Giovani

Genitori, educatori, insegnanti, catechisti: “possiamo fare molto di più” per i nostri figli

di Giovanna Abbagnara

Oggi riproponiamo un interessante approfondimento sul complesso mondo dei giovani. Mancanza di senso, di relazioni significative, isolamento e appagamento narcisistico, sentirsi amati: sono solo alcune delle cause che spesso li spingono a gesti sempre più estremi.

Non so se avere un figlio di 17 anni o di 25 cambia il grado di preoccupazione per la sua vita, i suoi pensieri, i suoi amici o il suo futuro. Per ora sono ferma alla fase post adolescenza: sguardo sul mondo degli adulti. E decisamente le lunghe chiacchierate con lui e con i ragazzi di un gruppo che seguo da quando avevano da poco compiuto dieci anni, mi convincono di quanto stia crescendo a dismisura la distanza tra il mondo dei giovani e quello degli adulti. Apparentemente potrebbe non sembrare così. L’abbigliamento, il modo di usare le tecnologie, lo sport alla moda come il crossfit, l’iperconnessione e quel prolungamento del corpo che ormai tutti ci portiamo dietro e che si chiama smartphone – guai a perderlo di vista per più di tre minuti altrimenti cadiamo già nella fase astinenza da touch – ci fanno sembrare più simili ai nostri adolescenti.

Eppure la solitudine, la mancanza di relazioni significative e durature, il male di vivere che spinge un ragazzo a togliersi la vita resta ancora la seconda causa di morte nel mondo tra i ragazzi sotto i 20 anni. Un dato che come genitore mi percuote. Come è possibile? Da cosa proviene questo malessere? Tutte queste certezze che oggi gli adulti riescono a comprendere maggiormente i giovani, che l’autoritarismo di ieri ha lasciato spazio alla complicità di oggi, che “mio figlio mi parla di tutto”, dove sono?

Mentre queste domande emergono con prepotenza, mio figlio mi racconta di una serie televisiva che sta spopolando tra li adolescenti: Tredici. Guardiamo qualche episodio insieme. La serie racconta la storia di Hannah Baker, una studentessa di un liceo americano che si suicida. Prima del folle gesto però registra alcune audiocassette in cui spiega le ragioni che l’hanno portata ad uccidersi. Ogni lato di ogni cassetta è dedicato a un suo amico o a un suo conoscente che ha avuto un ruolo nel suo suicidio. C’è l’amica con cui Hannah a un certo punto ha litigato, il suo amico un po’ strano che si è fidanzato con la sua migliore amica, un fidanzato che ha diffuso delle sue foto intime. In mezzo a quelli che sembrano normali problemi e incidenti di una ragazza liceale, Hannah però spiega le molestie ricevute per il fatto di essere una ragazza attraente, descrive cosa significhi essere la vittima della diffusione di foto private, e soprattutto, a un certo punto, racconta di essere stata violentata. Alla fine si vede la scena del suicidio di Hannah, mostrato in modo molto esplicito e crudo.

“Ho girato la testa dall’altra parte” mi dice mio figlio. “Che idea ti sei fatto di questi episodi?”. “Sembra che il suicidio così organizzato e strutturato sia una punizione per tutti quelli che hanno fatto del male ad Hannah”. “C’è qualcuno che ha una colpa maggiore secondo te?”. “Sì, forse lo psicologo della scuola cui si rivolge Hannah. Ad un certo punto dice a uno studente che «Se voleva togliersi la vita, non potevamo fermarla». E quando poche ore prima del suo suicidio lei fa capire a questo psicologo che è stata violentata da un ragazzo più grande, e dice di avere bisogno «che si fermi tutto, le persone, la vita», lui non interviene. Le presta i fazzoletti e la lascia andare. Lei si volta indietro mentre va via e lo vede già concentrato a rispondere a qualche messaggio sul suo cellulare”. È l’unico adulto dei tredici.

Mentre questa serie è stravista su Netflix, qualche giorno fa va in onda un servizio per le Iene su un gioco ideato in Russia, Blue Whale. Un gioco assurdo e perverso che, dopo un tempo in cui il giocatore è chiamato a rispettare 50 regole autolesioniste, si conclude con il suicidio del ragazzo che viene filmato a riprova del suo coraggio. Lo spaesamento che ho visto negli occhi di mio figlio mentre ha sentito il bisogno di parlarne quasi per metabolizzare tutto quel male che ha invaso il suo cuore, mi ha fatto pensare alla distanza che spesso alberga nel cuore di tanti adolescenti tra quello che vivono e fanno ogni giorno e quelle domande, quel vuoto, quell’insopprimibile bisogno di sentirsi amati che non riescono a tirare fuori.

Ricordo che l’anno scorso ho letto un libro per ragazzi molto simpatico ma se vogliamo drammatico per certi versi di Susanna Tamaro: Salta Bart! È la storia di un bambino di dieci anni, molto intelligente che vive in un futuro forse non troppo remoto, in cui la vita è scandita dalla tecnologia e ogni fase della giornata è regolata dalle macchine. È sempre solo: vede i genitori lontani per lavoro solo attraverso un monitor e l’unico contatto che gli trasmette un po’ di calore è quello del suo orsetto Kapok. Ma ben presto anche questo conforto, giudicato dalla madre un’inutile distrazione e fonte di microbi e batteri, gli viene sottratto.

A Bart non manca nulla. I genitori sono sempre presenti 24 ore su 24 attraverso la tecnologia che permette loro di seguirlo ovunque e di far fronte ad ogni imprevisto. Ma Bart non è felice e troverà in una gallina un’amica con cui divertirsi e tuffarsi un tante avventure.

Noi genitori oggi siamo molto bravi a controllare i nostri figli, a far tacere le nostre ansie, a fare in modo che non si trovino mai davanti ad un ostacolo che non abbiamo già rimosso noi. Investiamo molto tempo a vigilare ma non perdiamo mai tempo ad amare. Hannah, i ragazzi del Blue Whale cercano di appagare un desiderio profondo di essere amati. Un appagamento per la mancanza di senso che si portano dentro. Un individualismo e una solitudine esasperata che non viene da nessuno canalizzata verso il Bene. E questo silenzio, questa assenza assordante degli adulti diventa il terreno fertile dove il male mette radici.

Come genitori non possiamo mettere la testa sotto la sabbia certi che a noi non potrà mai accadere e che conosciamo così bene i nostri figli da accorgerci di ogni cambiamento interiore. Bisogna impegnarsi in relazioni significative e continuative. E per questo bisogna perdere tempo. Bisogna fermarsi ad ascoltare. Bisogna insegnar loro che vale la pena voler bene e volersi bene. Bisogna rispondere alle domande che si portano dentro con scelte che hanno il sapore di cose autentiche, che non rispondono alle leggi consumistiche. Genitori, educatori, insegnanti, catechisti: “possiamo fare molto di più”.




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