VI Domenica di Pasqua - Anno A - 21 maggio 2017

Un amore senza comandamenti perde la propria identità

coppia

di fra Vincenzo Ippolito

È l’amore a liberarci da ogni tipo di egoistica schiavitù, è l’amore che purifica il nostro cuore da ogni desiderio di possesso, è la volontà di amare che ci spinge a passare, come attraverso le doglie del parto, la sofferenza del rinnegamento di sé, del proprio io autoreferenziale ed egoista, per costruire su Cristo la propria identità di creatura redenta.

Dal Vangelo secondo Giovanni (14,15-21)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.

Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui». 


L’ultima domenica del Tempo pasquale – la prossima celebreremo il mistero dell’Ascensione del Signore – continua ad offrirci un brano tratto dai discorsi di addio del Vangelo secondo Giovanni (Gv 13-17). In essi il Maestro introduce i suoi nella rivelazione di Dio che è Padre ed ha cura di tutti i suoi figli. Non è semplice per i discepoli portare il passo con Gesù, il loro cuore è triste per l’annuncio della dipartita del Maestro e anche le risposte alle domande presentate da Tommaso e da Filippo – lo abbiamo visto la scorsa domenica, cf. (Gv 14,1-12) – non vengono comprese nel giusto modo da parte dei presenti. Chiediamo al buon Pastore che ci conduca fuori dallo steccato di una comprensione solo formale della Parola sua, aprendoci all’intelligenza della Scrittura e al dono del suo Spirito, nostro Paraclito nel cammino vero il Regno.

Dall’amore la fedeltà ai comandamenti

Il brano evangelico odierno, saltando due versetti (Gv 14,13-14) continua il discorso iniziato da Gesù nella scorsa domenica. Egli, via, verità e vita, volto visibile del Padre (cf. Gv 14,1-12), promette di non lasciare orfani i suoi e di inviare lo Spirito perché animi i loro cuori nella fede e nell’osservanza della sua parola.

La prima cosa che notiamo nel primo versetto della pericope evangelica è il rapporto strettissimo tra amore e comandamento. Dice, infatti, Gesù “Se mi amate, osservate i miei comandamenti” (Gv 14,14). Si tratta della prima tappa di un itinerario graduale di crescita che il Maestro presenta ai suoi perché vivano nella certezza della presenza e dell’azione sua. La parola che Egli rivolge loro getta una luce nuova sull’impegno morale di ogni discepolo. Figli del razionalismo, siamo solitamente portati a vivere la fede come un insieme di norme da osservare e anche il Vangelo, pur volendo rifuggire la casistica dei farisei, diviene per noi una siepe di prescrizioni e di precetti non semplici da osservare. Il primato nella vita cristiana, sembra dire Gesù, è l’amore, sempre e solo l’amore. Non possiamo ridurre il cristianesimo ad una serie di norme che, per quanto giuste e rette, non risaldano il cuore e non donano forza alla vita. Il cristianesimo è Gesù Cristo, la sua Persona vivente ed operante nella nostra storia, il suo amore di misericordia che getta in fondo al mare il nostro peccato e ci dona la grazia e la forza di camminare alla sua presenza e di essere testimone della sua resurrezione. Non possiamo mettere l’accento sui comandamenti, perché chi può dire di avere la forza di osservare la parola di Gesù? Chi riesce, con le sole sue forze, ad obbedire alla voce del Signore? Chi può essere talmente bravo da superare perfino san Paolo che avvertiva in sé la frattura, insanabile per noi, tra i desideri e la realtà, tra ciò che si vuole con tutto se stessi e quanto si pensa, sotto l’incomprensibile ed indomabile forza della propria umanità ribelle?

Il farmaco per la nostra guarigione è nel sacchetto di mirra del Cuore di Cristo, nostro mediamente è solo e sempre l’amore che Egli nutre per noi. Al suo amore siamo chiamati a credere – “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16) confida Giovanni, il discepolo amato dal Signore – abbandonandoci a questo forza divina con tutto noi stessi. Siamo chiamati da Gesù ad entrare consapevolmente ed esperienzialmente – nella Scrittura, la conoscenza non è di natura intellettuale se non passa attraverso la viva nostra carne – nell’orizzonte dell’amore. Comprendere la parola di Gesù, accogliere la sua proposta di vita, assecondare in noi la logica del dono, comporta la conversione delle nostre categorie perché l’amore di cui Gesù parla non è il sentimento naturale che rapisce il cuore, desiderio incontrollabile come un cavallo a briglie sciolte che si calma solo se soddisfatto nelle condizioni che egli detta e pretende. L’amore che Gesù ci dona e che vive fino alla croce è la capacità di orientare al bene dell’altro tutta la propria vita. L’amore, infatti, è l’armonia tra la mente ed il cuore, tra il sentimento e la volontà, il pensiero che si traduce in azione perché, sotto la forza e la necessità dell’amore che porta in sé, non potrebbe fare altro, senza rinnegare il proprio essere, perché l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, realizza se stesso solo nell’amore. Non è forse l’amore che ha spinto il Verbo eterno a non considerare “un privilegio l’essere come Dio” (Fil 2,6) e a lasciarsi bruciare sulla croce come un olocausto dalla fiamma viva del desiderio di salvare gli uomini?

Se vogliamo essere discepoli di Gesù, dobbiamo imparare da Lui l’amore, prendendolo come modello. Quanto spesso confondiamo l’amore con l’essere amati, stimati, considerati ed accolti! Quante volte crediamo che sia giusto pretendere attenzione e cura, illudendoci di amare, senza accorgerci che stiamo assecondando unicamente il nostro egoismo! Gesù dice “Se mi amate …” l’amore è libertà di scelta, nessuna costrizione c’è in esso, nessuna pretesa, perché chi ama, attende la libera risposta dell’altro, facendo solo una cosa, amandolo senza pretese. Se Gesù, con il suo dire, sottolinea la libertà dell’amare, il discepolo, accogliendo Cristo e rispondendo all’amore sperimentato con la totalità del proprio essere – questo è amore, totalità! – vive la libertà nell’amore, perché è l’amore a liberarci da ogni tipo di egoistica schiavitù, è l’amore che purifica il nostro cuore da ogni desiderio di possesso, è la volontà di amare che ci spinge a passare, come attraverso le doglie del parto, la sofferenza del rinnegamento di sé, del proprio io autoreferenziale ed egoista, per costruire su Cristo la propria identità di creatura redenta. Non esiste, nella sequela di Gesù, la pura osservanza dei precetti, senza relazione amorosa con Lui. Questo non è cristianesimo, ma legalismo religioso. La legge per la legge non esiste per il discepolo di Cristo, perché i comandamenti, oltre ad essere leggi di libertà, nascono dalla necessità che l’amore sente di vivere nella fedeltà. I comandamenti sono il segno della fedeltà che l’amore donato richiede e che l’amore liberamente offerto sente di vivere per essere e rimanere se stesso. Un amore senza comandamenti perde facilmente la propria identità, perché i comandamenti non snaturano l’amore, ma arginano i desideri del cuore umano donandogli quell’orizzonte di azione che la volontà, con il tempo, può facilmente perdere di vista. Non basta amare, neppure essere educati nell’amore, ma è necessario accogliere la propria strutturale debolezza e vigilare sul proprio cuore perché nessun ladro cerchi, una volta entrato furtivamente nell’ovile della propria interiorità, di “rubare, uccidere e distruggere” (Gv 10,10). L’amore come sentimento ha bisogno del concorso della volontà per approdare alla totalità, in caso contrario, passata l’infatuazione, terminerà anche la gioia del dono di sé.

È significativo come Gesù, nelle parole che rivolge ai discepoli, unisca amore e comandamento, svincolando la legge da ogni pretesa umana di osservarla e compiendo quel passaggio che in Paolo sarà ancor più chiaro dalle opere della fede alla fede come fiducia in Cristo. È importante, infatti, liberare i comandamenti dalla nostra pretesa di osservarli con le nostre sole forze, per rientrare nel vero alveo che già in antico Dio avevo desiderato, quello dell’alleanza, della fedeltà e della comunione. Il discepolo deve sapere che la forza per osservare i comandamenti non sta nella sua volontà, ma nella capacità di amare che Dio gli dona, semplicemente amandolo. L’amore porta l’uomo a vivere i comandamenti perché lo introduce nell’orizzonte dell’amore che Dio nutre per Lui e che Cristo gli rivela. Il discepolo che si sente amato dal Padre in Cristo, che sperimenta nella croce la prova più grande di quanto il Signore lo ami e si doni a lui gratuitamente, è reso capace dallo Spirito di vivere nell’amore, ricambiandolo con la stessa intensità perché è Dio ad amare in lui. Tale circolarità di amore lo steso Giovanni esprimerà nella sua Prima Lettera: “Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi” (1Gv 5,1-3)

La preghiera di Gesù

Se dall’amore all’osservanza dei comandamenti è il primo passaggio che Gesù propone ai discepoli nell’ultima cena, il secondo, ad esso direttamente collegato, è il riconoscere la presenza e l’azione dello Spirito, il Paraclito che rimane sempre con noi (cf. Gv 14,16). Anche in questo caso l’Evangelista ben struttura il discorso del Maestro, chiarendo le relazioni delle Tre persone divine in ordine alla salvezza dell’uomo. Si tratta di un progressivo approfondimento che Gesù presenta ai suoi perché entrino consapevolmente nel circolo della vita trinitaria. Il dono dello Spirito Santo che il Padre concede è, infatti, la pienezza dell’amore che lo lega al Figlio e che, nel nome e per la preghiera sua, viene copiosamente effuso sui discepoli.

Il Maestro, quando vede il suo discepolo rispondere al dono del suo amore ed osservare i suoi comandamenti, prega il Padre perché mandi “un altro Paraclito” (Gv 14,16). La sorgente dei doni è il Padre, è Lui che ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito per l’amore sviscerato che vive nei riguardi della sua creatura – scrive san Giovanni “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”, Gv 3,16 – e proprio il suo Figlio Gesù è per l’uomo il primo Paraclito, il Consolatore che lo sostiene con la sua presenza, lo accompagna con la sua vicinanza, lo rassicura con la sua voce. Gesù, il Figlio di Dio resosi nel grembo di Maria, nostro fratello e redentore, è tutto per l’uomo, l’acqua che lo disseta e la luce che fuga la notte, il pane vivo che dura in eterno, la vita e la resurrezione per chi crede, il Pastore e la porta, il servo che lava i piedi e l’agnello che sgozzato sulla croce purifica tutti con il prezioso suo sangue. Lui, la verità e la vita, è il Vivente, Colui che passa attraverso la morte e tutti riconcilia con il Padre. L’uomo progressivamente scopre, nella relazione con Cristo, che solo Lui ha parole di vita eterna ed è necessario passare attraverso di Lui per trovare accesso al Padre. Per Gesù, Dio concede tutti i suoi doni, come anche attraverso il cuore di Cristo salgono al cospetto del Padre tutte le suppliche che l’umanità sofferente eleva al Cielo. 

È così rassicurante sapere che Gesù prega per noi il Padre, quando vede che rispondiamo all’amore suo con una vita che si lascia plasmare dall’osservanza dei comandamenti come cifra dell’amore che nutriamo per Lui e che Egli riversa in noi. Quando Gesù vede che il dono suo in noi non è vano, quando la sua grazia non è da noi sciupata, ma che i talenti da Lui a noi affidati vengono fatti trafficare nel migliore dei modi – è quanto Paolo confida ai Corinzi “Per la grazia di dio sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana” (1Cor 15,10) – quando il nostro essere legati alla vera vite ci porta ad essere tralci fruttiferi, di buon grado Gesù è disposto a elargirci altre grazie e a donarci una familiarità ancora più profonda con Lui.

La nostra relazione con Cristo è troppo spesso scandita da richieste. È come se conoscessimo, in modo egoistico, il solo linguaggio della domanda, come fanno i bambini nei riguardi dei propri genitori. Gesù ci insegna a chiedere prima il regno di Dio e la sua giustizia e a vedere che tutto in seguito ci verrà dato in aggiunta (cf. Mt 6,33). Un rapporto scandito dal solo volere e chiedere è inficiato e non cresce. Dovremmo, prima di tutto, imparare un dialogo con Dio scandito dai differenti registri comunicativi, lode e ringraziamento, supplica e richiesta di perdono, contemplazione ed ascolto. Tra questi anche la domanda delle cose che abbiamo a cuore è importante, ma non è certo l’unico modo di parlare con Dio. Altro aspetto egualmente significativo è chiedere al Signore che ci doni la consapevolezza di noi stessi, del nostro essere immagine e somiglianza sua, donandoci di guardarci come Lui ci guarda, senza aver paura delle ombre che Egli solo riesce a vedere e rallegrandoci per il bene che, con la sua grazia, riusciamo ad operare. Vedersi in verità è una grazia grande da chiedere continuamente al Signore perché la verità di noi stessi ci rende liberi nella relazione prima con noi stessi, poi con Dio e con gli altri. Solo allora, non difenderemo le nostre maschere e saremo in grado di guardare come guarda Dio, con quell’amore che plasma e rende autentica la verità. Più mi guardo come mi guarda Dio, più sarò in grado di vedere anche i doni che Lui mi ha benignamente concesso. Come posso chiedere a Dio i suoi doni, senza prima fare un esame di coscienza su come ho messo a frutto quanto Egli in precedenza mi ha concesso? Sarebbe come chiedere di mangiare altro pane, quando ancora abbiamo tra le mani quello che ci è stato dato prima.

Non bisogna essere ingordi della grazia di Dio, neppure dei suoi doni. Il Signore con noi utilizza questa pedagogia, prima ci concede alcuni dei suoi doni e, quando vede che noi li abbiamo saputi mettere a frutto, ne elargisce altri di più grandi e prega il Padre perché apra la sua mano e sazi la fame di ogni vivente. È necessario entrare nella pedagogia di Dio e imparare da Lui anche la misura nei nostri rapporti, soprattutto nel sapere calibrare i doni da concedere ai figli. La nostra, il Papa lo ricorda continuamente, è la cultura dello scarto e dello spreco e questo può avvenire anche nella vita spirituale. Ecco perché bisogna sempre mettere a frutto la grazia che il Signore ci dona giorno per giorno, senza vivere la pretesa di richiedere altra manna dal cielo, quando ancora dobbiamo consumare quella che abbiamo in precedenza raccolto. Un serio esame di coscienza dovrebbe aiutarci anche nella nostra preghiera di domanda: Ho messo a frutto i talenti che il Signore mi ha dato? Chiedo una cosa giusta o lo faccio solo per il gusto di ricevere altro dal Signore? Il mio cuore è capace di far fruttificare la grazia che io sto chiedendo con tanta insistenza? Gesù come guarda la mia vita, e quella della mia famiglia? Sono stato/a un buon amministratore oppure ho sciupato la grazia che mi è stata concessa? Quali i frutti del nostro amore coniugale? Come abbiamo fatto trafficare i talenti ricevuti della grazia sponsale e genitoriale? Quale esempio di operosità santa trovano in noi i figli? Come nella nostra comunità – parrocchiale o religiosa – riusciamo a non tirarci indietro e a mettere la nostra vita a servizio degli altri per amore e mai per il desiderio di essere lodati?

Il dono dei doni

Quando Gesù trova che il suo discepolo ha messo a frutto la sua grazia, richiede un dono ancora più grande del suo amore al Padre. C’è una gara tra il Figlio a chiedere e il Padre a concedere, perché l’uno desidera ciò che l’altro sa che è bene donare. Il Figlio non chiede mai ciò che il Padre non vuole e il Padre non elargisce nulla senza che il Figlio lo richieda perché l’amore è capacità di vivere in unità di intenti e di opere. Questo significa l’empatia che l’amore genera in due persone che si amano, capacità di prevenire nei desideri, ma anche di attendere l’altrui richiesta che è sempre il segno della capacità di leggere nel cuore dell’altro/a ciò che egli/ella già vuol concedere. Non è questa la relazione di amore che i genitori dovrebbero vivere con i figli e che gli sposi sono chiamati a vivere tra loro? Se questo non avviene, si assiste al logorio dell’amore e l’incapacità di vivere la meraviglia dei rapporti è prevaricata dalla stanchezza perché manca il coraggio di rischiare e vivere l’avventura dell’umiltà.

Richiedere è il segno da parte del Figlio di dipendere dal Padre. Amare è accogliere della propria strutturale dipendenza dall’altro/a, senza subirla, ma scegliendola come strada della gioia condivisa. Dipendere significa non poter vivere senza l’altro/a ed è in tale circolarità che l’amore cresce. In questo modo, nella relazione di coppia, da un lato la moglie dipende dal marito, mentre dall’altro accoglie il bisogno che lui ha di trovare in lei il suo completamento che è segno del suo bisogno di dipendenza. Non dobbiamo aver paura di far capire all’altro che l’amore è tanto grande da spingerci ad accogliere il nostro dipendere dal suo amore. Mai però questo deve diventare schiavismo reale o psicologico, perché se questo avviene, cade la circolarità del dono e dello scambio e c’è disarmonia e non si vive più un rapporto paritario.

Nella sua relazione di dipendenza – il quarto Vangelo sottolinea spessissimo come il Figlio sia in tutto obbediente al Padre e da Lui il suo ministero e la sua vita dipenda – nella sua preghiera per i discepoli fedeli è come se Gesù gli dicesse:

Padre mio, questo mio discepolo ha accolto docilmente la parola tua che io gli ho trasmesso. Tu ora, fai passare attraverso il mio Cuore il dono del Consolatore che io ho promesso perché conosco come Tu sei buono e grande nella compassione e nella misericordia. Concedilo perché io sono certo che sarà in grado di non appropriarsi del tuo dono, ma lo metterà a frutto come già ha fatto. E pur se non lo dovesse fare, sono sicuro che la tua misericordia diverrà paziente attesa dei frutti che entrambi vogliamo per il suo bene e per la gloria del tuo regno tra gli uomini. Io sarò il suo agricoltore e concimerò il suo terreno con il mio sangue e zapperò il terreno con la mia croce. Prima o poi, si arrenderà all’amore che noi abbiamo per lui.

È per la preghiera di Gesù che il Padre ci dona il suo Spirito, definito un altro Paraclito, un secondo consolatore. A differenza da Cristo che dopo la sua resurrezione ascende al cielo – lo contempleremo la prossima domenica – lo Spirito rimane con noi quale motore delle nostre azioni, perché è Lui che interiormente ci spinge a pensare, amare, agire e parlare come Gesù, così come lo Spirito ha condotto Gesù a pensare, amare, agire e parlare come il Padre gli aveva comandato. È lo Spirito consolatore che ci permette di non sentirci orfani. Dobbiamo però imparare maggiormente ad avvertire la sua presenza e la sua azione in noi, lasciando che sia Lui a muoverci nel compiere sempre e solo ciò che piace al Padre. Guardando a Maria, la Donna dell’Eccomi, chiediamo il dono della docilità a Colui che è capace di fare nuove tutte le cose.




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



ANNUNCIO

ANNUNCIO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.