Cristo Re dell’Universo - Anno A - 26 novembre 2017

Amare è desiderare per l’altro la vita eterna

di fra Vincenzo Ippolito

La vita eterna non dipende dalle nostre azioni perché nessun atto umano, per quanto buono, potrà mai meritare il Paradiso. Dall’altra parte, però non dobbiamo credere che il nostro disinteresse porterà Dio ad usarci misericordia, senza il nostro concorso fattivo, semplicemente la nostra parte, secondo i talenti che Egli ci ha elargito.

Dal Vangelo secondo Matteo 25,31-46
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

 

Nell’ultima domenica dell’anno liturgico, la Chiesa celebra la regalità universale di Gesù Cristo perché è Lui, “suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana” (Costituzione pastorale del Concilio ecumenico Vaticano II Gaudium et Spes 10). Se nelle scorse domeniche le pagine del Vangelo ci hanno mostrato l’esigenza di essere vigilanti e di attendere operosi il ritorno di Cristo, oggi ci è donato di contemplare il Signore, seduto nella gloria, circondato dagli angeli, nel gesto supremo di giudicare tutti i popoli.
Sorta in tempi in cui iniziavano ad imperare i regimi totalitaristi – Pio XI istituì questa festa nel 1924 – la solennità odierna voleva con forza affermare che Gesù Cristo è l’unico re e la sua signoria eterna. Purificata del trionfalismo di tempi passati e meglio compresa sulla base della sacra Scrittura, la regalità di Cristo mostra i suoi caratteri essenziali nell’umiltà, nell’abnegazione, nel servizio, nel perdono, nella misericordia, nel dono di sé per amore dei fratelli. Il trono del nostro Re è la croce, suo scettro una canna, sua corona delle spine incrociate. Ecco perché è necessario – come spesso ricorda papa Francesco – rifuggire la mondanità e non desiderare nulla che non rifulse nel nostro Signore Crocifisso.

Dalle parole ai fatti

Il brano liturgico odierno è la parte finale del discorso che Gesù rivolge ai suoi discepoli, seduto sul monte degli Ulivi (cf. Mt 24,3), difronte alla città santa di Gerusalemme. È questa la terza ed ultima domenica – dalla prossima inizieremo un nuovo anno, con la I Domenica di Avvento – che la liturgia attinge dal capitolo XXV del Vangelo secondo Matteo e questa pagina è significativa, soprattutto perché rappresenta lo spartiacque tra il ministero pubblico di Gesù e gli eventi della Pasqua che l’Evangelista inizierà a descrivere dal capitolo successivo. L’autore, dopo aver ampiamente parlato del ritorno glorioso del Signore e del suo giudicare i vivi ed i morti, instaurando il suo regno che non avrà fine, vuol donare il criterio di separazione tra pecore e capri. Il giudizio di Dio – sembra dirci Matteo – non rispetta il nostro modo di vedere e giudicare la storia, perché – come aveva già dimostrato nella parabola degli operai chiamati a giornata, cf. Mt 20,1-16 – Dio amministra la giustizia senza parzialità, fedele alla parola data. Se il Maestro aveva già prima ammonito i suoi: “Non chiunque mi dice «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21), mostrando che è la concretezza della vita ad essere segno dell’amore che si porta a Lui, ora proprio le opere sono il segno che già sulla terra si è costruito il suo regno, attraverso quel vincolo di carità che sarà perfetto in cielo.

Il Signore verrà

La pagina evangelica si apre con una scena solenne. L’Evangelista sembra disegnare una grande sala dove il Signore giunge e si siede “seduto sul trono della sua gloria”, circondato dagli angeli, che sono la sua corte e dalla gloria che accompagna da sempre, nelle pagine dell’Antico Testamento, la rivelazione di Dio. Una scena simile la si trova nel libro di Isaia (6,1ss), dove il profeta rimane atterrito dalla visione del Signore, “seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano serafini […] Proclamavano l’uno all’altro: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo” (Is 6,1-4). La gloria è il segno della presenza di Dio, la rivelazione del Figlio dell’uomo (cf. Dn 7,14), re e signore, non più nascosto nell’umanità assunta nel grembo della Vergine Maria, ma ora manifesto a tutti, poiché “[Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti, il sovrano dei re della terra] viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero” (Ap 1,5.7).
Se c’è una continuità di fondo tra il nostro brano e le precedenti parabole dell’intendente (cf. Mt 24,45-51), delle vergini (cf. Mt 25,1-13) e dei tre servi (cf. Mt 25,14-30) – ogni scena si conclude con la venuta del Padrone o dello Sposo e con il suo giudizio che determina premiazione o condanna – nella pagina evangelica odierna notiamo qualche significativo accento: Gesù è il sovrano della storia e siede sul trono come giudice, non di un numero ristretto di persone, ma di tutte le genti. “Dinanzi a Lui verranno radunati tutti i popoli” (v. 32) scrive Matteo. Ci sarà un momento, che coincide con la fine del mondo, in cui tutti compariremo dinanzi a Dio. Non solo sorella Morte livella le sorti di ogni creatura, ma il giudizio finale pacifica le disuguaglianze riscontrate in vita perché, quando i corpi risorgeranno e si uniranno alle anime, allora saranno vagliate al fuoco tutte le genti, di ogni nazione, popolo e lingua.
Per i discepoli le parole del Maestro suonano come una profezia ed una rassicurazione. Come lo splendore del Tabor (cf. Mt 17,1-9) prepara Pietro, Giacomo e Giovanni a vedere al di là della Pasqua la gloria del Cristo risorto, così l’insegnamento di Gesù serve ai discepoli perché affrontino la sua passione, ormai alle porte, sostenuti dalla speranza – che per noi cristiani è certezza – della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Il discepolo può attraversare le difficoltà di questo mondo solo se contempla, come un giorno Stefano, “i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (At 7,56).

È importante nella nostra vita essere sostenuti dalla certezza del ritorno di Cristo e della sua vittoria finale. Il pensiero che Egli verrà, alimenta il nostro desiderio di non gettare la spugna davanti alle sfide della storia, perché il bene alla fine trionferà e con Cristo coloro che hanno perseverato nel camminare secondo la volontà del Padre. Senza avere un sguardo sulle realtà eterne, al mondo che verrà, che senso ha il nostro portare la croce dietro a Cristo Gesù? Lo stesso san Paolo vede che il senso della vita cristiana sta nel mistero pasquale di Gesù, in caso contrario la nostra fede perde di mordente e tutto è livellato alla vita su questa terra. Invece, “la nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Fil 3,20-21).

Cosa significa per me aspettare il ritorno del Signore? Ho paura di comparire un giorno davanti a Dio come giudice? Faccio ammenda delle mie colpe e cerco di imparare dalle situazioni passate a non cadere negli stesi errori? Come mi immagino il mio giudizio particolare, quello dopo la morte? E il giudizio universale, alla fine della storia? Il mio impegno sulla terra è orientato e sostenuto dal pensiero della vita eterna? Penso al Paradiso e cerco di comportarmi in maniera da essere un giorno anch’io partecipe del Regno che verrà?

Separare le pecore dai capri

La figura austera e solenne del re è paragonata a quella umile del pastore. Potrebbe suonare strano, ma questo serve a mostrare come in Cristo Gesù coesistano la regalità e la semplicità, l’umanità e la divinità, la grandezza e la piccolezza, la povertà e la ricchezza. Le immagini che si utilizzano nella Scrittura, pur non potendo descrivere appieno il mistero di Dio, offrono delle significative indicazioni per cercare di comprendere il mistero che rimarrà sempre tale. Per quanto Dio sia il Creatore ed il Signore, non di meno si è fatto nostra Guida e Pastore. La separazione di tutte le genti in due categorie segue l’osservazione di un criterio oggettivo per coloro che si presentano a Lui. Come il pastore non divide il gregge, se non in base alla loro natura – capri e pecore – così il Figlio dell’uomo distingue gli uomini a seconda di come hanno vissuto. L’Evangelista sta dicendo che il giudizio di Dio ratifica una situazione che è dipesa unicamente dall’uomo. Siamo noi, infatti, che abbiamo tra le mani il futuro che ci attende per l’eternità, siamo noi che possiamo costruire il regno dei cieli con i mattoni delle nostre scelte buone, la malta della nostra piena disponibilità a Dio e ai fratelli, il desiderio di essere operatori di pace, lievito di fraternità, luce di comunione, testimoni credibili dell’amore che costruisce ponti e non innalza mai cortine di separazione. Il Signore giudica sulla base della scelta da noi operata sulla terra, partendo da come abbiamo vissuto le nostre relazioni familiari, l’impegno profuso nel rendere migliore il contesto nel quale il Signore ci ha posti perché tutto venisse trasformato, con la sua forza, in Regno di Dio. Può suonare strano per noi, ma Dio guarda le nostre vite e prende coscienza delle nostre scelte, se l’abbiamo cercato, amato ed incontrato qui in terra o se, di contro, abbiamo vissuto senza di Lui, solo per noi stessi, facendo del nostro ventre il Dio da adorare (cf. Rm 16,18), del denaro l’idolo al quale prostrarsi, dell’egoismo il criterio unico da applicare in ogni situazione. È difficile da comprendere questo per noi, solitamente abituati – si pensi al servo malvagio e pigro della parabola dei talenti della scorsa domenica, cf. Mt 25,24-25 – ad avere una idea di Dio che non rispecchia la bontà e la misericordia che Egli è e manifesta nella nostra vita.

Il Signore mette nelle nostre mani la sua casa, ci affida i suoi beni, ci offre possibilità incalcolabili, perché non le sfruttiamo per il nostro bene? Quale strada scegliamo ogni giorno? Dio vuole il nostro bene e non causa mai il nostro male perché non può volerlo. Mi rendo conto che spesso il male è causato dalle nostre scelte sbagliate? Viviamo in famiglia la responsabilità delle nostre azioni personali oppure, come nel giardino dell’ Eden, facciamo a scarica barile?

Dinanzi a noi, due vie, benedizione e maledizione

Per quanto la nostra attenzione solitamente si fermi su quelle che sono state definite le opere di misericordia corporale, non possiamo sorvolare sul premio e la condanna che la pagina evangelica ci ricorda con forza. Le due vie che sono dinanzi all’uomo, oltre ad essere un luogo comune di ogni cultura, come anche della letteratura biblica – lo diventeranno anche di quella cristiana di tutti i tempi – sono la conseguenza delle scelte dell’uomo durante la sua vita sulla terra. Quello che più colpisce è che il destino finale è definito “regno … preparato fin dalla fondazione del mondo” per coloro che sono “benedetti del Padre mio” (v. 34) mentre il castigo “nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli” attende i “maledetti” (v. 41). Parole consolanti le prime, che mettono nel cuore la gioia della comunione eterna con Dio, mentre le altre muovono al pianto e allo stridore di denti coloro che le ascoltano e con essa vengono condannati all’eterno supplizio. La arti umane di tutti i tempi, dalla letteratura alla pittura, hanno tradotto, secondo il proprio linguaggio, la solennità di questa scena. Per quanto siano passati secoli, restiamo estasiati leggendo le terzine della Divina Commedia di Dante Alighieri – come egli renda così plasticamente il gaudio dei beati nel canto e la dannazione dei reprobi nell’inferno resta un segreto della sua inimitabile arte poetica – e la sua parola non meno incanta delle armoniche figure del Giudizio universale di Michelangelo, nella Cappella Sistina, dove il Cristo, nella mandorla luminosa partecipa la sua vita risorta alla Madre prima e poi, per gradi, a tutti i beati, mentre i demoni violentemente trascinano i dannati.

Sembrano spariti dalla nostra predicazione i novissimi – così il catechismo indicava con un solo termine le verità ultime: morte, giudizio, inferno, paradiso – ma il fatto che non se ne parli, non significa che siano stati cancellati dalla fede della Chiesa. Per un buonismo che dovunque serpeggia, si è portati a credere che Dio alla fine del mondo introdurrà nel suo Regno tutti gli uomini. Lo speriamo di cuore, ma la Scrittura non dice questo. Dio è sì buono, misericordioso e grande nell’amore, ma la ricchezza della bontà di Dio, della sua clemenza e della sua magnanimità non va disprezzata. La bontà di Dio motiva la nostra conversione (cf. Rm 2,4) che non è la perfezione morale, frutto del nostro titanico sforzo, ma un graduale cammino nel quale fare sempre più spazio al Signore e alla potenza del suo amore. Dio è l’autore della nostra salvezza, ma il suo Spirito deve agire in noi, prendere possesso della nostra vita. Cristo chiede collaborazione alla redenzione che Egli ha compiuto, disponibilità alla sua grazia. La vita eterna non dipende dalle nostre azioni perché nessun atto umano, per quanto buono, potrà mai meritare il Paradiso. Dall’altra parte, però non dobbiamo credere che il nostro disinteresse porterà Dio ad usarci misericordia, senza il nostro concorso fattivo, senza che noi facciamo la nostra parte, semplicemente la nostra parte, secondo i talenti che Egli ci ha elargito. Il bene che compiamo non è condizione della nostra salvezza, ma segno che abbiamo incontrato Dio ed Egli ci introdurrà nelle dimore eterne, se noi gli avremo fatto spazio nella nostra vita. Gesù lo ha detto senza mezze misure: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio” (Mt 10,32-33). “Io ho posto davanti a tela vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita” (Dt 30,19). Sono io che costruisco il mio futuro eterno, non con la mia volontà che crede di non aver bisogno della grazia di Dio, quanto invece con la mia risposta quotidiana a quel Dio che vuole essere parte di me e della mia famiglia, della mia comunità. Non c’è un santo che non abbia avuto sempre dinanzi agli occhi il giudizio di Dio, non per tremare dalla paura, ma per compiere ogni azione alla luce dell’eternità ed avvertire che tutto nella vita può divenire segno che il presente è bello solo in funzione del futuro che verrà.

Sento che sulla terra sto costruendo il mio destino eterno? Approfitto della bontà di Dio oppure sono ben convinto che sono sempre in cammino sulla strada della progressiva conversione? Vivo già su questa terra la gioia della benedizione, accogliendo Dio nella mia famiglia e facendo spazio alla sua volontà? Mi sento responsabile della felicità eterna di colei/ colui che mi sta accanto e dei miei figli? Facciamo tutto nella luce di Dio e del suo disegno di amore su di noi?

Unico criterio è la carità

È semplice la struttura del brano evangelico odierno perché si divide facilmente in due parti (vv. 34-40 e 41-45), precedute da un’introduzione (vv. 31-33) e seguita da una conclusione (v. 45). Tutti i popoli che compaiono dinanzi al Signore accolgono il giudizio di Dio, ma si stupiscono, sia i benedetti che vengono collocati alla destra che i reprobi che trovano spazio alla sinistra del trono di Dio. Il criterio che il re applica a tutti, indistintamente, è la carità esercitata nei riguardi dei piccoli. Al re interessano le opere fatte per il bene dell’altro. È una pagina scandalosa per noi questa: Cristo accoglie nel suo Regno non chi lo ha riconosciuto e servito nei poveri, ma semplicemente chi ha servito i poveri. Così anche Giovanni, nella sua Prima Lettera, scrive: “chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8). L’amore per se stesso porta alla conoscenza di Dio. Il Discepolo amato non scrive chi ama Dio conosce Dio, ma semplicemente “chiunque ama è stato generato da Dio” e, volgendo al positivo la frase del v. 8, possiamo dire, chi ama, ha conosciuto Dio. L’amore, come capacità di morire a se stessi e di fare spazio all’altro è sacramento di Dio, segno efficace della sua presenza, partecipazione alla vita di Cristo. A Cristo interessa che si viva d’amore. Come non far tesoro delle parole della piccola Teresa di Gesù Bambino del Volto Santo nel suo Vivere d’amore? Così ella scrive:

Vivere d’amore, quaggiù, è un darsi smisurato, senza chieder salario; senza far conti io mi dò, sicura come sono che quando s’ama non si fanno calcoli. Io ho dato tutto al Cuore divino che trabocca di tenerezza! e corro leggermente… Non ho più nulla, e la mia sola ricchezza è vivere d’amore. (S. TERESA DI GESÙ BAMBINO, Gli Scritti, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1979).

Amare senza fare calcoli, è questo che chiede il Re dei re, amare senza guardare il volto di chi servi, amare senza sentirti raggiunto dai rimproveri di chi ami, amare senza far conto delle catene del suo tradirti, amare senza ricordare le notti del tuo vegliarlo ammalato, amare facendo del tuo cuore il suo pane, del tuo sangue la sua acqua, proprio come fa Gesù che, nell’Eucaristia, diventa cibo e bevanda di salvezza in quel delirio di misericordia che all’uomo appare pazzia. Il Re vuole questo da te: un amore che accoglie senza che ci siano orari per chi bussa, un amore che mai smette di stare, rimanere inchiodati accanto a colui che mi sta accanto e che io amo, senza trovar tregua al mio amarlo.
Tutti, giusti e reprobi, chiedono al Signore semplicemente “Quando …?”. Amare per chi ama non è una scelta, ma un’esigenza del cuore, amare per chi ama è soltanto legge di necessità perché chi ama, pur volendo, non sa non amare, perché farlo significherebbe morire. Chi ama, si può imporre di non amare, può cercare di convincersi a desistere dal farsi portare dal cuore, ma in quella lotta contro se stesso, a vincere sarà sempre e solo l’amore. Intender non lo può – dice il sommo Poeta – chi non lo prova. A chi ama non puoi dire non amare, sarebbe come dire al vento non soffiare e alle onde del mare: Evitate qualsiasi scroscio, mentre vi abbattete sulla spiaggia. Chi ama è pago del semplice amare, perché l’amore è premio e ricompensa per se stesso. L’amore – scrive san Bernardo di Chiaravalle – è sufficiente per se stesso, piace per se stesso e in ragione di sé. È se stesso merito e premio. L’amore non cerca ragioni, non cerca vantaggi all’infuori di Sé. Il suo vantaggio sta nell’esistere. Amo perché amo, amo per amare.

Fare le cose per amore significa farle per Dio. Soccorrere il fratello assetato, affamato, forestiero, nudo, malato, in carcere significa servire Dio. In questo modo, il giudizio finale più che chiudere la porta del regno dei cieli, la apre, anzi la spalanca, perché non il bene che cerca la ricompensa merita il paradiso – “Hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt 6,2.5.16) dice Gesù a coloro che fanno l’elemosina, digiunano e pregano per essere visti dalla gente – ma la carità gratuite e disinteressata. Gesù ha già annunciato il nostro stupore nell’ultimo giorno, dicendoci “i pubblicani e le prostitute vi passeranno avanti nel regno dei cieli” (Mt 21,31). Una moltitudine immensa di ogni nazione, tribù, popolo e lingua (cf. Ap 7,9a) starà “davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in veste candide, [… con] rami di palme nelle mani” (Ap 7,9b) unicamente perché ha vissuto di amore, ha praticato la carità concreta, nel silenzio e nel nascondimento, per la pura gioia che sta nel servire. “Non dimenticate l’ospitalità – ammonisce l’autore della Lettera agli Ebrei – alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli” (Eb 13,2). Noi senza saperlo, possiamo accogliere e servire Gesù. Non bisogna cercarlo, né riconoscerlo. Basta solo amare i poveri, come ha fatto Lui.

Nell’attesa di quel giorno, la piccola Teresa guidi la nostra preghiera:

Morir d’amore è il ben dolce martirio di cui vorrei soffrire. Cherubini, accordate i liuti, ché il mio esilio, lo sento, sta per finire… Dardo di fuoco, consumami senza tregua, e feriscimi il cuore in questo triste soggiorno. Divino Gesù, avvera il mio sogno, morir d’amore!
Morir d’amore, ecco la mia speranza: quando vedrò spezzati i miei lacci, Dio sarà la mia gran ricompensa: non voglio altri beni. Son tutta presa del suo amore, e venga, dunque, a stringermi a sé per sempre. Ecco il mio cielo, il mio destino: Vivere d’amore!
(S. TERESA DI GESÙ BAMBINO, Gli Scritti, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1979).




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