V Domenica di Pasqua - Anno A - 14 maggio 2017

Consegnare le persone che amiamo nelle mani di Dio

preghiera

di fra Vincenzo Ippolito

Consegnare nella preghiera significa non sentirsi proprietari della vita degli altri, ma restituire il dono ricevuto dal Signore, come Abramo. Nella consegna ci si affida e si affida, sapendo che tutto è possibile a Lui solo.

Dal Vangelo secondo Giovanni (14,1-12)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».
Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.
Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

 

Le ultime due domeniche prima della solennità dell’Ascensione del Signore sono dedicate all’ascolto di brani evangelici tratti dagli ultimi discorsi di Gesù prima della sua Pasqua. Si tratta di pagine, sempre tratte dal Vangelo secondo Giovanni, che, riportandoci all’ultima cena, ci offrono i cardini dell’insegnamento di Gesù, chiarendo cosa significhi divenire suoi testimoni, con la forza dello Spirito che a Pentecoste viene ad investirci dall’Alto.

Nell’intimità del cenacolo di Gerusalemme

I Vangeli delle domeniche del Tempo pasquale hanno sempre come scenario la città di Gerusalemme, pur se con rilevanti differenze. Cambia, infatti, non sono il luogo degli avvenimenti narrati, ma soprattutto il tempo, perché se nelle prime tre domeniche gli Evangelisti ci hanno mostrato Gerusalemme dopo la resurrezione di Gesù, dalla scorsa domenica (cf. Gv 10,1-10) siamo ritornati agli eventi precedenti la Pasqua, nel tempio, otto giorni fa, nel cenacolo oggi.

Il brano odierno è tratto dai discorsi di addio (cf. Gv 13-17), nei quali il Maestro affida ai discepoli, dopo la lavanda dei piedi, le sue ultime parole, quasi come un testamento. Nella sequenza della narrazione abbiamo la lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-19), la predizione del tradimento di Giuda (cf. Gv 13,21-30), il dono del comandamento nuovo dell’amore (cf. Gv 13,31-35) e l’annuncio del rinnegamento di Pietro (cf. Gv 13,36-38). Si comprende bene come Gesù, nel cuore della sua comunità ferita dalla debolezza e dal timore, non abbia paura di donarsi nell’eccesso del suo desiderio di rivelare il volto misericordioso del Padre e di offrire in abbondanza la vita. Proprio la fiamma dell’amore lo spinge a confidarsi ai suoi senza paura, anche vivendo lo scandalo di non essere capito, ben sapendo che la sua parola, ora soltanto ascoltata, verrà compresa alla luce della sua Pasqua.

Vivere l’intimità è una sfida nella relazione di coppia ed in famiglia, un’avventura che spesso ci trova impreparati a gestire freddezze che non ci si aspettava. Porre gesti di amore e di donazione mentre l’altro/a sembra non essere interessato/a a noi o, ancor peggio, sta facendo le valige per uscire fuori dalle situazioni di sofferenza e di dolore che noi viviamo e a cui non vuole prendere parte per condividere e portarne il peso, rappresenta un dolore grande, simile a quello che Gesù sente nell’orto del Getsemani, quando avverte con lucido realismo, l’abbandono e la solitudine dei suoi eletti. Il Maestro però non si ritrae e continua a vivere la bellezza dell’intimità, dell’amicizia – Egli stesso chiamerà i suoi amici, quei suoi pronti a scappare a gambe levate dinanzi alle spade di coloro che sono venuti a catturare il Maestro – cosa questa strana per noi, ma vero per Dio. Il Cristo parla il linguaggio dell’amore, mentre intorno a sé c’è diffidenza, incomprensione e desiderio di terminare il discepolato di quell’Uomo che sembra aver seminato soltanto illusioni.

È difficile per noi seguire Gesù su questa strada, siamo abituati a fuggire come i due di Emmaus, mai a perseverare nel dialogo e nel dono, mentre l’altro/a batte ritirata. Per noi è difficile – meglio dire impossibile? – vivere l’intimità, la stessa che Cristo dona nel cenacolo, quando la persona che ha scelto di condividere con noi la vita si chiude nel proprio guscio e non solo non riesce a guadare in faccia noi con sincerità, ma persino se stessa, per rendersi conto di essere sul punto di rinnegare l’amore promesso, perché la paura e l’egoismo prendono il sopravvento. È il guadare verso Gesù che rende il nostro amore fedele e perseverante nella prova, lo sguardo del Maestro rafforza la nostra determinazione di attraversare la sofferenza, quando umanamente sembra che il sole sia definitivamente tramontato. Guardare a Lui per fare come Lui, nella forza del suo Spirito che Egli in abbondanza ci dona. Cristo, nella sera della cena, supera il primo ostacolo, rappresentato dal sapere che l’orizzonte del cuore di Giuda non è più la sua parola, ma la sete del denaro, passa incolume il secondo stadio, quello di Pietro che non sarà pronto a dare la vita, così come egli crede e dice (cf. Gv 13,38), ma a misconoscere il Maestro per paura di essere anche lui catturato e condannato dal suo stesso tribunale. Passare la porta del rinnegamento intravisto e quella del tradimento paventato – passarla nella consapevolezza è già un prepararsi ad attraversala nella realtà – non frena Gesù dalla sua volontà di amare i suoi sino alla fine (cf. Gv 13,1). Parla a dei discepoli che non lo capiscono? Non è un problema per chi ama veramente. Sopporta l’incredulità di chi ascolta e per ora non intende o non vuole? Non è un problema perché chi ama sa attendere i tempi di maturazione dell’altro.

Il cenacolo è la scuola del vero amore, dove l’intimità è offerta senza la condizione che sia ricambiata, dove la freddezza del cuore trova nell’altro un roveto che non si consuma, dove la speranza che il tempo farà la sua parte prevale sull’idea di aver sbagliato tutto. È nel cenacolo che noi dobbiamo rimanere, nella contemplazione di Gesù, per impara da Lui a prendere e portare il suo giogo. Il suo peso, infatti, è dolce, il suo carico leggero (cf. Mt 11,30).

Vincere il turbamento con la fede e la speranza

Gesù conosce bene il cuore dei suoi e non fa finta di non vedere, come spesso facciamo noi, per non soffrire, andando avanti perché il solo pensiero di dover intervenire, mettendo le carte in chiaro, ci mette in agitazione e ci fa mancare le forze. “Non sia turbato il vostro cuore” (Gv 14,1a) dice Gesù. Dinanzi alle novità il nostro cuore viene meno, i problemi che sorgono nella vita ci agitano, ci sentiamo aprire la terra sotto i piedi, quando avvertiamo che i nostri desideri e progetti vagheggiati non si realizzano. Anche i discepoli speravano in un epilogo diverso, dimostrando di non essere capaci di compiere quel salto di qualità che li avrebbe portati alla condivisione del modo che Dio ha di vedere la storia e di agire negli eventi degli uomini. Quando il discepolo non comprende o non vuol capire il modo di rivelarsi di Dio, la strada che Egli indica e percorre per donare vita e salvezza – che gli appare stoltezza e follia, cf. 1Cor 2,14 – il suo cuore inizia a scuotersi, a turbarsi, a temere. Nelle situazioni più dolorose della vita e quando il cuore nostro è scosso per la paura e lo spavento, noi moriamo lentamente per dissanguamento, i nostri sogni si disperdono, i desideri si dileguano sotto i raggi della quotidianità che tutto brucia. L’unico antidoto perché il cuore non muoia sotto i colpi del senso di fallimento, di una situazione di coppia o di famiglia che sembra insuperabile, l’unica luce che può illuminare il buio dove sembra incombere la fine è la fede, il credere nella potenza e nell’azione di Cristo, Signore e Salvatore nostro. È questa l’unica via di uscita nel mare di dolore che l’uomo sperimenta durante la prova. È Gesù ad indicare questa strada: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1b). La fede è l’unica spiaggia per chi si trova, con la navicella della sua esperienza, a dover combattere contro la furia del mare. Solo la fede può sostenerci nella battaglia non solo contro i nemici esterni, ma anche contro le voci interiori che, peggiori delle forze che imperversano fuori, premono inesorabilmente sulla mente e sul cuore per condurli alla resa. Sperare contro ogni umana speranza, credere contro ogni segno umano di scoraggiamento è la strada che Gesù per primo percorre e che indica ai suoi discepoli per vivere la fedeltà all’amore ricevuto. In quei momenti il nostro cuore deve accogliere come balsamo la parola del salmista “Se contro di me sia accampa un esercito, il mio cuore non teme, se contro di me infuria la battaglia anche allora ho fiducia”. È in quei momenti che la parola del Signore deve scendere nel cuore come olio per guarirne le ferite “Perché ti rattristi, anima mia,perché su di me gemi?Spera in Dio: ancora potrò lodarlo,lui, salvezza del mio volto e mio Dio” (Sal 42,12).

Le nostre famiglie sono nate dal sacramento nuziale, da un gesto di fede profonda che ci ha portati a riconoscere Dio all’opera nella nostra vita, come anche nella persona dell’altro/a. Quella fede che ci ha condotti a vedere con gli occhi di Dio la realtà, non deve venir meno nella prova, ma, anzi deve accogliere lo sviluppo progressivo della grazia del sacramento e crescere. L’essere una sola carne non è un dono di un giorno solo, ma si estende a tutta la vita degli sposi – così recita anche la Preghiera eucaristica durante il Rito del Matrimonio “Ricordati dei tuoi figli … che in Cristo hanno costituito una nuova famiglia, piccola Chiesa e sacramento del tuo amore, perché la grazia di questo giorno si estenda a tutta la loro vita” – si accresce di giorno in giorno, a condizione che gli sposi offrano la loro docilità all’azione dello Spirito di Cristo in loro e tra loro. Non basta la fede del primo giorno, è necessario crescere nella fede, sapendo che la persona che Dio mi ha donato è con me, non sono mai solo ed insieme camminiamo perché è il Signore a sostenerci e ad aprirci strade nuove.

La vita cristiana è scandita dalla fede come abbandono nelle mani del Padre e di Gesù, dal momento che, aveva confidato Egli stesso “Nessuno le [le pecore] può strappare dalle mie mani … nessuno le può strappare dalle mani del Padre mio” (Gv 10,28.29). Essere nelle mani di Dio è il senso della nostra vita, perché nell’abbandono confidente sta la nostra salvezza (Is 30,15). Ogni giorno siamo chiamati al gesto più solenne della nostra vita, quello che Gesù ci insegna nel sacrificio della sua croce, la consegna di tutto noi stessi nelle mani del Padre, sapendo che – così pregava san Francesco d’Assisi – Tu sei il custode e il difensore nostro. Fidarsi di Dio, credere che Egli è Padre provvido e buono, sentirlo accanto nelle situazioni della nostra vita, rivolgerei a Lui in ogni momento della nostra giornata: questo significa seguire l’esempio di Gesù. Abbandonarsi al Padre nel buio e nell’incomprensioni non è semplice, ma è proprio allora che dobbiamo sperimentare la vicinanza di Gesù, Egli, uomo come noi eccetto che nell’esperienza del peccato, è capace di sentire giusta compassione per noi e di pregare il Padre perché si muova a compassione e ci doni la sua forza. Solo la fede, come fiducia incondizionata, può muovere Dio a compiere meraviglie per la nostra vita.

Ogni giorno siamo chiamati a consegnare noi stessi e le persone che amiamo nelle mani di Dio e a consegnarci gli uni nelle mani degli altri. È questo il senso della benedizione che i genitori devono fare ai loro figli, ma anche delle parole di benedizione che dobbiamo scambiarci più volte nella giornata. Solo il Padre può custodire le persone che amiamo nel migliore dei modi, solo Lui può proteggerle e seguire il loro quotidiano affanno. Consegnare nella preghiera significa non sentirsi proprietari della vita degli altri, ma restituire il dono ricevuto dal Signore, come Abramo. Nella consegna ci si affida e si affida, sapendo che tutto è possibile a Lui solo.

Cristo è tutto per noi

Il momento che si sta compiendo nel cenacolo è uno dei più delicati. Le espressioni usate da Gesù velano di tristezza il volto dei discepoli, chiamati dal Maestro a sapere andare oltre le parole e a tenere fisso lo sguardo sulla casa del Padre. Spesso i nostri pensieri – ma capita anche con i ragionamenti che si fanno nelle nostre realtà ecclesiali – lambiscono la terra, ma non si elevano al cielo per squarciarlo. I nostri discorsi sono troppo orizzontali, spesso mancano dell’attesa perseverante del regno di Dio. Gesù introduce una categoria che i discepoli non comprendono facilmente, e noi con loro, quella della “casa del Padre” dove ci sono molti posti e dove il Signore ci precede. Rendere la fede una sola dimensione umana, un operare nella storia per alleviare le situazioni di disagio dei nostri fratelli è cosa lodevole, ma diviene filantropia se nell’altro non si contempla Cristo e se non si considera che l’orizzonte del nostro operare è quel regno di giustizia e di pace che Gesù istaurerà alla fine della storia, in modo definitivo. Allora Cristo ritornerà e ci prenderà con sé. Il Maestro vuole, infatti che “dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3), ovvero che condividiamo la sua gioia nel cuore del Padre per vivere in eterno il mistero di Dio amore.

Dobbiamo ricordare spesso che l’eternità è l’orizzonte del compimento che attendiamo, la comunione piena con Dio in cielo, nel suo regno è la meta del cammino che compiamo. Dobbiamo riaccendere la speranza che la nostra esistenza è una preparazione, un viaggio verso l’incontro con Dio, per la mediazione di Cristo che prepara un posto, ci prende con sé e condivide per sempre la sua gioia con noi. Proprio oggi che si cerca di nascondere la morte e di anestetizzarla, facendo finta che non esista, proprio oggi siamo chiamati, quali credenti nel Signore risorto, a dare ragione della nostra speranza nella vita futura. La resurrezione è il cardine della nostra fede – “Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati”, dice Paolo in 1Cor 15,17 – e di questa dobbiamo rendere ragione non solo con le parole, ma soprattutto con la certezza fiduciosa “dei cieli nuovi e della terra nuova, dove avrò stabile dimora la giustizia” (2Pt 3,13).

L’attesa del regno che ci attende dopo la morte determina anche il nostro cammino che ha la casa del Padre come meta. Difatti le parole di Gesù provocano sconcerto nei discepoli. Il suo “Dove io vado, voi conoscete la via” (Gv 14,4) conduce Tommaso a domandare dei chiarimenti: “Signore, non sappiamo dove vai come possiamo conoscere la via?” (Gv 14,5). La confessione del discepolo è sincera, non hanno compreso la casa del Padre di cui Egli ha parlato, le sue parole andare a preparare un posto, il ritornare per prenderli perché rimangano con lui appaiono strane ed incomprensibili. Gesù non si mostra meravigliato per la domanda di Tommaso, ma ben volentieri spiega la strada maestra per giungere lì dove Egli è diretto e ogni discepolo seguendo Lui. “Io sono la via, la verità e la vita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Gesù non è autoreferenziale, tutt’altro. Ogni sua parola e gesto rimanda al Padre perché da Lui proviene. Egli è “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,20), la porta da attraversare per trovare pascolo in abbondanza – cf. Gv 10,7-9, Vangelo della scorsa domenica – l’unico mediatore tra Dio e gli uomini (cf. 1Tim 2,5). Esiste una sola via per giungere a Dio Padre e questa strada è Gesù, è Lui “la via nuova e vivente” (Eb 10,20). Ecco perché santa Chiara scrive nel suo testamento “Il Figlio di Dio si è fatto nostra via”, dal momento che solo in Lui noi vediamo il Padre. Strade alternative non esistono perché “Dio nessuno l’ha mai visto. Il Figlio unigenito che è Dio nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Esiste una sola verità e questa è Gesù, Lui solo svela l’uomo all’uomo e gli fa comprendere la sua altissima vocazione, gli rivela come la sua creaturalità sia possibilità di relazione con Dio e con i fratelli. Cristo non è solo la verità razionale cercata dai filosofi – se così fosse esaurirebbe solo il desiderio della mente di appagarsi, non del cuore di godere del sommo ed eterno Bene! – ma la verità esistenziale, perché in Lui “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28). Camminando nella via nuova del Risorto, gradualmente assimiliamo la verità del nostro essere immagine e somiglianza sua e troviamo la vita. Esiste, infatti, una sola vita e questa è Gesù. Egli stesso lo dice “Chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Se Gesù è la nostra vita, è necessario essere legati a Lui come i tralci alla vite, perché chi si allontana da Lui perisce, il bene dell’uomo è stare vicino a Dio (cf. Sal 72,27-28).

Le tre categorie che Giovanni utilizza – via, verità e vita – servono a dire che Cristo è tutto per noi, senza di Lui non possiamo fare nulla, ci manca il respiro, il senso vero e pieno dell’esistenza, l’orizzonte della nostra gioia. Pietro, rendendosi conto di questo, dopo il discorso sul pane di vita, nella sinagoga di Cafarnao, alla domanda di Gesù “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67), risponde “Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna. Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,69). È questa la professione di fede che deve fiorire sulle nostre labbra, come atto di abbandono e consegna di noi stessi a Lui. Solo fidandoci della sua mano potente, Cristo Signore potrà operare la nostra salvezza ed essere, nelle situazioni più avverse della nostra vita, la sorgente della nostra gioia.

O Cristo, nostro unico mediatore, Tu ci sei necessario:
per vivere in Comunione con Dio Padre;
per diventare con te, che sei Figlio unico e Signore nostro, suoi figli adottivi;
per essere rigenerati nello Spirito Santo.
Tu ci sei necessario,
o solo vero maestro delle verità recondite e indispensabili della vita,
per conoscere il nostro essere e il nostro destino, la via per conseguirlo.
Tu ci sei necessario, o Redentore nostro,
per scoprire la nostra miseria e per guarirla;
per avere il concetto del bene e del male e la speranza della santità;
per deplorare i nostri peccati e per averne il perdono.
Tu ci sei necessario, o fratello primogenito del genere umano,
per ritrovare le ragioni vere della fraternità fra gli uomini,
i fondamenti della giustizia, i tesori della carità, il bene sommo della pace.
Tu ci sei necessario, o grande paziente dei nostri dolori,
per conoscere il senso della sofferenza
e per dare ad essa un valore di espiazione e di redenzione.
Tu ci sei necessario, o vincitore della morte,
per liberarci dalla disperazione e dalla negazione,
e per avere certezze che non tradiscono in eterno.
Tu ci sei necessario, o Cristo, o Signore, o Dio-con-noi,
per imparare l’amore vero e camminare nella gioia e nella forza della tua carità,
lungo il cammino della nostra vita faticosa,
fino all’incontro finale con Te amato, con Te atteso,
con Te benedetto nei secoli.

(Card. G.B. Montini, futuro papa Paolo VI, Lettera pastorale alla diocesi di Milano 1955)

Il desiderio di conoscere l’altro in verità

L’unione profonda che Gesù vive con il Padre è sottolineata ancor meglio nella riposta che il Maestro rivolge ad una seconda domanda, questa volta non di Tommaso, ma di Filippo. Si può anche vivere gomito a gomito con Cristo – è questo il dolce rimprovero che Egli sembra rivolgere al suo discepolo – senza comprendere il mistero della sua identità, si può vivere insieme anche tanto tempo, senza per questo conoscersi sul serio, rompendo la corazza del formalismo per entrare, mediante l’amore, nella vita dell’altro/a. Mai ci capiti di non mettere a frutto l’intimità tra noi e con Cristo. È questa la lezione che impariamo oggi. Solo chi accoglie la proposta di comunione, può rispondere con l’amore all’offerta dell’amore.

 




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1 risposta su “Consegnare le persone che amiamo nelle mani di Dio”

Quando siamo nello sconforto e nella tristezza ricordiamo le parole di Gesù ” non sia turbato il vostro cuore,abbiate fede in Dio e abbiate fede in me”

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