Educazione

Giada: la paura del fallimento e l’assenza degli adulti

solitudine

di Giovanna Abbagnara

Giovani sempre più fragili e adulti sempre più assenti. Abbiamo abbassato l’asticella o abbiamo dimenticato di offrire loro orizzonti di senso? Il gesto di Giada interroga il mondo degli adulti e chiede risposte che si traducano in azioni concrete.

Ho quasi timore di scrivere su questo gesto di Giada che ci lascia attoniti e basiti. Mi sembra che le parole possano aggiungere solo peso ad una vicenda già così dolorosa e inspiegabile. Tuttavia come madre, come educatrice, come membro di una Chiesa che si prepara a celebrare un Sinodo sui giovani non posso non lasciarmi attraversare dall’ultimo atto disperato della vita di una ragazza di 25 anni e interrogarmi ancora una volta sul ruolo degli adulti e sulla nostra responsabilità nei confronti delle nuove generazioni.

Il gesto disperato di Giada è stato l’epilogo di una farsa che durava da anni: esami mai sostenuti pur frequentando i corsi, invenzioni di voti, tasse pagate anno per anno e addirittura anche il giorno prefissato per la seduta di laurea con tanto di scelta insieme alla mamma dei confetti per il sospirato traguardo. Fino alla scena ultima: la risposta alla telefonata del fidanzato che disperatamente la cercava, pochi attimi prima di lanciarsi nel vuoto da uno dei palazzi dell’Università di Monte Sant’Angelo a Napoli, dove quel giorno tutta la famiglia da Isernia si era radunata per festeggiarla.

La realtà parallela non poteva più reggere e Giada ha pensato di non avere vie di uscita. Tutto il castello era crollato. Come affrontare tutto questo? Come spiegare tutte le bugie? Come giustificare quei lunghi anni? A chi consegnare il peso di quelle verità nascoste?  Solitudine, isolamento, disperazione e nessuna rete pronta a sostenere il profondo disagio in cui si trovava Giada.

Le riflessioni possono essere tante e interessare più livelli. Dal mondo della scuola al rapporto con il fidanzato e le amiche, dal profilo psicologico a quello relazionale. Senza voler entrare nella vicenda personale di Giada, il suo gesto mi interroga innanzitutto sulle relazioni familiari. Un tempo le bugie si dicevano per timore del padre o della madre, per la loro reazione di rabbia nei nostri confronti. Oggi però i genitori sono molto più accudenti, molto più affettuosi, pronti a fare da cuscinetto a qualsiasi problema o difficoltà che un figlio deve affrontare. E allora? Come spiegare in questo clima, apparentemente più permissivo questo profondo disagio? Non sono certamente uno psicologo, parlo da madre e da educatrice di un gruppo di giovani e ho l’impressione che questa iper-protezione nei confronti dei figli ha generato un grande silenzio educativo che si traduce da un lato in un’incapacità di affrontare il fallimento e di cercare vie d’uscita davanti ad un problema, dall’altro nella grande assenza di adulti autorevoli cui rivolgersi. Giovani sempre più fragili e adulti sempre meno autorevoli.

E così oggi sul tuo profilo social puoi scrivere che vivi a Parigi o che fai quel mestiere piuttosto che il tuo, puoi ritoccare la tua foto per sembrare più bello, più giovane, più in forma perché tanto quel che vale è ciò che esiste sul virtuale. In questo clima come trasmettere ai giovani che la vita è sacrificio, impegno responsabilità? Che non c’è bisogno di mentire e che le difficoltà vanno affrontate a denti stretti, chiedendo aiuto senza timore di deludere le persone che amiamo?

Purtroppo dobbiamo senza maschere riconoscere che noi adulti non abbiamo tempo per accorgerci del disagio dei giovani, che non abbiamo pazienza di costruire insieme a loro un percorso di crescita. Anche nelle nostre realtà ecclesiali giochiamo al risparmio, abbiamo paura di indicare vette alte e impegnative. Abbiamo confuso l’affetto con l’accondiscendenza dei capricci, abbiamo riempito di cose le loro giornate e le loro camerette dimenticando di consegnare negli zaini, insieme alla merenda, la capacità e gli strumenti per affrontare la vita e le difficoltà che ci sono fuori dalla porta di casa.  E scusate, se apro una parentesi che forse non a tutti piacerà, ma per anni ho sentito sempre la solita filastrocca sul fatto che non è la quantità del tempo ma la qualità del tempo che passiamo con i nostri figli a determinare una buona relazione. Sì è vero. Una madre e un padre possono essere anche iperpresenti ma distratti e anaffettivi ma intanto bisogna esserci, bisogna “starci”, e quella presenza deve essere di peso, determinante, orientativa. E i figli impareranno anche dagli insuccessi dei genitori il modo per affrontare i propri fallimenti.

Io una soluzione dal mio punto di vista ce l’ho. Ed è la necessità di consegnare ai figli nella bisaccia della vita il dono della fede. Questo è il segreto della felicità che presuppone chiaramente che anche gli adulti abbiano una fede matura e che la incarnino in scelte coraggiose. Santa Zelia Guerin Martin, mamma di santa Teresa di Gesù Bambino, che di educazione ha molto da dire ai genitori di oggi, lavorava più di dieci ore al giorno e tuttavia non ha mai fatto mancare alle sue figlie non solo la sua presenza ma un’educazione capace di orientare al bene, di fortificare temperamento e carattere, di vivere le difficoltà come un’opportunità di crescita tanto che la sua opera educativa ha avuto un’eco straordinaria nel cuore delle figlie anche dopo la sua morte prematura.

Non è semplice. Io per prima mi rendo conto di quanto sia duro il lavoro di educazione, di quanta profonda conversione su noi stessi dobbiamo fare, di quanto amore, di quanto impegno, di quanta presenza si necessita. Ma il grido silenzioso di Giada non può restare inascoltato, deve essere raccolto e mentre con rispetto pensiamo alla disperazione dei suoi genitori e preghiamo perché Dio possa consolarli nel loro immenso dolore, chiediamoci qual è la nostra parte in questa storia.

 




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