Legalità

Diamo più spazio alla pastorale della legalità, senza paura

di Michela Giordando

“Per amore del mio popolo non tacerò”: lo scriveva don Peppe Diana, falcidiato a Casal di Principe per il suo impegno anticamorra. Ma, ancora oggi, il compromesso morale è dietro l’angolo e c’è sempre più bisogno di imparare, dai martiri della giustizia, il coraggio dell’onestà fino alla vita.

Appena qualche giorno fa, “girovagando” nel web, mi sono imbattuta in una di quelle discussioni virtuali che esaspera i toni. Si analizzava un grave fatto di cronaca, al momento senza responsabili per una fitta coltre di omertà che non ha consentito di fare giustizia. Uno dei lettori, con solennità, ha sentenziato: “Il colpevole non sfuggirà al tribunale di Dio”, tentando, inutilmente, di chiudere così la discussione che, dalle legittime istanze di giustizia, stava, lentamente, scivolando sui binari del più bieco giustizialismo, del tipo “dategli fuoco” o “passateci sopra con un tir”.

In un attimo mi sono ritornate alla mente le parole che l’amato Giovanni Paolo II pronunciò nel suggestivo scenario della Valle dei Templi di Agrigento. Era il maggio del 1993, un anno esatto dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, uno squarcio nella storia del nostro Paese e nelle coscienze di molti. Fu la prima volta che vidi il Pontefice davvero adirato, volto scuro e mascella serrata. Con il dito indice sollevato, in un fermo immagine che mi riportò alla mente il fra Cristoforo de “I promessi sposi”, ai responsabili di tanto orrore urlò: “Convertitevi: una volta verrà il giudizio di Dio”. Non ho gli strumenti teologici per interpretare le parole di un Papa, ma allora come oggi, io le intendo così: certamente, il Cristo giudicherà in cielo nella sua infinita Misericordia, ma è davanti agli uomini, sulla terra, che deve cominciare quella sorta di percorso di redenzione cui ciascun essere umano ambisce e il primo passo non può che essere la conversione. Il che coincide con l’assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Non è che, in attesa del giudizio di Dio, ci si può sottrarre da quello dei giudici!

È un tema che mi infervora, quello del tiepido interesse di alcuni parroci (mi rifiuto di dire “della Chiesa”) sul tema della criminalità organizzata. Capisco che, chiamando ancora in causa il Manzoni “il coraggio uno non se lo può dare”, ma sarebbe giusto, ogni tanto, ricordare, dal pulpito delle omelie, che se, prima di andar a Messa (sedendoti magari al primo bianco) hai dato ordine di ammazzare qualcuno, spacciato droga, estorto denaro ad un commerciante, allora non puoi partecipare ai Sacramenti.

Trovo che una Pastorale della legalità sia poco diffusa nelle diocesi e nelle parrocchie. Penso al sacrificio di don Pino Puglisi, parroco coraggioso del quartiere palermitano di Brancaccio, ucciso per non aver mai distolto lo sguardo. Penso all’esempio di don Peppe Diana, falcidiato da una raffica di colpi, a Casal di Principe, per aver rilanciato con forza il suo impegno anticamorra. “Per amore del mio popolo non tacerò”, scriveva don Diana in un documento che farei studiare al catechismo, proponendolo come riflessione ai nostri bambini o ai ragazzi dei percorsi successivi alla Prima Comunione. Invece, spesso, grandi dita puntate su altre questioni. Non so, ma io trovo più grave essere un mafioso!




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