DAT

Un medico non può provocare la morte del paziente. Inganno e interessi dietro le Disposizioni Anticipate di Trattamento

medico

di Ida Giangrande

Chi può stabilire come e quando dire basta alla vita? Cosa si nasconde dietro la legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) attualmente in discussione alla Camera? Oggi per i lettori di Punto Famiglia ne parliamo con Alberto Gambino, presidente dell’Associazione Scienza & Vita.

Professor. Gambino in casi di particolare sofferenza, si parla spesso di “morire con dignità”. Come metterebbe in relazione il concetto di integrità della persona con il disegno di legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento attualmente in discussione alla Camera?

In questo disegno di legge il concetto di integrità della persona slitta nel concetto di integrità dell’autodeterminazione della persona, secondo un assioma fallace però: l’autodeterminazione è astratta e irreale negli individui che dispongono o rifiutano trattamenti terapeutici sul proprio corpo quando nessun evento traumatico si è ancora realizzato, come accade nella dinamica del c.d. testamento biologico.

Quali sono le zone d’ombra di questa legge?

La prima è, appunto, l’assolutezza dell’autodeterminazione che in questo disegno di legge vincola il medico anche quando ci sarebbero terapie che possono curare il paziente. Poi c’è il tema dell’inquadramento della nutrizione e alimentazione artificiale nell’ambito dei trattamenti che si possono rifiutare e addirittura interrompere: è, con tutta evidenza un modo per provocare la morte del paziente, specie se non ancorato ad una situazione di malattia terminale.

Secondo lei lo Stato o la Legge hanno l’autorità di regolamentare situazioni così drammatiche?

È ovvio che ciascuno risponderebbe sì o no a seconda della coincidenza o meno di quella legge con la propria visione del mondo; in realtà l’autorità di regolamentare le scelte di fine vita, gran parte degli Stati occidentali se la sono già presa. Prima o poi capiterà anche in Italia e dovremo evitare che una legge sul fine-vita finisca per avere una funzione “esemplare” verso chi è fragile, malato e in solitudine, spingendolo di fatto a farsi da parte per non sentirsi un peso, magari in un clima condizionato anche da politiche di risparmio della spesa sanitaria.

È corretto dire che il principio stesso di eutanasia contraddice il codice deontologico di ogni medico?

Sì, i codici deontologici, come quello italiano, prevedono espressamente che il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte.

Il dolore di molti disabili viene spesso mediaticamente strumentalizzato. Sembra che i poteri forti della società siano favorevolmente disposti ad accogliere una legge sul ‘fine vita’. Cosa si nasconde dietro? Ci sono interessi di natura economica?

Ci sono interessi che tra loro si intrecciano, fondamentalmente tre: quello più genuino, che è un interesse generalizzato a non soffrire; quello ideologico, di chi vorrebbe una società sradicata da principi e valori assoluti, come la salvaguardia della vita umana; infine, quello più subdolo, di matrice economica che valuta la vita umana a seconda del suo costo e di chi lo debba sopportare. La difficoltà, nello scrivere una legge sul fine vita, sta nel discernere e separare il buon grano dalla zizzania.

In una dichiarazione apparsa su Avvenire il 26 febbraio, il giovane Matteo Nassigh, un ragazzo di 19 anni che non parla, non cammina, non fa nulla da solo a causa di un’asfissia alla nascita, rispondeva a dj Fabo in questo modo: “Anch’io a volte ho creduto di voler morire, perché spesso gli altri non ci trattano da persone pensanti ma da esseri inutili”.

“Ci trattano da esseri inutili”, diceva e mi sembra quasi di avvertire in questa dichiarazione, il vero problema da risolvere: il vuoto delle istituzioni, l’indifferenza delle persone, l’esclusione sociale, la cultura della scarto a dirla come papa Francesco. Quanto potrebbe alleviare la sofferenza e la solitudine di queste persone, una diversa percezione della disabilità? Cosa possiamo fare per favorire la diffusione di una politica di inclusione sociale dei disabili e delle loro famiglie?

La corretta percezione della disabilità viaggia con il livello culturale e l’intelligenza di un popolo; una buona politica di inclusione sociale si radica in questi due fattori, ripeto: intelligenza e livello culturale.




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