XXX Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 29 ottobre 2017

Gesù, il buon pastore, ci cerca nei pendii dei nostri egoismi e nei dirupi delle nostre afflizioni

di fra Vincenzo Ippolito

Le scelte della nostra vita, i Sì che diciamo, assecondando in noi la grazia della chiamata, li pronunciamo davanti all’altare. Solo guardando a Cristo, tenendo fisso lo sguardo su di Lui si può camminare verso la pienezza di quell’amore che, puro dono, il cuore nostro può desiderare e docilmente accogliere per trasmetterlo agli altri in totale povertà.

Dal Vangelo secondo Matteo 22,34-40
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 

La liturgia odierna continua a presentarci le dispute di Gesù con i suoi avversari, nello scenario del tempio di Gerusalemme. Già la scorsa domenica abbiamo visto il tentativo dei farisei di trarre in fallo il Maestro. La sua risposta alla domanda sulla liceità del pagamento dei tributi – “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” Mt 22,21 – aveva lasciato sgomenti i discepoli dei farisei e gli erodiani, tanto che l’Evangelista aveva appuntato “A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono” (Mt 22,23).
Saltando l’alterco con i sadducei circa la resurrezione (cf. Mt 22,23-33), il cui epilogo mostra la stima che Gesù riscuoteva presso il popolo – “la folla, udendo ciò, era stupita dal suo insegnamento” (Mt 22,33) – la narrazione evangelica odierna ci propone una nuova domanda, questa volta di un dottore della legge (cf. Mt 22,24-40), che interroga il Maestro, nella chiara volontà di metterlo alla prova. La sua risposta ci conduce al cuore del Vangelo, conducendoci a considerare come solo l’amore sia il nostro grande comandamento. Non è forse l’amore che Gesù vive, testimonia, insegna e chiede ai suoi discepoli come segno dell’appartenenza a Lui? Per entrare nel mistero dell’amore dobbiamo guardare a Gesù. La sua vita è la migliore esegesi delle parole del Vangelo. Per questo bisogna leggere la Scrittura tenendo fisso lo sguardo su di Lui. È Gesù che ci rende raggianti nell’amore e nel dono di noi stessi, portati per mano dallo Spirito che dentro di noi grida “Abbà, Padre” e che rende la nostra vita un servizio d’amore ai fratelli.

L’amore tutto sopporta

La nuova scena che Matteo ci presenta è direttamente collegata alla precedente con un inciso – “i farisei, avendo udito che egli [Gesù] aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme” (v. 34) – che ben inquadra i continui tentativi che i vari gruppi religiosi presenti nella Palestina del I secolo organizzano nel comune volere di mettere in difficoltà Gesù. Prima i farisei, poi i sadducei, ora di nuovo i farisei. Il Maestro non ha tregua, assiste ad un avvicendarsi spasmodico dei suoi rivali, una gara al fine di donare la palma della vittoria a chi, maggiormente versato nei sottili ragionamenti umani desunti dalla casistica, riuscirà a mostrare l’infondatezza dell’insegnamento del Nazareno. Ciò che meraviglia, leggendo i dialoghi serrati di Gesù con i suoi antagonisti, è la calma e la pacatezza che il Figlio di Maria dimostra. Lo stiamo vedendo in queste ultime domeniche, il Maestro parla apertamente, risponde con precisione, rimprovera con coraggio e determinazione, mai però si ritrae dinanzi ai tentativi di coloro che cercano in ogni modo di toglierlo di mezzo. Alla falsità e alla menzogna che si veste di adulazione, alla pretesa sapienza della Legge dei padri, Egli risponde con la sua nuda parola, la sua magniloquente persona, con l’abbandono e la confidenza smisurata di chi sa di non essere mai solo. Non ha piani da imporre, né organizza consigli per decidere a tavolino la tattica da condividere con i suoi per mettere in scacco gli avversari e prevalere. L’amore non usa questi sotterfugi, rifugge l’apparenza, compiacendosi unicamente del chiarore della verità perché Gesù – anche se a noi potrà sembrare strano – ama i farisei, si strugge dal desiderio di attrarre al suo cuore i sadducei. Colui che aveva insegnato “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt 5,44), non si tira indietro nel vivere in pienezza l’amore, non ha paura di donarsi, assumendo anche lo scandalo di essere incompreso e, peggio ancora, rifiutato. In questa occasione, Matteo non ci offre di entrare nella mente e nel cuore del Signore, non ci descrive il suo sguardo mentre vede dinanzi a sé gli intrighi degli uomini, le reti dell’inganno ordite, la trappola della malvagità nascosta, perché colpiscano e seminino morte, proprio perché non viste. Farisei e sadducei fanno tutto in nome di quel Dio che ha inviato Gesù, in nome di Colui che ha donato la Legge non riconoscono che dinanzi a loro c’è l’Autore della Torà. Gesù deve sentire che in suo nome lo stanno rifiutando e citando le Scritture che Egli ha donato giustificavano dinanzi a se stessi il tentativo di detronizzarlo dal cuore dei poveri e dei peccatori, dei semplici e degli uomini che si erano aperti alla speranza del Vangelo.

È bello contemplare Gesù che non serba rancore, che guarda i suoi avversari mentre tentano di farlo cadere, quasi sorridendo davanti ai loro tentativi di rifiutare la strada che li renderebbe per sempre felici. Sarebbe bastato un semplice “Eccomi” come quello di Maria (cf. Lc 1,38) per sperimentare la salvezza, una preghiera fatta con il cuore della donna cananea “Signore aiutami” (Mt 15,25) per trovare in Dio la forza di vincere la propria arroganza, la supponenza di credersi superiori e così gioire per l’avvento del tempo messianico. Spesso rendiamo difficili le cose semplici e così Dio è costretto a guardarci mentre noi ci incartiamo nei nostri ragionamenti, ci perdiamo nella risoluzione di problemi che non esistono, se non nella nostra mente. Perché complicarsi la vita? Perché non fermarsi e guardare negli occhi quel Dio che in Gesù si è fatto uomo per guardarci con occhi umani? Perché non incontrare le mani del Signore che si è fatto uno di noi per poterci, con la nostra stessa carne, toccare e sperimentare cos’è per noi uomini la tenerezza? Perché non ascoltare la sua voce, di Lui che si è fatto pastore bello per venirci a cercare nei pendii dei nostri egoismi e nei dirupi delle nostre afflizioni? Perché non mettere i nostri piedi sulle sue orme, dal momento che Egli ha voluto calcare le nostre strade affinché noi, seguendolo, potessimo sentire la nostalgia dei sentieri del Cielo e, con il peso della nostra croce, potessimo fare dei ponti per superare i burroni e salire fino al cuore del Padre? Gesù è lì quasi immobile, non più nel gesto solenne dello stare seduto sul monte (cf. Mt 5,1), nuovo Mosè che dona le tavole della legge del cuore, ma uomo tra gli uomini, che attende di essere amato ed accolto, ed attende amando, si propone, amando, ascolta amando, parla amando, con la speranza che i capri che lo avvicinano diventino agnelli, che gli avversari si rendano conto che è contro di loro stessi il rifiuto che attuano, scacciarlo significa non amarsi e non ricercare il proprio bene, visto che Lui desidera solo il nostro bene. Cristo vede gli uomini nei loro andirivieni e semplicemente li ama, quasi pregandoli di fermarsi nella loro corsa senza senso, perché incrocino Lui, non l’idea che di Lui si sono fatti. Solo incontrandolo così come Lui è, spogliandosi delle armi delle nostre battaglie – a che serve combattere quando colui che consideriamo nemico ci ama e non ha mai blandito e mai impugnerà la spada per farci del male? – o per lo meno chiedere a Lui, Signore e Maestro, di trasformarli in vomeri e in falci.

A Gesù dobbiamo chiedere, nel silenzio del nostro cuore, di non ribellarci quando davanti a noi vediamo raggiri ingiustificati e riunioni di avversari che si fingono amici. Solo Lui può darci la forza di continuare ad amare coloro che ci fanno del male, solo Lui può donarci il coraggio di accogliere il bacio del traditore che utilizza il linguaggio dell’amore più tenero e dolce per consegnarci ai nostri carnefici. Mai si spenga il lucignolo della preghiera quando intorno a noi regna la notte. Anche il buio ha un senso ed il chiarore del giorno nuovo lo mostrerà.

Il desiderio di prevalere sugli altri

I farisei non sono contenti di essere stati messi in scacco dal Nazareno. La disfatta dei sadducei sembra dargli man forte per provare di nuovo a dimostrare la loro superiorità su questi, come anche su Gesù. Non vogliono perdere l’occasione e nuovamente si riuniscono, come già prima (cf. Mt 22,15). Questa volta però a presentarsi dal Nazareno è un dottore della Legge, potremmo dire un professionista del sacro. Su di lui si puntano il tutto per tutto e lo si invia caricando sulle sue spalle il peso della vittoria che il gruppo agogna. Egli si presenta e, scrive Matteo “lo interrogò per metterlo alla prova” (v. 35). Leggendo questo brano si rimane basiti nel notare le trame che il Maligno tesse, illudendo gli uomini di essere dalla parte della verità e della giustizia. Il dottore della legge che si avvicina a Gesù – il testo matteano non lo dice, ma lo possiamo facilmente desumere dal contesto – è un uomo pieno di sé, fiero della sua conoscenza della Legge, pronto a cimentarsi con un osso duro come il Nazareno che ha messo già in difficoltà farisei ed erodiani, della sua stessa corrente, come anche i sadducei che speravano così di prendere due piccioni con una fava, provare la propria superiorità su Gesù e al tempo stesso dimostrare ai farisei la loro padronanza della Scrittura. Quel sapiente è presentato come “uno di loro” (v. 35), fa parte del gruppo dei farisei ed è espressione della loro mentalità; è “dottore della legge” (v. 35), ovvero viene considerato una personalità di spicco se si sceglie proprio lui per disputare con il Maestro, che dimostra una conoscenza non comune della Legge e dei Profeti. Dalla penna dell’Evangelista riceviamo poi la terza indicazione “lo interrogò per metterlo alla prova” (v. 35b) che ben sta ad indicare il suo sentirsi superiore, l’alterigia della sua figura, la fierezza della sua conoscenza, la presunzione di interrogare Gesù, di porsi su un gradino più alto, come un maestro che deve provare il suo discepolo, circa la rettitudine del suo studio, la penetrazione della dottrina appresa.
Le tre indicazioni riportate – “uno di loro/un dottore della Legge/ lo interrogò per metterlo alla prova” – mostrano la dinamica che nella mentalità umana si fa strada quando si vuol affrontare ed abbattere qualcuno. In ogni gruppo, quando bisogna difendersi dall’esterno – i farisei hanno bisogno di difendersi da Gesù? Poveri illusi! – si cerca chi meglio può rappresentare le attese dei più, chi meglio sa parlare e farsi valere. Spesso la scelta è soggetta a lotte intestine, ma poco importa, visto che la posta in gioco è la distruzione del nemico che all’esterno ci attende. Il prescelto è sì uno del gruppo, ma con una propria identità, una forte personalità che è frutto delle doti naturali che sono state raffinate con lo studio e l’applicazione continua. In tal modo, il dottore della Legge non solo rappresenta chi lo sostiene, ma si carica delle aspettative degli altri e così il suo amor proprio si rafforza per la fiducia ricevuta, l’incitamento accordato e, gonfio di orgoglio per quella scienza che non è animata dalla carità, crede di poter sconfiggere il mondo. Si può essere anche dottori della Legge, ma a cosa serve la conoscenza se non fa crescere in spessore di umanità chi la persegue? È forse la fredda erudizione il frutto dell’applicazione sulla Tora? L’impegno profuso nella conoscenza della Scrittura serve forse per sentirsi migliori degli altri, mortificandoli e dimostrando la propria superiorità?

Quante volte anche noi siamo delle maschere vuote, come quelle che usavano gli attori nel teatro antico, una maschera che – come narra Esopo – trovata da una volpe in casa di un commediografo, venne apostrofata una maschera magnifica! Amara la conclusione dello stesso favolista certi uomini sono belli di corpo, ma poveri di spirito. Nei nostri rapporti non serve considerarsi migliori, accostarsi agli altri manifestando le proprie doti, sbandierando l’erudizione, gonfiandosi per ciò che si è appreso, facendo pesare agli altri ciò che sappiamo. Quante inutili maschere indossiamo! Chi crede di sapere, dimentica che non solo renderà conto di ciò che ha appreso, se ha donato ai fratelli quanto il Signore gli ha concesso di conquistare con lo studio e l’applicazione, ma si illude perché ciò che sa o crede di sapere è poca cosa in confronto a quello che non sa e non basterà una vita intera per acculturarsi e vincere il dato inequivocabile della propria strutturale ignoranza e debolezza. Il vanto è una forma di appropriazione ingiustificata. Tutto ciò che abbiamo è dono di Dio, per questo l’Apostolo ammonisce “Chi si vanta, si vanti nel Signore” (1Cor 1,31). Non serve essere orgogliosi o considerarsi superiori perché sentimenti del genere impediscono le relazioni sincere e ci portano ad elevarci sugli altri. Più che essere dei punti di forza, rappresentano la nostra debolezza, una povertà da coprire con una maschera. Le persone orgogliose e superbe, che hanno fatto dell’egoismo la loro corazza, si circondano di adulatori, di persone grette e meschine, con una personalità cangiante, che si vantano a loro volta del magnate di turno che osannano. Chi vive della gloria umana e del plauso della folla si illude perché passa la scena di questo mondo. Il discepolo sa, invece, che uno solo è il Maestro, uno solo il Signore e che vive tra tanti fratelli da amare e servire, riconoscendo sul loro volto l’immagine del suo Signore crocifisso e risorto. Se vogliamo costruire relazioni vere dobbiamo deporre la corazza della nostra superbia e seriamente guardare negli occhi le persone che amiamo. Non serve blandire la spada contro le persone che ci stanno vicino, provare continuamente la loro fedeltà, assecondando la nostra insicurezza che ci fa sempre tremare, alimentando pensieri che nel cuore nostro seminano la morte. Ogni relazione si costruisce alla pari, si parla in modo proficuo sedendosi l’uno accanto all’altro, vincendo il proprio orgoglio che è l’erba cattiva capace di soffocare il crescere lento del buon seme. Il dialogo inizia alla pari, ma talvolta perché la persona che ama riconosca il mio amore e abbia dinanzi agli occhi il segno più eloquente della mia fedeltà, seguirò Cristo nel gesto umile del lavargli i piedi, perché l’amore è un mistero di umiltà, capace anche di accogliere l’umiliazione ingiustamente perpetuata da parte di chi si ama, non solo, di scegliere la povertà con volontà ferrea. Seguendo Gesù si giunge alle vette di quell’amore che vince ogni forma di superbia e neutralizza il sentimento di superiorità. Per questo le scelte della nostra vita, i che diciamo, assecondando in noi la grazia della chiamata, li pronunciamo davanti all’altare. Solo guardando a Cristo, tenendo fisso lo sguardo su di Lui si può camminare verso la pienezza di quell’amore che, puro dono, il cuore nostro può desiderare e docilmente accogliere per trasmetterlo agli altri in totale povertà.

Nell’amore ogni riposta che calma il cuore

Come appunta l’evangelista Matteo, non c’è il pur minimo iato tra la domanda del dottore della Legge e la risposta di Gesù. Sembra che il Maestro non abbia bisogno di riflettere sul quesito a Lui presentato, che non sia necessario ordinare i suoi pensieri, chiarirsi le idee per rispondere. Egli non si ferma, come in precedenza (cf. Mt 22,18) alla malizia che ha determinato la domanda e né prende in considerazione la superbia con cui il dottore della Legge si è rivolto a Lui. È una grazia da domandare continuamente al Signore quella di far cadere tante cose che accadono nella nostra vita, una virtù da impetrare con la preghiera il non attaccare il cuore e la mente a ciò che potrebbe facilmente destabilizzare la nostra pace e portare terribili bufere nella nostra giornata. Non si tratta di far finta di nulla davanti a ciò che ci viene fatto, neppure dobbiamo misconoscere il male che è intorno a noi – sarebbe bene pensare anche a quello di cui noi siamo causa nella vita degli altri! – quanto, invece, di fissare la propria attenzione alle cose che contano e non prendere in considerazione le secondarie, ma guardare sempre e solo all’amore che Dio fa abitare nei nostri cuori.
Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente […] Amerai il tuo prossimo come te stesso” (v. 37. 39) così risponde Gesù al dottore della Legge, legando insieme due versetti della Torà, il primo del libro del Deuteronomio (6,5) ed il secondo del Levitico (19,18). Il Maestro non aggiunge nulla a ciò che la Scrittura prescrive, ma offre la sua vita come l’esegesi più chiara di ciò che Egli stesso aveva in antico richiesto ai padri. Il cuore della Legge è l’amore, sembra dire Gesù, saltando la siepe delle prescrizioni – si tratta di ben 613 precetti, secondo la tradizione dei maestri – nelle quali i farisei sintetizzavano la Legge di Mosè. È l’amore ciò che Dio richiede al di sopra di ogni sacrificio, il dono totale di sé ai fratelli ciò che Cristo vive fino al dono della sua vita. In tal modo, non esiste cesura tra la Legge e Cristo, non solo perché Egli la cita, da esperto conoscitore, cresciuto e educato nell’osservanza della fede ebraica, ma principalmente perché dell’antica Alleanza Egli è il compimento, ne rivela la bellezza e, al tempo stesso, ne è lo specchio vivente. In Lui le esigenze della Scrittura trovano realizzazione piena. Egli è la Parola vivente del Padre, la sua vita è la Scrittura incisa nella viva carne ricevuta dal corpo immacolato di Maria. Guardare Lui significa incontrare la giustizia che ha sposato la pace, la misericordia che si è unita alla verità. L’amore di Dio per noi in Gesù non è una parola che il vento porta via, ma un fatto, un avvenimento, un evento imprescindibile.
Dio mi ama con tutto il cuore in Gesù. Dio Padre è pazzo di me, sua creatura, con la totalità del suo essere. Tutto in Dio è santità, tutto in Dio è amore, ma l’amore suo mi raggiunge, mi investe, mi circonda, mi carezza, mi abbraccia in Gesù. Egli vive l’unità dell’amore, l’armonia dell’affetto, la determinazione del dono, anzi nel dono c’è il senso del suo amore, nell’offerta il significato della sua vita, nella totalità del suo sacrificarsi il segno più grande di quanto Dio sia amore e mi ami. Nel cuore di Gesù non c’è limite all’amore verso Dio e all’amore del prossimo, è Lui che unifica cielo e terra, rivelando nell’amore l’unica ragione che rende bella la vita. Il Figlio di Maria ama con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente perché amare significa totalità, un amore che sposa il dono parziale, che gioca al risparmio, non è amore, ma egoismo, pura illusione, dell’amore avrà la facciata, ma non l’essenza, dell’amore il profumo, non la sostanza, dell’amore la parvenza del sacrificio, non l’incondizionata determinazione di vivere proteso perché l’amato abbia in abbondanza la vita.

Non bisogna confrontarsi con la parola amore, ma con la vita di Gesù Cristo che è amore per essenza, così da fare un esame di coscienza sulla totalità del dono di noi stessi. Per vivere d’amore, è necessario sperimentarlo. Ecco perché è in famiglia che l’amore deve stillare dagli occhi dei genitori, dalle parole e dai gesti loro, dal silenzio di chi non comprende sempre le esigenze dei figli e dalla preghiera di chi sa che è essenziale affidarsi a Dio per essere potenziati nella carità da donare e nell’offerta che non deve mai attendere il contraccambio per essere modellata su quella di Gesù crocifisso. Nell’incontro con Cristo, Parola di salvezza, Pane vivo sull’altare, nell’abbraccio della persona che condivide con me la sfida di essere una carne sola scopro ogni giorno la grazia di vivere l’amore con la sua esigenza di totalità. Nell’Eucaristia mi immergo nel Cuore di Cristo per avere forza nel rinnegamento, senza guardare al mio uomo vecchio destinato a morire sotto i colpi dello Grazia, seduto accanto a Gesù, con il capo reclinato sul suo petto, come il discepolo amato, vivo quell’intimità che vince le mie resistenze e mi fa stare sotto la croce del mio Signore, comprendendo che nessuno può dire di amare sul serio se non muore a se stesso.

La nostra scelta

A differenza delle due precedenti dispute (cf. Mt 22,22.33), non c’è nessun epilogo nel brano odierno del Vangelo che trasmetta la disfatta degli avversari di Gesù. La scena, infatti, sembra rimanere aperta, quasi a preparare quella che segue nella quale sarà Gesù a porre una domanda che rimarrà senza risposta, decretando – è quanto appunta l’Evangelista in 22,46 – la fine di ogni altro interrogatorio. Dinanzi alla riposta di Gesù il dottore della Legge scompare, entra nel silenzio, quasi avvolto da quella parola che lo ha circondato, da quella citazione della Scrittura che ha ben legato due passi in un unico grande impegno, vivere ad oltranza l’amore. Il silenzio avvolge la scena perché dinanzi a Cristo che ama c’è solo spazio per la contemplazione. Anche per noi la parola di Gesù è una spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12) ed attende una risposta. Anche per noi la pagina evangelica rimane aperta perché Cristo attende che anche noi, come Lui, facciamo dell’amore il cuore della nostra vita, della misericordia la medicina dei nostri rapporti, della tenerezza il calore dei nostri abbracci, della carità sua in noi la forza del nostro farci servi dei fratelli. L’amore non si comanda, è vero, ma chi si sente amato avverte l’esigenza di ricambiare l’amore come un impellente obbligo che lo attende. Chi ama e ha scoperto l’amore non si dà pace se non lo ridona. È questo il segno dell’amore che Dio comanda, l’esigenza che nasce nella vita di chi ha scoperto l’amore di Cristo e sa che non può vivere senza inabissarsi in quel Cuore, divenendo propagatore di quell’oceano smisurato di misericordia che tutti attende ed ogni vita vuol infiammare di carità.




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