La morte di Frizzi

Fabrizio Frizzi: il mio elogio alla gentilezza

di Michela Giordano

La morte di Frizzi schiude orizzonti di pensiero importanti e induce una domanda: cosa vuol dire senso di responsabilità verso il bene altrui? Qual è il senso vero del termine gentilezza, legalità e giustizia? Al mondo spesso il bene moltiplica il bene.

Ho sempre trovato stucchevoli i “cortei” dei personaggi famosi ai funerali di un collega vip: facce tristi e parole commosse, più o meno di circostanza, e magari l’accessorio di un famoso marchio in bella vista, chissà mai ci scappi una paparazzata. Di solito, cambio canale, perché l’ipocrisia del “siamo tutti amici” non la sopporto. La scorsa settimana, invece, mi sono ritrovata ad asciugare una lacrima, mentre seguivo, distratta, i funerali, in diretta televisiva, di Fabrizio Frizzi. Non sono mai stata una sua fan, né un’appassionata dei programmi che, nell’ultimo periodo, conduceva, eppure mi ha colpita l’infinito ripetere “un signore”, “una brava persona”, “un gentleman”, “un uomo buono”. Non so se lo fosse davvero e non è questo l’aspetto che mi interessa sottolineare. Il punto è un alto e riguarda la capacità di saper creare, su questa terra, una solida eredità di affetti, che sappia andare oltre i beni materiali. Il senso più profondo di quell’espressione, già cara ad Ugo Foscolo, che l’ha eternata nel suo carme più famoso, “dei sepolcri”, lo sto capendo solo ora, alla soglia dei 40 anni, con un bel pezzo di vita già alle spalle. Solo ora, dopo anni di affannosi “questioni di principio” e furibonde litigate, dopo decine di rotture di rapporti e delusioni, capisco realmente che il bene è l’unico moltiplicatore di bene.

È curioso che debba essere la morte di un personaggio famoso a farmi riflettere sulla circostanza, sul mio carattere, improntato alla rudezza dei modi e sul “vai a quel paese” facile che mi caratterizza. Non sono una cattiva persona, non faccio del male deliberatamente a quanti incontro sulla mia strada, però ho scarsa pazienza e sono intollerante agli “scemi”, come speso ripeto. Addirittura (ma, forse, questo è un comodo alibi) a volte ritengo di svolgere una funzione sociale, con i miei modi rudi: evitare rapporti di circostanza e non imporre presenze non gradite. Non mi piace perdere tempo in frequentazioni improntate alla convenienza e all’ opportunismo, quindi mi capita di non essere gentile, a volte finanche scostante e questo, in fondo in fondo, mi spiace, perché sono la prima a lamentarmi quando incappo in qualcuno che si comporti in egual maniera.

Non sempre mi dispiace, ma qualche volta sì, sinceramente. Le parole spese per descrivere Frizzi e le testimonianze su gesti privatissimi di solidarietà concreta nei confronti di persone meno fortunate mi hanno messa in crisi, riportando in auge il concetto di sobrietà, delicatezza, rispetto che tanto mi sono cari e che, tuttavia, solo poche volte riesco a praticare. Sembra strano che provenga proprio da me, donna dai modi spicci, l’elogio della gentilezza e non appaia fuori luogo che questo avvenga in uno spazio di riflessione pubblica solitamente riservato a discorsi di legalità, reati, giustizia. Perché, a pensarci bene, c’è un filo sottile che unisce tutti questi argomenti, la gentilezza e la legalità, e questo filo sottile è il “senso di responsabilità” verso l’altro: non so chi me l’abbia insegnato, né dove io lo abbia appreso, ma so che è sinonimo di “prendersi cura” dell’altro, riconoscendo, negli occhi che incontriamo nei nostri mille e variegati impegni quotidiani, i nostri stessi occhi. Prendersi cura di sé e degli altri, quindi, veramente destinando agli altri ciò che vorremmo fosse riservato a noi. Sembra facile, eppure in quanti ci riescono davvero? Io per prima faccio fatica. C’è bisogno di bene che moltiplichi il bene. Chi l’avrebbe mai detto che ci sarei arrivata grazie ai funerali di un presentatore tv?




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