Eutanasia

Mio marito è inchiodato ad un letto ma non ho mai smesso di amarlo

malattia genitore

(Foto: © Arman Zhenikeyev - Shutterstock.com)

Di Angela e Vincenzo

Cosa si nasconde dietro la malattia? È proprio vero che l’unico modo per ridare dignità ad un infermo è ricorrere all’eutanasia? Mentre in giro infuria la polemica sul fine vita, in redazione ci arriva la lettera di Angela e Vincenzo e della loro famiglia. Una storia di dolore, morte e resurrezione.

Mi chiamo Angela. La mia vita e quella della mia famiglia scorreva normalmente fino a qualche anno fa. Poi, all’improvviso, le cose sono cambiate e oggi sento il bisogno di raccontare tutto.

Ho conosciuto Vincenzo mio marito, quando eravamo ancora due ragazzi.. Nel ‘91 ci siamo sposati. Io avevo 22 anni e lui 27. Dopo due anni è arrivato Gaudenzio, il più grande dei nostri figli, e dopo sette anni la nostra seconda bambina, Angelica. Vincenzo era conduttore di impianti alla Fiat e io, moglie e madre a tempo pieno. Il desiderio di essere utile agli altri mi aveva portata negli ultimi anni ad essere catechista, presidente dell’Avis, impegnata politicamente e segretaria per un progetto regionale. La nostra vita procedeva tranquilla come quella di molte famiglie. Vincenzo amava la campagna e trascorreva alcune ore a prendersene cura. Ovviamente, come ogni coppia, anche noi avevamo i nostri problemi, ma niente di diverso da quello che vivono ordinariamente tutte le famiglie.

Nell’aprile del 2012 questa tranquillità ha subito una forte scossa. Vincenzo, mio marito, ha manifestato i primi sintomi della malattia: perenne stanchezza, mancanza di forza nelle gambe. I medici ci prescrissero degli integratori, ma io non ero tranquilla e decisi di prenotare una visita da un neurologo. L’elettromiografia e la visita accurata esclusero che si trattasse di sclerosi, ma evidenziarono una malattia del primo e del secondo motoneurone: era il 3 luglio e per la prima volta sentii parlare di SLA.

A lui dicemmo che si trattava di un’infiammazione ai muscoli. Era un uomo molto forte, alcune volte anche troppo forte. Talvolta, però, la forza nasconde semplicemente una grande debolezza. Sapere la verità lo avrebbe distrutto. Scelsi di portarne io il peso, insieme ai nostri figli.

Il 22 agosto andammo a Milano per fare una visita all’Istituto neurologico Carlo Besta. Ricordo ogni cosa di quel viaggio: la fatica, il primo episodio di disfagia, le mie urla, la sua rabbia per aver attirato le attenzioni di tutti e poi quella diagnosi definitiva e bruciante. Nei primi mesi del 2013 la situazione continuò a peggiorare. Vincenzo iniziò la cura di Rilutec e non tardò ad accorgersi che la sua non era una semplice infiammazione ai muscoli, tuttavia, non ne parlava con nessuno.

Una sera stette così male che dovetti portarlo in ospedale. Poche ore dopo lo portarono in rianimazione e il mio peggior timore si avverò: i dottori informarono Vincenzo che la sua malattia era la SLA. Quando riuscii ad entrare in rianimazione mio marito aveva già la Cpap (ventilazione meccanica a pressione positiva continua). La situazione era degenerata, c’era bisogno di un intervento di tracheostomia. Un buco alla gola. Vincenzo non avrebbe mai voluto, ma i medici mi fecero capire che era necessario. Ricordo bene cosa mi disse quando ebbi l’opportunità di parlare con lui: “Io accetto di fare la tracheostomia se tu rinunci a tutto. Tu rinunceresti al catechismo, all’Avis, alla politica e al tuo lavoro?”. In un attimo mi passò davanti tutta la mia vita, i sogni, le ambizioni, la libertà di decidere per sé. Le scelte coraggiose non si fanno senza paura. Io avevo paura. Avevo paura di non farcela. Avevo paura anche quando gli dissi: “Sì, se tu hai la forza di accettare questa malattia, io rinuncio a tutto!”. Il 7 marzo lui fece l’intervento e da quel momento abbiamo dovuto reinventare la nostra vita.

In ospedale mi fecero vedere come aspirare, come muoverlo, come nutrirlo, ma a casa ero sola, sola davanti a una malattia più grande di me.

Un volta, un amico gli chiese dove trovava la forza per andare avanti. Lui rispose nei figli e nella medicina, in cui spera ancora. Per me l’unica forza è Cristo. Solo in Lui io trovo l’energia per affrontare tutto questo ogni giorno. Non è stato sempre facile, le ferite che ci portavamo dietro come coppia, sembravano essersi amplificate. Ogni difetto si acutizza quando sei infermo e senti che anche il tuo spirito si sta atrofizzando. Lui era sempre stato un uomo molto geloso, irascibile, e in quel frangente la situazione sembrava essere peggiorata. Era difficile, talvolta insostenibile, ma quello era l’Anno della Misericordia e il mio sacerdote mi disse che dovevo perdonare qualcuno e che dovevo dirglielo perché solo così il nostro rapporto poteva veramente cambiare. Ho capito che era mio marito che dovevo perdonare per la rabbia, per le frustrazioni, per le offese. Tornata a casa gliel’ho detto. I ricordi non si cancellano, ma adesso riesco a guardarlo in modo diverso. Quando lo guardo ora, vedo Gesù, sono le sue piaghe che tocco. Solo se penso di offrire tutto a Dio, riesco a non impazzire.

Da quel marzo 2013 la mia vita e quella dei miei figli è cambiata. La malattia di Vincenzo mi ha costretto a scegliere di cambiare le infrastrutture di una casa che avevamo acquistato qualche anno prima, per adattarla a misura sua. Non è stato facile economicamente superare le spese che abbiamo dovuto sostenere. I miei figli sono spesso costretti a lasciare gli amici, la fidanzata, una festa, per correre a casa dal papà che ha avuto l’ennesima crisi respiratoria. Ma andiamo avanti, e quando abbiamo un po’ di tempo per fermarci, ci accorgiamo che la sofferenza ci ha resi più forti. Non ci sono più giorni speciali, perchè tutti a modo loro lo sono. Quando ti mancano, impari ad apprezzare le piccole cose. L’anno scorso abbiamo festeggiato 25 anni di matrimonio, abbiamo chiamato don Giuseppe, abbiamo benedetto le fedi e scattato una foto insieme. Niente di speciale, ma eravamo felici perché eravamo insieme.

Prego ogni giorno con Vincenzo. Guardiamo insieme la tv. Evito programmi che potrebbero generargli sofferenza. Lui non riesce più a comunicarmi niente, devo osservarlo attentamente per capire di cosa ha bisogno. Gli misuro la temperatura per capire se ha freddo, se c’è bisogno di un’altra coperta. Di notte dormo girata verso di lui e lo guardo per scorgere le sue necessità. Anche la mia salute è passata in secondo piano. Avevo una cisti alle ovaia e ho dovuto operarmi perché l’ho trascurata. I medici dicono che ne sono uscita viva per miracolo, ma per me il miracolo è Vincenzo. Il Signore continua a vegliare su di noi, inviando angeli custodi nella nostra vita. Non avrei potuto tenerlo a casa se i dottori dell’ospedale di Matera non mi avessero permesso di chiamarli ad ogni ora. Non ce l’avremmo fatta senza gli operatori che ogni giorno si prendono cura di lui. Il Signore non dà una croce senza dare anche gli strumenti necessari a portarla. Noi dobbiamo portarla con sacrificio e amore, sapendo di non essere soli in questo, rispettando e onorando sempre quella vita di cui siamo custodi.

Non voglio giudicare il gesto di dj Fabo e di quanti hanno deciso di porre fine alle sofferenze in questo modo. Rispetto la loro sofferenza e comprendo il loro dolore, ma sono certa che un gesto come questo nasconde una grande solitudine. Non hanno saputo riconoscere Cristo al loro fianco. Non hanno saputo riconoscere Cristo in loro.




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