gv 1,18), ovvero solo Gesù può mostrare la bontà e la santità, l’amore e la tenerezza, la misericordia e la pazienza, la gioia e la grazia che il Padre è in sé e trasmette come dono suo. Ecco perché Gesù, nella sinagoga di Cafarnao, può dire “Il Padre ha la vita ed io vivo per il Padre” (Gv 6) e, nella preghiera per l’unità, conosciuta anche come preghiera sacerdotale, afferma “Padre glorificami con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17). Le opere e le parole di Gesù devono mostrare il volto paterno di Dio e questo ad ogni prezzo, anche a costo di perdere la propria vita. È quanto farà sulla croce.

Chi ama cerca, opera e parla perché la persona a Lui cara venga amata. Chi ama e conosce la potenza dell’amore dell’amato, non tiene per sé il tesoro dell’amore che sperimenta, ma vuole che sia conosciuto dagli altri e sia da essi riamato. È questa la grazia della figliolanza divina. Gesù ci rende figli, nella grazia del suo Spirito, e noi, come Lui, siamo chiamati a rendere manifesto il volto del Padre. Solo così possiamo cercare la sua gloria. Per questo il Signore dirà ai suoi “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre che è nei cieli” (Mt 5,16). Gesù, in tal modo, non può ritrarsi davanti alla possibilità di rivelare la gloria di Dio a Betania. Ogni situazione è propizia per mostrare come Dio operi meraviglie per la salvezza degli uomini.

C’è  anche un altro motivo, sarebbe il quarto, per cui Gesù non ricusa di dirigersi in Galilea. Giovanni mette sulle labbra dello stesso Maestro la motivazione del suo viaggio in Giudea “Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!” (Gv 11,14-15). Gesù vuole che i suoi facciano un salto di fede, perché sa che i discepoli ancora non riescono a comprendere in pienezza la sua parola e quindi a credere in Lui. I segni che Gesù opera nascono da una fede, seppur incipiente, ma sono finalizzati al suo naturale sviluppo. È consolante e genera gioia sapere che Gesù fa tutto pensando a noi, suoi discepoli. Egli opera perché la nostra fede in Lui giunga a maturazione.

Essere il buon pastore, nutrire un puro e gratuito amore, cercare la gloria di Dio e operare perché lo spessore della fede dei discepoli aumenti sono i motivi per i quali Gesù non ha paura dei Giudei e si dirige a Betania. Quali, invece, le nostre ragioni che ci spingono a sprezzare il pericolo – se questo accade – e a camminare risoluti dietro a Cristo, nelle alterne situazioni che viviamo a livello personale, familiare e di coppia?

Incontri che mettono in circolo l’amore e la speranza della vita

Due sono gli incontri che Gesù vive a Betania, il primo con Marta (cf. Gv 11,17-27) e l’altro con Maria (cf. Gv 11,28-38a). Nella prima scena, la notizia dell’arrivo di Gesù spinge Marta ad andare incontro al Signore (v. 20). L’amore genera in lei la capacità di andare incontro all’altro che si è già diretto verso di lei. È la gara dell’approssimarsi, la corsa nel raggiungersi. Non si attende che l’amico venga, ma gli si va incontro perché il cuore si strugge dal desiderio di vederlo e di lenire il dolore che l’animo sente per la scomparsa di Lazzaro.

Se riuscissimo a vivere anche noi così i nostri incontri! Se riuscissimo a venirci incontro, non aspettando di essere raggiunti, ma rispondendo sempre all’altro che viene verso di noi, mettendoci in marcia alla sola notizia del suo approssimarsi!  Diverso dall’andare incontro è il raggiungersi a metà strada che risulta un accordo studiato, un compromesso pensato, non un lasciarsi guidare dall’amore e dal desiderio che il nostro cuore ha dell’altro. Ci si mette in marcia, quando si riesce a fare da parte il proprio dolore, la sofferenza che il cuore sente, quando l’ira è fatta tacere dall’amore che desidera l’altro per quello che è, per la gioia che la sua presenza dona, per il sorriso che fa nascere sulle labbra e che pacifica il cuore.

Marta, sulle prime, sembra rimproverare il Maestro per la sua assenza che avrebbe evitato la morte del fratello – le sue parole “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” (v. 21) saranno le stesse di Maria nel v. 32– ma poi confessa subito la sua fede nella potenza di Gesù mediatore al cospetto del Padre, “Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà” (v. 22). Siamo lontani dall’incredulità dimostrata dai discepoli al principio del brano. Marta, invece, riconosce la profondità della relazione che Gesù vive con il Padre e sa che essa è sorgente di vita. Tutto ciò che Gesù chiede al Padre, lo ottiene sia perché il Figlio non chiede nulla che il Padre non sia già pronto a concedere, nel disegno della sua volontà, sia perché il Padre non nega nulla al Figlio del suo amore. Marta non ha il coraggio di chiedere qualcosa, ma confessa la potenza della preghiera di intercessione di Gesù e sembra preparare la lode che Egli rivolgerà a Dio, prima di richiamare in vita Lazzaro (v. 41). Gesù è il mediatore, “dalla voce più eloquente di quella di Abele” (Eb 12,24). Non solo è capace di sentire giusta compassione per noi, ma di intercedere a nostro favore come avvocato. Da questo certezza nasce la preghiera del discepolo che si associa alla voce di Gesù. Credere che Cristo è sempre vivo ad intercedere in nostro favore rende il nostro cuore più sereno.

Gesù non si ferma alle parole di Marta e cerca di condurla su un livello più profondo. Le chiede di compiere quel salto di fede, prima richiesto ai discepoli e da loro non attuato e incomincia ad annunciare la potenza della vita sulla morte “Tuo fratello risorgerà” (v. 23). La fede che le è richiesta non è in una vita futura – “So che risorgerà nella risurrezione all’ultimo giorno” (v. 24) – ma in Gesù. È Lui la vita e la resurrezione qui ed ora. Se alla samaritana Gesù disse “Sono io che ti parlo” (Gv 4,26) e al cieco nato “l’Hai visto, è colui che parla con te” (Gv 9,37), ora è Marta che deve confessare la sua fede in Gesù. Le sue parole di autorivelazione sono solenni: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?” (v. 25), il problema se Lui è vita e resurrezione per me. Dal dato oggettivo della fede bisogna passare al livello soggettivo della vita.
Ed è qui che la domanda di Gesù interpella tutti noi e la risposta diventa la verifica del nostro cammino. “Credi questo?” dice Gesù a ciascuno di noi, quasi a provare il nostro fidarci di Lui, l’abbondonare in Lui le nostre morte, affidare a Lui, Pastore grande e misericordioso, la storia passata e futura delle persone a noi care. Solo lo Spirito, come un giorno a Pietro, può far fiorire le parole della fede – “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo” – spingendoci a lasciare fare sempre e solo a Gesù nella nostra vita.

Sulla strada della Pasqua

Tutti siamo chiamati ad accogliere la morte, come condizione ineludibile della natura umana, ma, al tempo stesso, siamo chiamati a vivere ogni fase della nostra esistenza con Cristo che è l’Emanuele, il Dio con noi sempre. Egli è il pane vivo disceso dal cielo, l’acqua che ci disseta, la luce che illumina il nostro cammino impervio, il pastore che ci guida a pascoli ubertosi. Gesù è la vita e la resurrezione sempre per coloro che confidano in Lui e credono nella potenza del suo braccio santo. Per chi vive in Cristo anche la morte non deve far paura perché la sua mano ci salva da ogni pericolo. Per chi vive con Gesù e si sente legato a Lui da una profonda relazione di amore e di gioia, il buio dell’angoscia non può vincere.

La risurrezione di Lazzaro ci prepara alla Pasqua di Gesù. Un altro sepolcro, infatti, dovremo visitare e accanto ad esso sostare. Solo Gesù, primizia di quanti risorgeranno, è il chicco di grano che, caduto in terra, porta abbondanti frutti per la vita del mondo.




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