XIX Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 12 agosto 2018

Chi è abituato a mormorare, non riesce a vedere il lato bello della vita

triste

di Fra Vincenzo Ippolito

La mormorazione è il contrario della fede. Chi si lamenta, considera se stesso superiore a Dio e agli altri, crede non in Dio, ma in se stesso ed il proprio io, unico orizzonte di vita, diventa il grande antagonista del Signore.

Dal Vangelo secondo Giovanni ((6,41-51)
Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!
In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: Io sono il pane disceso dal cielo quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbi, quando sei venuto qua?».
Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mose che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

 

Anche queste domenica ci troviamo nella sinagoga di Cafarnao, per continuare ad ascoltare il Maestro, che conduce i Giudei a comprendere il segno del pane moltiplicato per i cinquemila. C’è una certa ritrosia da parte della folla nell’accogliere l’insegnamento di Gesù. Preoccuparsi del cibo materiale è più semplice del darsi da fare per il nutrimento che non passa. Senza lasciarsi vincere dal senso di disfatta, che la mormorazione di molti potrebbe far sorgere, Gesù sta giungendo al cuore del suo discorso, la rivelazione del suo essere “il pane vivo discorso dal cielo”. Si tratta del momento di maggiore intensità del brano giovanneo, che porterà allo scontro aperto con i Giudei – lo vedremo la prossima domenica – incapaci di accogliere la parola del Cristo e di lasciarsi determinare da essa, per avere in se stessi la vita di Dio che solo il Maestro può dare.

In unità tematica con la pagina evangelica, la Prima lettura (cf. 1Re 19,4-8) ci offre un brano tratto dal cosiddetto “ciclo di Elia” (cf. 1Re 17,1-2Re 2,18). Il profeta, minacciato di morte dalla regina Gezabele, scappa impaurito per salvarsi. Nella fuga, stanco nel corpo e spossato nel cuore, è ristorato da un angelo. “Si alzò, mangiò e bevve – conclude il testo liturgico – Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (1Re 19,8). Invece, la Seconda Lettura, anche questa domenica tratta dall’Epistola agli Efesini (4,30-5,2), ci presenta una serie di accorate ammonizioni che l’Apostolo rivolge ai suoi per essere imitatori di Dio e camminare nella carità, non rattristando lo Spirito Santo che abbiamo ricevuto in dono, il giorno del battesimo.

Come in antico (Prima Lettura), così anche oggi Dio ci sostiene, nella nostra vita, non con il dono di beni materiali, ma offrendoci il suo stesso Figlio come cibo e bevanda di salvezza (Vangelo). È Lui che ci guida, presenza silenziosa, compagno di viaggio, a vivere nell’amore, “offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Seconda Lettura).

Un insegnamento che crea sconcerto

In continuità con la pagina evangelica della scorsa domenica (cf. Gv 6,24-35), soltanto pochi versetti (36-40), la pericope odierna (cf. Gv 6,41-51), inizia, presentandoci la reazione della folla, dinanzi all’insegnamento del Nazareno. Scrive Giovanni: “I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: Io sono il pane disceso dal cielo” (v. 41). L’incapacità di comprendere la parola ascoltata e la cattiva volontà di passare dal segno del pane che li ha sfamati a Gesù, vero ed unico segno di salvezza, porta i Giudei ad indurire il cuore – “Non indurite il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto”, recita il salmo – rifiutando la sua persona e quanto Egli opera. È spontaneo associare la situazione che l’Evangelista ci presenta al lamento del popolo nel deserto, per la mancanza di cibo (cf. Es 16,2.7.8). Difatti, con il termine mormorare, l’autore sembra riprendere il racconto biblico della manna, che, già richiamato in precedenza (cf. Gv 6,31-33) rappresenta l’orizzonte dell’intero capitolo. Gli ascoltatori di Gesù, sembra dire l’Evangelista, sono simili alla generazione dei figli d’Israele che, in preda alla fame, si lamentano contro Mosè che li aveva fatti uscire dal paese d’Egitto. L’autore del libro dell’Esodo mostra che la ribellione non è contro Mosè, ma contro Dio, dal momento che la radice del grido del popolo è la mancanza di fede nel Signore. Quando manca la fiducia in Dio, alla prima difficoltà, si è pronti ad insorgere con forza contro il Signore, per affermare il proprio disappunto e non condividere il cammino che Egli ci propone.

L’immagine della mormorazione, più che esprimere aperta ostilità – Gesù dirà “Non mormorate tra voi” (v. 43), lasciando intendere che si tratta di un’azione fatta senza farsene accorgere – mostra quella lamentela strisciante e nascosta che scava lentamente, come una goccia, e consuma nel cuore dell’uomo il desiderio di credere e di fidarsi di Dio. Aver fede è la grande sfida che il popolo deve vivere. Abbandonare le proprie sicurezze, credere che il braccio del Signore è sempre snudato per operare la salvezza e la liberazione dei suoi figli, non appoggiarsi alla propria intelligenza e non confidare nei ragionamenti umani, lasciando che sia Dio a pensare a coloro che ama rappresentano le tappe del cammino di crescita di Israele nel deserto. È semplice aver fede e cantare al Signore, mentre si aprono le acque del mar Rosso ed il popolo passa all’asciutto o quando i flutti precipitano sui cavalli ed i cavalieri dell’esercito nemico. È nella difficoltà che si vive di fede, nella tempesta che l’uomo deve vivere l’abbandono, fidandosi di Colui che sembra dormire sul cuscino, a poppa della barca. Le labbra generano la mormorazione, quando il cuore non crede, allora si innesca la lamentela e il veleno mortifero della maldicenza si espande, rendendo acre ed invivibile l’aria circostante. Tutto parte dal cuore – quanto dovremmo meglio riflettere sulle parole del Maestro “Dal cuore dell’uomo escono i propositi di male” (Mc 7,21) – perché nella cella segreta dell’anima si decide se accogliere o rifiutare Dio, come Signore e Padre. La mormorazione, infatti, è il contrario della fede. Chi si lamenta, considera se stesso superiore a Dio e agli altri, crede non in Dio, ma in se stesso ed il proprio io, unico orizzonte di vita, diventa il grande antagonista del Signore. Colui che mormora presume di essere in grado di giudicare ogni cosa, di discernere il bene dal male – la tentazione di Adamo ed Eva è sempre in agguato! – crede che le categorie della sua mente siano il metro di misura del comportamento degli altri e perfino Dio non sfugge alla ghigliottina del suo giudizio.

Quando non si ha la capacità di percepire la presenza di Dio, di considerare che la sua parola ci provoca ad una risposta di senso, ad entrare con maggiore consapevolezza nel nostro vissuto, per dare spessore alla vita, quando il Signore ci appare nemico, strana la sua opera, inspiegabile la sua azione, irrazionale il suo intervento, immotivato il suo destabilizzarci, ingiusta ogni sua richiesta, proprio allora iniziamo a lamentarci, tutto intorno a noi è buio, perché, a ben rifletterci, il nostro cuore è nella tenebra. Chi è abituato a mormorare, non riesce a vedere il lato bello della vita, non riconosce la presenza di Dio, non vuol accogliere con fede che il quotidiano, per quanto complesso, contiene il mistero dell’Eterno. Il lamentoso – chi può dire di non esserselo? – non è mai felice di nullo, c’è sempre qualcosa che non gli aggrada, la realtà non lo soddisfa e anche il Signore non risponde all’idee che egli pone come condizione da soddisfare, perché possa scattare la fede. Chi mormora non vede che Dio lentamente costruisce la sua storia di salvezza, pensa che l’orizzonte sia limitato al suo sguardo, non considera che, oltre a quello che riesce ad abbracciare con i suoi occhi, Dio prepara una terra nuova, dove avrà stabile dimora la giustizia. Quando non riusciamo a comprendere ciò che ci accade intorno, a capire le proposte del Signore, in ordine alla nostra gioia, ad accoglierle, a lasciarle decantare in noi, senza porre impedimenti che sono il segno delle nostre insicurezze e paure, allora la mormorazione diviene una sorta di scudo che serve per proteggere le nostre false sicurezze, a sentirci difesi da quanto potrebbe mirare la nostra pace apparente. I Giudei non vogliono accogliere Gesù e la sua parola, non vogliono saltare il guado della mentalità umana per approdare all’altra riva, quella dove si vive di pura fede e così, per giustificarsi, pescano dal cilindro della mente le argomentazioni più astruse per non obbedire. Le labbra chiacchierano a vuoto, se il cuore è incapace di accogliere Gesù e i fratelli, mentre la mente accampa le motivazioni più diverse, pur di giustificarsi nel rifiuto di Dio e della sua parola. È questo che fanno gli interlocutori di Gesù. Essi dicono: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire sono disceso dal cielo?” (v. 42), cercano di ridurre la portata del ministero di Cristo, livellano la sua parola, depotenziano la grazia che Egli media, sminuiscono il suo essere Figlio di Dio e lo considerano un uomo come gli altri. 

È così impossibile per i Giudei credere che Dio si riveli in Gesù? Appare così assurdo per loro accogliere la libertà di Dio, nell’incontrarci, come anche nello scegliere la via migliore e che Egli reputa più giusta per parlarci? Il Signore non è capace di fare ciò che dice, di mantenere quanto promette, di realizzare quanto afferma? Perché anche noi, al pari dei contemporanei di Gesù, dubitiamo tante volte della sua parola e crediamo che debba rispettare le nostre idee? Perché Dio non ci può parlare nella vita della persona che mi è accanto? Perché deve porre dei gesti straordinari, perché io possa accoglierlo? È così difficile ascoltare la sua parola e fare spazio nel mio cuore alla fiducia in Lui?

Quanto abbiamo bisogno di bonificare il cuore, di attuare quella disciplina spirituale che purifica l’anima e rende il terreno interiore capace di accogliere la parola di Cristo, lasciandola operare in noi! Quanto è necessario, non solo mortificare la lingua (cf. Gc 1,26), ma permettere al Dio vasaio di plasmare e riplasmare l’argilla del nostro mondo interiore, perché diventi sua abitazione e dimora!

Superare la mormorazione con il dialogo

Gesù risponde a quanto sente dai Giudei, non con la saccenteria di chi vuol far pesare le ragioni del suo dire, ma con la carità di chi non ha paura di continuare a chiarire il discorso iniziato. Accorgendosi che il suo insegnamento non è stato ancora recepito, Gesù traduce in categorie diverse quello che ha precedentemente proposto. Non fa così anche un maestro, notando a scuola che l’argomento spiegato non è stato ben compreso dai suoi alunni? Utilizza esempi più semplici, si serve di concetti differenti, cerca di interagire maggiormente con chi lo ascolta, così da rendere più agevole la spiegazione che, prima, non aveva sortito l’effetto desiderato. Così anche Gesù, non ha paura di continuare a dialogare, offrendo modalità nuove per comprendere la sua parola, cercando in ogni modo di tradurre l’esigenza impellente e necessaria per ogni uomo, di superare le categorie dello spazio e del tempo, comprese come pure dimensioni umane e accogliere la fede quale luce superiore che ci conduce a vedere ogni cosa secondo Dio. Alla mormorazione – sembra dire Gesù – non ha senso rispondere con parole amare. Bisogna, invece, vincere con l’amore l’incapacità che gli altri dimostrano di non capire, è necessario offrire quella misura pigiata, scossa e traboccante di misericordia che serve a superare lo stallo che la lamentela causa, per cercare di continuare il dialogo e giungere al porto sospirato della fede e della comprensione dell’auto-rivelazione di Dio, in Cristo. 

Nel brano odierno, Gesù dimostra che non è bene lasciarsi toccare dalla mormorazione dei Giudei. Farsi portare dalla debolezza degli altri può divenire deleterio, perché, così facendo, si arena il dialogo e il rapporto vive momenti di stallo. Il Maestro, invece, sa che deve condurre in avanti la discussione, perché non può perdere le redini del confronto, Lui solo conosce dove e come arrivare al vero bene di coloro che lo ascoltano e, osteggiandolo, escono dall’orizzonte della salvezza. Il suo imperativo “Non mormorate tra voi” (v. 43) serve a smorzare sul nascere discussioni che non conducono a nulla, se non al ripiegamento su se stessi, evitando il confronto e il chiarimento. Lamentandosi di Gesù, i Giudei dimostrano di non avere il coraggio di relazionarsi con Lui, perché è fin troppo semplice imboccare delle scorciatoie e farsi forti con quanti vivono la nostra debolezza. Questo significa non voler risolvere le difficoltà che sono sorte. Se riuscissimo a presentare a Gesù le nostre ribellioni! Se avessimo il coraggio di non aver paura di parlare con Lui, svuotando nel suo cuore il nostro, pieno di difficoltà e di amarezze! Dialogare con Cristo, come i due discepoli, sulla strada verso Emmaus, vuol dire presentare a Dio la nostra angoscia, perché, affidandoci a Lui, le situazioni si ridimensionano, il suo intervento argina la delusione e l’incomprensione, mentre la sua voce autorevole è capace di far ardere nel cuore le speranze sopite.

Alcune volte anche noi abbiamo bisogno di essere bloccati come i Giudei, di ricevere una parola forte per non andare alla deriva. Anche noi abbiamo bisogno di chi, con affetto e delicatezza, ci ammonisca e corregga, per comprendere che la strada della mormorazione non conduce a nessuna parte e la lamentala ci impedisce non solo di scorgere l’opera di Dio, ma anche di mettere a frutto la sua grazia in noi. Dobbiamo, tante volte, avere il coraggio di arginare o meglio ancora stoppare le mormorazioni, estirpare sul nascere le lamentele e i giudizi, per compiere insieme quella lettura di fede della realtà che ci conduce a superarci e a divenire adulti, capaci di destreggiarci al meglio con le difficoltà della nostra vita, che non sono mai superiori alle nostre forze. Non è bene ascoltare le maldicenze, che sono sempre dei giudizi temerari e che, anche se hanno qualche parvenza o un nucleo di verità, sono verità parziali, facilmente strumentalizzate. È meglio non ascoltare, come anche non lasciarsi prendere dalle parole oziose e, se per la carità, bisogna accogliere l’altrui sfogo, si chieda allo Spirito il dono della vigilanza su se stessi, per non lasciarsi portare da quanto si ascolta. Spesso è più semplice stroncare sul nascere discorsi vani, piuttosto che sopportali, senza lasciarsi invischiare in essi.

Dopo aver frenato la lingua dei suoi interlocutori, chiedendo indirettamente di rimettersi in gioco con il cuore, Gesù riprende il suo insegnamento, volendo chiarire le affermazioni non ben comprese dai Giudei. Il loro mormorare – “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire sono disceso dal cielo?”, v. 42 – diviene così l’orizzonte dell’intervento chiarificatore di Cristo, perché è proprio lì, dal loro malcontento, che il Maestro ricomincia il suo discorso, incurante di ciò che alle sue spalle stanno dicendo. Passare ad un livello superiore non è semplice, ecco perché Gesù dimostra tanta pazienza con i suoi ascoltatori. Difatti, entrare nelle relazioni delle Tre divine Persone e credere che l’amore del Signore, riversato in noi, sia capace di orientare diversamente la nostra vita, non appare così scontato. Non si può capire chi è Gesù, rifacendosi alla sua famiglia, perché la sua origine è divina, non umana. Egli è il Figlio di Dio, venuto nella carne, fermarsi all’apparenza non conduce a comprendere la sua vera identità, che resta nascosta a coloro che non guardano a Lui con fede, per accogliere la rivelazione della gloria del Padre, nella fragilità umana che Egli ha fatto sua, nel grembo della Vergine. Per comprendere chi è Gesù, oltre che per confessare la sua messianicità (cf. 1Cor 12,3), è necessario l’azione di Dio. “Perché si possa prestare questa fede – insegna il Concilio – è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità” (Dei Verbum, 5). La fede, dono di Dio, esercita una forza di attrazione che spinge verso Gesù. Difatti, “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (v. 44), insegna il Maestro. È l’attrazione verso Gesù che il Padre esercita sul cuore dell’uomo, il fascino dell’amore suo in noi che ci spinge a Cristo. Non sono io, con la mia ragione ed il mio cuore, che posso andare verso Gesù, comprendere la potenza della sua grazia e presumere di esaurire il mistero della sua Persona. La monizione interna del cuore operata dal Padre rende i discepoli capaci di credere in Cristo e di avere in Lui accesso alla salvezza. Non solo la carne ed il sangue che portano a riconoscer in Gesù il Figlio di Dio fatto uomo, ma il dono del Padre, la grazia del suo Spirito in noi.

Al dono di Dio, l’uomo è chiamato a rispondere, collaborando alla grazia e mettendola a frutto. È questo il senso della parola di Gesù “Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me” (v. 45). L’Evangelista crea un significativo rapporto tra la grazia dell’attrazione che il Padre esercita e la riposta dell’uomo, che si traduce nell’ascolto. I Giudei hanno la Legge ed i Profeti, che rappresentano la testimonianza più autorevole per riconoscere in Gesù il Figlio di Dio. La parola del Padre, custodita nella Scrittura, se è accolta con fede conduce al Figlio. Non c’è rottura tra l’antica e la nuova alleanza, perché Gesù ricapitola in sé la Scrittura e compie le promesse di Israele. Con la venuta del Figlio di Dio, disceso dal cielo, è giunta la pienezza della rivelazione, che permette di vedere realizzata la profezia di Isaia “Tutti saranno istruiti da Dio” perché la Legge sarà scritta nel cuore (cf. Ger 31,33-34), dallo Spirito Santo che il Risorto concederà senza misura. In tal modo, il segreto della fede è la docilità all’azione dello Spirito proveniente dal Padre, che richiede la collaborazione dell’uomo.

Se i Giudei riuscissero a comprendere le segrete ispirazione dello Spirito del Padre! Se riuscissimo anche noi a pensare e ad agire, avendo il Padre come sorgente di ogni nostra azione! Se lasciassimo allo Spirito di operare liberamente in noi, di guidarci verso Dio, di vedere sotto la sua luce la nostra vita e la storia delle persone che ci sono accanto! Non possiamo capire nulla senza la grazia del Padre, ma è necessario permettere a Dio di agire in noi e di non porre nessun impedimento a quanto Egli ci chiede. È lo Spirito che ci porta a credere che Gesù è il Cristo, è Lui che opera in noi e rende salda la professione della nostra fede, certa la nostra speranza, ardente la carità che il nostro cuore nutre per i fratelli. È lo Spirito che permette di comprendere il mistero della vita di Cristo, accogliendolo come venuto dal cielo per la nostra salvezza e Pane vivo per donarci in abbondanza la vita. È lo Spirito che determina in noi la capacità di vedere la dimensione verticale della vita e di percepire Dio che opera in noi e per noi la salvezza. È il dono del Padre, la sua parola ad Israele, la Scrittura che conduce a Cristo, ecco perché è necessario – dice Gesù ai Giudei – ascoltarlo e obbedirgli nella fede, perché di Lui trattano le pagine dell’Antico Testamento, Lui preannunciavano gli oracoli dei santi vegliardi della Prima Alleanza.

Non aver paura di ribadire sempre e solo la verità

La struttura della pericope odierna, possiamo dire, è ad anello. Si inizia dall’autorivelazione di Cristo – “Io sono il pane disceso dal cielo” – e, passando attraverso la mormorazione, si giunge nuovamente al punto di partenza, dal momento che gli ultimi versetti rappresentano la continuazione del discorso di Gesù, che non è interrotto dalla digressione dei Giudei. Dinanzi alla ritrosia e alla cattiva volontà di accogliere la sua parola, il Maestro non abbassa il tiro, non edulcora la sua proposta, ma afferma con chiarezza la verità. Prima chiarisce cosa significa che Egli è venuto dal cielo e che il Padre attrae tutti a Lui, in seguito reintroduce il tema del Pane di vita, che, come la manna dei padri, va mangiato, ma che, a differenza del cibo del deserto, dona la vita eterna. Andare a Cristo, per l’attrazione esercitata dal Padre, nella forza del suo Spirito determina il nutrirsi di Lui, realizzando la verità del segno del cibo dato ai padri e accogliendo il dono che Cristo fa della sua stessa vita. Richiamandosi di nuovo alla storia dell’esodo, l’Evangelista dice che è superata l’antica economia e ora con Gesù è necessario convincersi che “le cose vecchie sono passate, ecco ne sono venute di nuove” (2Cor 5,17). È Cristo il termine definitivo per accedere a Dio, è Lui la porta che ci introduce nella contemplazione del volto del Padre, la sua vita ci fa vivere. Non si può guardare al passato, vantandosi dei segni concessi un tempo. Non il ricordo della manna ci sfama, rafforzandoci nel cammino, ma la vita che Cristo ci dona, il suo essere per noi pane del cammino.




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