Morire con dignità

Totò Riina: una morte dignitosa è dove si muore?

Salvatore Riina

di Michela Giordano

Una morte dignitosa per Riina? Molti degli eroi del nostro tempo sono stati freddati per strada. Non hanno avuto una morte dignitosa, ma la loro vita ha cambiato la prospettiva di molte cose. Per morire con dignità è necessario vivere con dignità.

Ho avuto il privilegio di conoscere, per la stesura del mio primo libro (Quando rimasero soli. Emanuele Basile e Mario D’Aleo, eroi dimenticati – edizioni Paoline), i familiari di due vittime innocenti della criminalità, Emanuele Basile e Mario D’Aleo. Ufficiali dei carabinieri (tarantino il primo, romano il secondo), indossavano le tre stelle da “capitano” quando furono ammazzati dalla mafia, a due anni di distanza l’uno dall’altro. Entrambi per strada: Basile stava passeggiando con la moglie accanto e la figlia di pochi anni in braccio; D’Aleo, accompagnato da due suoi collaboratori (Pietro Morici e Giuseppe Bommarito, anche loro trucidati) era appena arrivato sotto casa della fidanzata. Entrambi freddati senza pietà.

Quando, a distanza di 30 anni, ho avuto modo di incontrare i loro familiari, il dolore era tutto lì, per intero davanti a me, senza alcun sollievo prodotto dal tempo trascorso. Penso spesso a quegli occhi ancora così pieni di lacrime; mi hanno insegnato la compostezza, il valore della memoria. Hanno condiviso con me ricordi dolorosi nell’intenzione di riportare al centro la “dignità” del proprio caro ucciso e l’unico modo per farlo era quello di accompagnare la cronaca di come erano morti con la testimonianza di come fossero vissuti. Ci ho ripensato ancora pochi giorni fa, quando tutti i media nazionali si sono occupati dell’ipotesi di rimandare a casa Totò Riina per concedergli quella che la Suprema Corte di Cassazione ha definito una “morte dignitosa”. Senza entrare nelle possibilità tecniche della scarcerazione, il punto sul quale, invece, mi interessa riflettere è il contenuto di sostanza da fornire a quell’aggettivo rilanciato dai giornali, “dignitosa”. Non è solo una questione logistica. Mi rifiuto di pensarlo. E non voglio nemmeno fare mie le riflessioni, pur condivisibili, di quanti hanno sostenuto che: “Merita di crepare in carcere per tutti i morti che ha sulla coscienza”. Credo fortemente che lo Stato debba fare giustizia e non vendetta. Il punto, a mio parere, è un altro.

La dignità della morte non può essere legata a come o dove si passi all’altro mondo. Paolo Borsellino e la sua scorta sono stati ridotti letteralmente a brandelli dall’autobomba deflagrata in via D’Amelio: fu difficile riconoscerli dai pochi resti raggranellati sull’asfalto bollente di quel pomeriggio infuocato. Invece Procopio Di Maggio, è spirato di morte naturale, servito e riverito, nel letto di casa sua. Aveva appena compiuto 100 anni e, sebbene mai arrestato, era considerato “il boss mafioso più anziano del mondo”, fedelissimo di Totò Riina. È a questa differenza, morti in strada o in un comodo letto, che deleghiamo il compito di fornire “dignità”? Io non credo.

La dignità riguarda il come si è vissuto, non le modalità della propria morte. Anzi, in quell’estremo sacrifico, con il bene supremo della vita sacrificato sull’altare della lotta alla mafia, Borsellino e i suoi “angeli” mi sono ancora più cari, veri e propri santi laici. La dignità, caro Riina, si costruisce giorno dopo giorno, attraverso scelte di dignità: rispetto per gli altri, impegno civile, onestà. Troppo facile giocare la carta del pietismo. Lo dobbiamo alle dignitose esistenze delle tue vittime innocenti e alla dignitosa esistenza dei loro familiari. Stavolta non riesco a chiudere col mio solito punto interrogativo.




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