XX Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 20 agosto 2017

Solo una madre commuove il cuore di Gesù

di fra Vincenzo Ippolito

La relazione con Dio e tra noi è fatta di gesti e parole che si intrecciano nel creare dialogo e scambio, conoscenza dei pensieri dell’altro e costruttivo confronto. È necessario recuperare il valore simbolico ed eloquente dei gesti, soprattutto nella relazione familiare. Le parole non bastano e non possono bastare, perché noi comunichiamo con la totalità della nostra persona, corporeità, volontà, sensibilità.

Dal Vangelo secondo Matteo 15,21-28
In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele».
Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

 

Abituati a confrontarci con il seguito di Gesù formato in gran parte da uomini, stentiamo ad immaginare un gruppo di discepole che seguono il Maestro con la delicata determinazione e la naturale tenerezza che è propria del genio femminile. I Vangeli ci presentano molte donne – si pensi al quadro di Lc 8,1-3 – che entrano in relazione con Cristo e scoprono in Lui la potenza liberatrice del suo amore. Tante, più o meno conosciute, sono quelle che gli Evangelisti ci presentano, durante i tre anni di vita pubblica del Nazareno. Una di queste è la donna cananea che la liturgia della XX Domenica del Tempo Ordinario ci presenta nel dramma familiare che vive e nella prodigiosa guarigione della figlia che Cristo opera. Spinta dalla difficoltà, si rivolge al Signore con la forza ed il coraggio che solo una madre riesce ad avere. Il dialogo fiducioso con Gesù, la preghiera perseverante, la capacità di legare la fede con i drammi che ciascuna vive: sono questi i tratti essenziali che ci vengono offerti dall’evangelista Matteo.

In un territorio straniero

La narrazione evangelica della cananea (cf. Mt 15,21-28) segue il racconto di Gesù che cammina sulle acque – lo abbiamo letto la scorsa domenica, cf. Mt 14,22-33 – ed approda a Gennèsaret (cf. Mt 14,34-36) ed è preceduto dalla disputa del Maestro con alcuni scribi e farisei sul peso della tradizione rispetto alla Legge di Mosè (cf. Mt 15,1-9) e dall’insegnamento sulla purezza di cuore (cf. Mt 15,10-20). Il contesto mostra che Gesù è in aperta ostilità con i suoi ascoltatori e questo lascia comprendere la duplice finalità che l’Evangelista vuol raggiungere, narrando l’incontro con la donna cananea: da un lato mostrare come in territorio pagano, nella regione di Tiro e Sidone, fiorisca la fede, diversamente da quanto accade in Israele e tra i discepoli (cf. Mt 14,31), dall’altro indicare alla comunità cui Matteo scrive una pedagogia da attuare nell’annuncio del Vangelo, ovvero rivolgersi prima ai Giudei e poi ai Gentili, come Luca dirà per bocca di Paolo, nella sinagoga di Antiochia (cf. At 13,46). Sotto questa doppia luce la figura della donna che si rivolge a Gesù per la guarigione della figlia risulta emblematica perché simboleggia profeticamente i credenti che, pur venendo dal mondo pagano, attendono il Messia, gli vanno incontro e, per la fede autentica che manifestano, assistono all’irrompere potente del Regno di Dio nella storia.

La scena evangelica che la liturgia ci propone inizia con la partenza di Gesù, con il suo ritirarsi (cf. Mt 15,21), quasi come un anacoreta che cerca la solitudine e la sicurezza in Dio e rifugge gli uomini che non accolgono la volontà del Padre. L’Evangelista non ne indica il motivo, anche se il contesto di incredulità può far pensare alla tristezza del Maestro per la durezza del cuore dei suoi ascoltatori. Cristo, infatti, se non è accolto con fede, si ritira, se al suo bussare, la nostra porta resta chiusa, con amarezza si allontana, perché quanto prescriverà ai discepoli – “Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi” (Mt 10,14) – Egli lo vive per primo. Dio non si ferma dinanzi a nulla, anche davanti al peccato, perché il nostro errore, se consegnato nelle sue mani, può divenire occasione di grazia, un’esperienza di misericordia. Solo l’incredulità ferma la potenza salvifica del Redentore, l’incapacità del cuore umano di lasciarsi plasmare, abitare, guarire dalla grazia che il Risorto effonde con tanta abbondanza. Non è importante una grande fede, basta anche che sia grande quanto un granello di senape (cf. Lc 17,6), perché il Signore operi meraviglie. Dio, infatti, sostiene coloro che, come il centurione (cf. Mc 9,24), confessano la pochezza della propria fiducia e si abbandonano alla sua mano potente, ma l’incredulità lega le mani a Dio, blocca la potenza liberatrice di Cristo, scaccia lo Spirito dalla casa del cuore, rifiuta la sua opera necessaria ed indispensabile per avere la vita.
A noi può sembrare questa una scena che non ci riguarda, che osserviamo in maniera distaccata ed asettica, ma, se riflettiamo bene, anche noi causiamo la partenza di Gesù, il suo rifuggire la casa del nostro cuore. Quante volte, per la nostra incredulità, riduciamo al nulla la sua onnipotenza! Quante volte, come gli scribi e i farisei, confessiamo con le labbra la nostra appartenenza a Lui, ma, nelle situazioni concrete, non leghiamo il Vangelo alle nostre scelte e siamo pronti a chiudere Dio nei nostri schemi mentali! Quante volte Cristo sta alla porta e bussa e non gli apriamo, chiede di entrare in situazioni della nostra vita che non abbiamo il coraggio di guardare con serenità e coraggio! Possiamo dire di essere cristiani, di seguire Gesù se la parola del Vangelo non ci ha totalmente investiti, se il suo Spirito non ci ha condotti a divenire coscienti di quanto sia necessario iniziare un cammino di conversione che lasci entrare Dio con potenza in noi?

Con la mia incredulità posso scacciarti, Signore, neutralizzare in me la tua onnipotenza, rendere infeconda la tua grazia, inoperosa la tua presenza, sterile il tuo infinito amore per me. Con il peccato mi allontano da te, ma con la durezza della mia mente e del mio cuore, ti spingo ad allontanarti, ti scaccio come nemico, ti rifiuto come intruso, divento come quei demoni che ti gridarono “Sei venuto a rovinarci?” (Mc 1,24). E se la tua misericordia e la potenza del tuo perdono guarisce il mio peccato, chi potrà salvarmi dalla mia incredulità? Ti prego, mio Gesù, abbi pazienza con me come con quell’albero di fichi (cf. Lc 13,6-9), concima con la tua grazia il mio cuore, scalza alle radici il mio amor proprio e il tuo Spirito farà frutto in me per la gloria del Padre. Il ricordo del mio errore, il dolore per averti scacciato tante volte in passato, mi guardi dal ricadere nell’incredulità e se, come Pietro, dovesse riaccadere, perdonami settanta volte sette e fa’ che, incontrando il tuo sguardo (cf. Lc 22,61-62), nel mio errore, l’amore tuo faccia scorrere dai miei occhi lacrime di vero pentimento, per desiderare la vita nuova che solo il tuo amore può riversare in me.

Il silenzio e la solitudine rotti da un grido di aiuto

Dopo le prime indicazioni offerte dall’Evangelista, la scena subisce un totale cambiamento. Il segno di questa trasformazione è l’indicazione “Ed ecco”, elemento usuale nella narrazione biblica per richiamare l’attenzione del lettore sulla novità che l’autore sta per presentare. Lo spostamento di Gesù, quel suo partire ed allontanarsi da coloro che, discepoli o ascoltatori, non riescono a fidarsi di Lui fino in fondo, sia nelle tempeste dei pensieri sia nelle navigazioni tumultuose della vita, non porta il Maestro all’isolamento, ma alla compassione e alla solidarietà e se anche il testo permette di leggere nel comportamento del Nazareno la conseguenza per un senso di disfatta nel suo ministero, una voce lo salva – ammesso che ne avesse bisogno! – da quegli oscuri pensieri che potrebbero distoglierlo dalla volontà del Padre. “Ed ecco, una donna cananea che veniva da quella regione, si mise a gridare” (Mt 15,22). Matteo ci tiene a sottolineare – lo fa in maniera velata, ma è compito del lettore desumerlo e notarlo – che mentre Gesù è diretto in una zona straniera, da quella regione è raggiunto da un grido di aiuto, da una richiesta di liberazione. La donna cananea è il segno di chi desidera uscire dalla terra dell’idolatria e dell’incredulità – Tiro e Sidone – e partecipare alla relazione autentica con Dio, attraverso Gesù Cristo.
Desiderare la salvezza e camminare verso Cristo sono i tratti essenziali della figura di questa donna che si sta progressivamente allontanando dalla sua terra, scrollandosi di dosso le tradizioni proprie di una regione pagana, quasi come Abramo a cui Dio comanda di uscire dal suo paese e di allontanarsi dalla sua casa (cf. Gen 12,1ss). La sequela del Signore, per essere autentica, deve comportare sempre un distacco, un taglio netto con il proprio passato. Questo non significa rimuovere ciò che è stato fatto, ma leggere la propria storia nella luce di Dio e orientare a Cristo la vita passata, presente e futura. Il grido della donna rappresenta proprio la richiesta di una liberazione totale. La voce giunge lì dove la sua persona ancora non è arrivata. Rappresenta l’aspirazione del suo cuore di madre in angoscia, il suo desiderio di trovare consolazione nella terra d’Israele lì dove c’è il profeta di Dio – il vero, l’unico, il solo in quanto Figlio di Dio – capace di mondare ogni lebbra (cf. 2Re 5,7). Ella non parla, ma grida, vuole far sentire tutto il suo dolore di madre per la sorte della figlia, il suo volerla rigenerare ad una vita vera e piena, serena e gioiosa. Come il popolo di Israele gridava al Signore (cf. Es 3,7), così questa donna esce dalla terra della schiavitù e presenta a Dio il suo desiderio di liberazione: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio” (Mt 15,22). La sua è una supplica delle più accorate che nasce dalla situazione di interiore prostrazione, dal dolore che la logora nell’anima per quanto la figlia sta passando. Si tratta di una preghiera modulata in tre tempi: prima, la richiesta esplicita, fatta senza sprecare parole (cf. Mt 6,7) – Pietà di me! – nella quale ella chiede unicamente l’intervento potente del Signore che è “misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà” (Es 34,6-7); segue la confessione di fede in Gesù riconosciuto “Signore, figlio di Davide!”, ovvero Messia atteso; in conclusione presenta la situazione della figlia – “Mia figlia è molto tormentata da un demonio” – nel cui dolore, da madre, si immedesima. Nella preghiera di intercessione – classica è quella di Mosè per il popolo infedele, – l’orante si identifica totalmente con la persona per cui prega e per lei chiede l’intervento del Signore.

Dare voce ai sentimenti nascosti del cuore è questa l’anima del dialogo con Dio che rende viva e vitale la nostra relazione con Lui. Le radici della preghiera devono stendersi in maniera profonda nel terreno della nostra storia, al Signore dobbiamo presentare le situazioni concrete della vita, chiedendo che Egli intervenga e si riveli come l’Emmanuele, il Dio che cammina alla testa del suo popolo e tra la sua gente, non che faccia ciò che noi vogliamo. Ecco perché anche la Madre di Gesù a Cana presenta la situazione – “non hanno vino”, Gv 2,3 – e si rivolge ai servi perché ascoltino il suo Figlio – “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”, Gv 2,5 – ma si fida di Gesù e si abbandona totalmente a Lui. Ogni dialogo – anche la preghiera lo è – che non nasce dalla fiducia e dall’abbandono in Dio risulta fallimentare, perché è come un fiore senza lo stelo, non può reggersi. Solo se accolgo la persona che mi sta dinanzi, se mi fico di lei, gli affido il mio cuore e credo che tiene a me e alla mia vita più di quanto possa pensare, solo allora la relazione cresce e il dialogo orante con Dio mi trasforma, permettendomi di consegnare a Lui le sorti della mia vita.

Il grido della Cananea rappresenta la voce di cui noi abbiamo bisogno per svegliarci dal torpore nel quale cadiamo per le esperienze dei nostri fallimenti. Spesso, ripiegati su noi stessi per le cattive esperienze fatte, abbiamo bisogno di essere spronati dall’esterno, ridestati dal sonno dell’oblio nel quale, consapevoli o meno, siamo precipitati. A svegliarci sono le angosce che vivono quanti ci sono vicini, non abbiamo tempo per leccare le nostre ferite perché la vocazione che il Signore ci ha dato è più grande del nostro cuore in tumulto. Anche Gesù ha conosciuto le difficoltà nel suo cammino, ma dopo la naturale tristezza, ha ripreso la strada maestra, proteso dal desiderio di compiere la volontà del Padre. Quante voci intorno a noi restano inascoltate! Quante volte il nostro dolore crediamo sia più grande e più degno di attenzione di quello dei nostri fratelli! La sofferenza degli altri deve destabilizzarci e condurci ad atti di responsabile maturità. Il grido della donna cananea porta Gesù a orientare nuovamente la vita verso la volontà del Padre – ammesso che ce ne fosse bisogno – a guardare la situazione concreta nella quale si trovano gli uomini, oppressi da ogni forma di male.

Seguire Gesù senza farne frutto!

È stridente il contrasto tra il grido della donna e il silenzio di Gesù. L’Evangelista appunta laconico “Ma egli non le rivolse neppure una parola” (Mt 15,23). Perché il Signore tace? Perché Dio non sembra rispondere al grido di aiuto che quella madre presenta, spinta dal dolore che la lacera, dalla sofferenza che interiormente la angoscia? Siamo dinanzi al deserto della preghiera, alla solitudine che spesso anche noi sperimentiamo nel dialogo orante con il Signore. Non si può certo dire che la cananea non abbia un oggettivo bisogno dell’intervento del Signore, né che il suo grido sia sproporzionato rispetto alla situazione di difficoltà che la figlia vive. Ma Dio tace, non interviene. Sembra di avere un eco delle tante pagine dell’Antico Testamento nelle quali Israele sperimenta il silenzio di Dio, la cui tenerezza appare nascosta, la cui sollecita cura velata. Perché Dio tace, perché non interviene? “Perché Signore stai lontano, nel tempo dell’angoscia ti nascondi?” (Sal 9,22), si chiede il salmista. L’attesa, oltre ad essere un espediente letterario per aumentare il pàthos nel lettore, preparare il dialogo che suscita una fede ancora più matura nella donna. La fede nasce dall’ascolto della parola di Dio (cf. Rm 10,17) e si consolida nel dialogo amicale che si crea con l’uomo. È necessario, infatti, camminare nella sequela di Gesù, maturare accogliendo la sua parola e facendo sempre più spazio a Lui nella propria vita, anche quando questo comporta sperimentare Dio che tace e sembra non intervenire con tempestività.
Il silenzio di Cristo è un’opportunità anche per i discepoli, ma mentre la donna saprà trarne benefico, ancora una volta i Dodici dimostreranno di non aver ancora acquisito la sensibilità propria del Maestro, la capacità di entrare in empatia con i fratelli al pari del Nazareno. Essi colgono la tensione presente nella scena tra il grido della donna e l’atteggiamento di Cristo e si sentono quasi in dovere di intervenire per risolvere la situazione, domandando a Gesù di porgere ascolto al grido della donna. In loro non parla la pietà e la compassione, la solidarietà o la capacità di partecipare al dramma di quanti avvicinano Gesù e domandano il suo aiuto. L’insistenza della donna li infastidisce e chiedono di essere liberati da quella situazione spiacevole. Alla scuola del Nazareno non hanno ancora compreso che stare con Lui significa addossarsi le pene e i problemi degli altri, farsi carico delle angosce di quanti chiedono conforti, di dover dispensare senza fretta né superficialità la grazia che Egli mette nelle loro mani per i fratelli, come era avvenuto per sfamare i cinquemila uomini (cf. Mt 14,19). È agghiacciante la richiesta dei discepoli. Prima hanno dimostrato la loro poca fede (cf. Mt 14,31), ora mostrano il fastidio e il disinteresse dinanzi al dolore di una donna in angoscia. Dovrebbero farsi mediatori di misericordia, come la donna intercede per la figlia, essi dovrebbero presentare la situazione di quella malcapitata e, invece, non considerano la chiamata ricevuta e si perdono nelle strade scoscese del proprio egoismo. Seguire Gesù non comporta sempre una crescita nel cammino di fede. Talvolta in nome di Cristo possiamo anche seguire noi stessi e affermare non la volontà del Padre, ma perseguire la nostra. Essere nella cerchia dei chiamati non rendi gli apostoli immuni dal peccato, dona una relazione più intima con Cristo, puro dono di grazia questo, possibilità da accogliere sempre. Dietro al Maestro siamo chiamati a fare nostri i suoi sentimenti (cf. Fil 2,5) e a divenire autentici nel conoscere i nostri limiti ed offrirli al Signore come luoghi nei quali, senza mai appropriarcene, Egli può, se vuole, rivelare la potenza della sua misericordia.

Quante volte come i discepoli pecchiamo di superficialità! Non entriamo o non vogliamo entrare nei drammi delle persone che ci sono accanto e cerchiamo in mille modi o di divincolarci o di liquidare le questioni, scaricandole sugli altri. Questo significa assecondare la grazia che Cristo ci dona con tanta abbondanza nei sacramenti? Questo significa prendersi cura delle situazioni di difficoltà e di angoscia dei nostri fratelli? Se la nostra fede non incontra la storia degli altri, le nostre sono parole disincarnate e non viviamo la dinamica di Cristo che da ricco che era si è fatto povero per arricchirci (cf. 2Cor 8,9). La fede è la capacità di vedere la storia come la guarda Dio e di permettergli di intervenire attraverso di noi perché i fratelli sperimentino in noi la potenza risanatrice e guaritrice della Pasqua del Signore. La fede che incontra la storia diventa cura dell’altro e dono delle proprie capacità – non è forse il senso della vita politica? – nella ricerca costante del bene comune; la fede che incontra la storia diventa carità fattiva perché il Regno di Dio si espanda e la fraternità voluta e attuata da Cristo con l’offerta della sua vita in croce non sia solo un ideale, ma modello per l’impegno dei cristiani nella vita sociale.

La preghiera come cammino progressivo di intimità con Dio

Gesù non prende in considerazione la richiesta dei discepoli – come mai potrebbe assecondare una domanda scandita da immaturità ed egoismo? – e dimostra la rettitudine del suo comportamento – “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”, Mt 15,24 – rifacendosi alla volontà del Padre quale termine di riferimento costante nella sua vita. Se anche noi imparassimo da Gesù a tenere sempre gli occhi fissi sulla volontà di Dio! Il Maestro dimostra la sua profonda coscienza della sua missione, espressa con le categorie care al profeta Ezechiele (34,16). Egli, indirettamente, si qualifica come il buon pastore, venuto a raccogliere le pecore perdute della casa del Padre. La coscienza che Gesù dimostra è ancor più significativa ora che i discepoli sembrano veramente persi, incapaci di comprendere cosa comporti seguire il Maestro, proprio ora che scribi e farisei credono di essere dalla parte della giustizia, senza accorgersi di vagare nelle tenebre. La difficoltà riscontrata nella sua missione non porta il Signore a misconoscere il senso della sua venuta, la volontà espressa dal Padre su di Lui, ma ad affermarla con una forza maggiore.
Avere chiara la volontà di Dio è ciò che dobbiamo sempre ricercare nella nostra vita, pur tra le alterne vicende che ci possono capitare. In ogni discorso deve regnare sovrano il progetto del Padre su di noi, ricordarlo nella relazione di coppia, educare i propri figli ad avere il cuore del Padre come stella polare del proprio cammino. Non si può vagare senza meta e non si giunge a destinazione senza guida. Il Padre è la meta e Cristo è la strada da percorrere, irrobustiti interiormente dalla forza dello Spirito Santo. I nostri discorsi devono guardare in alto, non possono sollevarsi appena da terra. Gesù ci insegna a leggere ogni cosa nell’ottica di Dio. Quando i discepoli vogliono giudicare da se stessi una situazione e pretendere da Gesù di assecondare il loro giudizio, allora il Maestro alza la posta e ripresenta il Padre e la sua volontà, la missione da Lui ricevuta e la responsabilità che la sua scelta su di noi comporta. Non possiamo solo recitare il Padre nostro, ripetendo come una formula vuota le parole “Sia fatta la tua volontà”, siamo chiamati a ricercala e ad assecondare in noi l’opera dello Spirito Santo che ci rende partecipi della missione di Gesù. Il Paraclito non ammette lentezze e la sua operosità non può essere anestetizzata dal nostro egoismo e dalla cattiva volontà di vivere nelle nostre sicurezze.

Lì dove i discepoli si bloccano, la cananea continua intrepida la sua corsa dietro a Gesù. Il suo coraggio è ammirevole, la sua costanza eroica, il suo discepolato la rende insuperabile nel confronto con coloro che seguono il Maestro da più tempo, ma senza farne frutto veramente. Il riferimento alla missione sembra atterrire i discepoli, non la donna che anzi diviene più audace nell’avvinarsi al Signore e nel prostrarsi dinanzi a Lui. Questi due gesti indicano un secondo passaggio nella relazione con Cristo. In un primo momento ha gridato e ha sperimentato il silenzio di Dio (cf. Mt 15,22-23) ora, incurante del tentativo dei discepoli che, con molta probabilità, poiché distante, non avrà neppure udito (cf. Mt 15,23-24), “si avvicinò, si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!».” (Mt 15,25). Non ha più bisogno di gridare, perché è vicina. Si prostra nel gesto totale di chi si abbandona ed è disarmata dinanzi a Dio che, solo, può operare meraviglie. La sua postura traduce la sua richiesta. La preghiera, ora più semplice rispetto alla precedente, è stata affinata dal cammino compiuto. La relazione con Dio e tra noi è fatta di gesti e parole che si intrecciano nel creare dialogo e scambio, conoscenza dei pensieri dell’altro e costruttivo confronto. È quanto mai necessario recuperare il valore simbolico ed eloquente dei gesti, soprattutto nella relazione familiare. Le parole non bastano e non possono bastare, perché noi comunichiamo con la totalità della nostra persona e accogliamo l’altro/a e ci doniamo a lui/lei con quello che siamo, corporeità, volontà, sensibilità. La famiglia e prima ancora la vita di coppia è il luogo primigenio del dono totale fatto da gesti e parole. Solo se tale dinamica non si interrompe i figli possono attingere la bellezza dell’amore e vivere il cammino avventuroso del dono di se stessi.

Si prega attingendo le parole dalla voce stessa di Gesù

C’è un terzo passaggio nella fede orante della cananea che indica come la sua preghiera abbia subito la trasformazione propria del dialogo e della relazione amicale con Dio. Prima ha gridato per il suo dolore, come Anna nel tempio di Dio (1Sam 1,10), in seguito ha espresso il suo desiderio di essere aiutata (cf. Mt 15,25), in ultimo prega sì, ma traendo spunto dalla parola di Gesù che la sua mente ed il suo cuore ha rielaborato nell’interiorizzazione. La preghiera è come il miele, non basta succhiare il nettare, è necessario che si trasformi in miele attraverso il nostro interiore processo assimilativo e che poi si depositi nei favi. La parola di Dio è il nettare, il favo il cuore di Dio e noi siamo le api. La costante meditazione della parola della Scrittura fa fiorire in noi la preghiera, proprio come nella cananea. Ella risponde elaborando quanto ha detto Gesù, non sovverte l’ordine del Maestro (padroni/figli- servi/cani), non chiede pane, ma briciole che, cadute anche inavvertitamente dalla mensa possono saziare la fame di quanti non ambiscono a sedere come figli, ma rimangono sotto la tavola e sanno attendere “come […] servi alla mano dei loro padroni” (Sal 123,2).
La preghiera – sembra insegnare l’Evangelista – nasce dal dialogo con Dio, si nutre della sua Parola ascoltata, interiorizzata e restituita nella lode e nel ringraziamento, nella supplica e nella domanda. La preghiera come una freccia raggiunge il cuore di Cristo se scoccata dall’arco ben teso per la fede. È l’abbandono, la confidenza il terreno buono nel quale la relazione con Dio porta frutti. Confidare in Lui significa chiedere il suo aiuto ed il suo intervento, ma lasciarlo libero quanto ai tempi e alle modalità di rivelazione. Diversamente da Pietro (cf. Mt 14,31), la donna non vacilla camminando sul mare dell’angoscia dietro a Cristo, ma la sua fede ottiene quanto chiede. La guarigione della figlia è il segno della potenza liberatrice e risanatrice di Gesù. Nella nostra famiglia chiediamo con fede e attendiamo con perseveranza liberazione e guarigione nel corpo e nel cuore? Come chiediamo che il Signore intervenga con la sua mano o per lo meno la sua parola a distanza operi prodigi?

Impariamo dalla cananea a camminare nella fede, interiorizzando la parola del Maestro per imparare il dialogo orante con Lui. Se per la fede di quella donna Gesù guarì la sua figlia, per la nostra fede e la nostra preghiera il Signore continuerà a mostrarsi misericordioso e pietoso e donarci la liberazione da ogni male e la gioia della sua salvezza.




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



ANNUNCIO

ANNUNCIO

2 risposte su “Solo una madre commuove il cuore di Gesù”

Signore salvaci Maria aiutaci la croce c’ è ma è del Risorto umiltà semplicità sacrificio preghier ascolta radio Maria

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.