
La nostra parte
di don Silvio Longobardi
Dal Vangelo secondo Marco (Mc 4,26-34)
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Il commento
“Così è il regno di Dio” (4,26). L’evangelista Marco dice che Gesù annunciava la parola “con molte parabole” (4,33) ma ne riporta solo tre: oltre a quella del seminatore (4,1-20), quelle che oggi propone la liturgia. La prima parabola presenta il Regno con l’immagine di “un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa” (4,26-27). Dopo aver fatto il suo lavoro, quest’uomo sembra disinteressarsi. Sembra un elogio del quietismo, un invito a fare lo stretto indispensabile. In realtà è esattamente il contrario, Gesù invita i discepoli a non stancarsi mai di gettare il seme: come la terra ha in sé la forza di accogliere e far germogliare il seme, così nella storia umana lo Spirito, attraverso canali misteriosi, dona forza salvifica alle nostre parole. I discepoli di Gesù, però, hanno il compito di seminare e devono farlo con passione e generosità. Dio farà la sua parte e donerà frutto, ben oltre il nostro impegno e i nostri meriti. Da questo intreccio fecondo – opera dell’uomo e opera di Dio – cresce il Regno. Dobbiamo seminare anche quando appare inutile, anche quando abbiamo l’impressione che non può nascere nulla di buono. Dobbiamo impegnarci senza la pretesa di vedere i frutti, sarà Dio a portare a compimento, nei tempi e nelle forme che Lui conosce, l’opera che noi abbiamo iniziato.
Non è sbagliato interpretare questa Parola alla luce del cammino di fede. In effetti, la parabola evangelica descrive un graduale processo di maturazione: “Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga” (4,28). Come possiamo diventare veicoli efficaci della Parola se prima non permettiamo alla Parola di portare frutto nella nostra vita, se non diventiamo noi stessi i testimoni della fecondità di Dio? “Non farmi vedere l’atleta nell’allenamento, ma nella gara; non mostrarmi la religiosità nel momento della lezione, ma nel momento dell’azione”. Con questo esempio, san Giovanni Crisostomo invitava i fedeli alla coerenza. È la grazia che oggi chiediamo.
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