Post aborto

“Anche se siamo contenti del figlio che nascerà, continuiamo ad immaginare come sarebbe stato quello non nato”

di Paola Marozzi Bonzi

Cosa succede nel cuore di una madre dopo l’aborto? Dal Cav della Mangiagalli di Milano, la toccante storia di due amiche unite da un filo invisibile.

Sara ed Emilia arrivano senza appuntamento nel mio studio al Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli.  Da noi la mattina è purtroppo tempo di aborti. Ogni giorno se ne fanno una decina. Le persone possono presentarsi in qualunque momento, visto che spesso non si può prevedere il momento in cui una madre anche pronta ad abortire, può cambiare idea. Sara ha 31 anni, due figli già nati e ne aspetta un terzo di cui è al sesto mese di gestazione. Sembra essere la persona a rischio ma non viene per se stessa, ad aver bisogno di aiuto è Emilia, 24 anni, a sei settimane di una gravidanza che vuole assolutamente interrompere.

Emilia fa molta fatica a parlare, la sua voce è bassa e non sembra padroneggiare il linguaggio, tanto che Sara mi chiede se può essere lei a riassumere la sua storia. Racconta così che Emilia ha avuto una relazione tormentata con il suo partner a causa della quale aveva chiesto un periodo di aspettativa al lavoro per ritornare dai propri genitori lontani. Durante questo soggiorno aveva scoperto di essere incinta e dato che nella sua terra l’interruzione volontaria della gravidanza non viene praticata, immediatamente era ritornata a Milano.

Sara è piena di premure affettuose nei confronti della sua amica che non comprendo del tutto. Continua a spiegarle che quello è il suo bambino, che non ha nessuna colpa e che lei e il marito aiuteranno Emilia a portare avanti la gravidanza. “Vogliamo convincerla – dice Sara – anche se i suoi problemi sono tanti e noi abbiamo già molti impegni”. Ma Emilia continua a dire di no. Perderebbe il lavoro, non vuole crescere un figlio da sola e poi ha anche un debito grosso da pagare e quindi non può permettersi di rimanere disoccupata. Propongo soluzioni, mostro una fotografia di un bimbo a quell’epoca gestazionale e offro aiuti anche economici ma lei insiste: non vuole il bambino. Il colloquio si protrae oltre il tempo normalmente utile per giungere ad una decisione. Tento, prima dolcemente poi con sempre maggiore determinazione, di mettere fine all’incontro, facendo presente che, essendo la gravidanza di sole 6 settimane, c’è ancora tempo per pensare e decidere. La più risoluta ad insistere è Sara, tanto che mi comunica che quel giorno avrebbe tenuto Emilia a casa sua. Mi sento confusa, come se la situazione mi stesse sfuggendo di mano e continuo a tentare di rimandare ad un prossimo colloquio a breve termine per poter prendere una decisione. Lascio che si parlino tra loro cercando di decodificare le mie emozioni aggrovigliate. Finalmente la situazione si sblocca: Sara mi chiede di poter essere ascoltata da sola. Emilia esce quasi sollevata e la sua amica scoppia in lacrime all’istante. Sono seduta sulla mia poltrona e lei mi si accoccola davanti dicendo: “Lei forse non si ricorda di me ma io sono venuta a parlarle due anni fa, quella volta però non ce l’ho fatta.  È stata la mia datrice di lavoro a convincermi ad andare ad abortire e non sono riuscita a dire di no, perché non potevo, non potevo proprio rimanere senza un’occupazione”. È un momento di grande dolore per entrambe e nel suo pianto Sara, oltre al bambino abortito, nomina anche il marito, e aggiunge: “Quando andiamo a letto, anche se siamo contenti che un figlio presto nascerà, continuiamo a parlare di come poteva essere l’altro che non è nato, e soffriamo insieme”. Ora capisco tutto e mi spiego la sua insistenza nel volere impedire alla sua amica di provare un dolore così grande!

Nella nostra società, purtroppo, esiste una situazione in cui l’individualismo e una sorta di omertà impediscono di rivelare alle donne il grave malessere della sindrome post-aborto, che lascia nella psiche femminile importanti ferite che non si rimargineranno.

 




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