Tempo di Pasqua in famiglia

9 Maggio 2017

9 Maggio 2017

L’unico titolo di onore

di don Silvio Longobardi

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,22-30)
Ricorreva, in quei giorni, a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente».
Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Il commento

Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (10,27). Gesù chiama i discepoli “mie pecore” (10,27): questo appellativo non suona bene nella nostra cultura, la pecora infatti è immagine della sottomissione passiva, comportarsi da pecora significa non avere personalità, fare quello che fanno gli altri. Nel linguaggio biblico ha tutt’altro significato. Presentandosi come il vero Pastore d’Israele, Gesù afferma la sua identità divina. Essere sue pecore significa dunque appartenere a Dio, far parte di quel popolo che Dio ha rivestito con la sua santità, il popolo che lungo i secoli comunica a tutti gli uomini grazia e consolazione, vita e gioia, pace e speranza. Essere pecore perciò non è un disonore ma una grazia. È un titolo di onore, l’unico che il credente può e deve desiderare, l’unico da cercare da custodire con tenacia e fedeltà.

Essere pecore di Gesù non significa seguire passivamente ma accogliere con docilità la Parola di Dio. Apparteniamo a Gesù nella misura in cui ascoltiamo con amore la sua Parola. I veri discepoli non danno credito ad altri maestri e non danno spazio e valore ad altre voci. Sono desiderosi di ascoltare Gesù, cercano di raccogliere e custodire ogni suo desiderio. L’uomo non rinuncia alla sua libertà né mette nel cassetto la sua intelligenza. Al contrario, si consegna con fiducia a Colui che lo conduce alla vita piena. Il primo dono dello Spirito è l’umiltà, primizia è premessa di una vita santa. L’umiltà è il timbro di Dio. Il Padre crea e nasconde nella creazione la sua grandezza. Il Figlio si presenta nell’umiltà della carne. Lo Spirito lavora nel silenzio e nel nascondimento. Ubi humilitas, ibi Deus. Se non vediamo l’umiltà, abbiamo motivi per dubitare delle buone intenzioni della persona. Se manca l’umiltà l’uomo rimane schiavo di se stesso, tutto teso a costruire la propria immagine e non ad essere un riflesso di Dio, un’immagine della divina bontà. È la più grande schiavitù ed è spesso fonte di una disgrazia per se stessi e per gli altri. È la grazia che oggi chiediamo.



Briciole di Vangelo

di don Silvio Longobardi

s.longobardi@puntofamiglia.net

“Tutti da Te aspettano che tu dia loro il cibo in tempo opportuno”, dice il salmista. Il buon Dio non fa mancare il pane ai suoi figli. La Parola accompagna e sostiene il cammino della Chiesa, dona luce e forza a coloro che cercano la verità, indica la via della fedeltà. Ogni giorno risuona questa Parola. Ho voluto raccogliere qualche briciola di questo banchetto che rallegra il cuore per condividere con i fratelli la gioia della fede e la speranza del Vangelo.


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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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