
Nessuno deve disperare
di don Silvio Longobardi
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 7,11-17)
In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.
Il commento
“Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova” (7,12). La scena evangelica, ambientata a Nain, un villaggio non lontano da Nazaret, è carica di sofferenza, ricorda che il dolore appartiene alla nostra vita e attraversa la storia dell’umanità. Al centro di questo racconto c’è una donna: “una madre vedova, senza sposo, senza amore e senza difesa, povera e derelitta” (S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Luca, 209). Sembra davvero immagine dell’umanità che vive lontana da Dio, un’umanità che ha perso ogni speranza. La donna non è sola, tanta gente cammina con lei e condivide il suo dolore. Ma proprio quel corteo funebre è il segno di una storia che avanza stancamente verso la fine, una storia segnata da una rassegnazione che inevitabilmente cade nel fatalismo. Cosa si può dire ad una madre che ha perso l’unico figlio? Il dolore di un genitore che perde un figlio è un abisso in cui non è possibile entrare. Siamo tutti costretti a chinare la testa. In silenzio.
Quel giorno accade l’imprevedibile, su quella strada di campagna passa Gesù. In apparenza è un semplice rabbi, in realtà l’evangelista lo presenta come “il Signore” (7,13). Il vocabolo Kýrios esprime la fede della Chiesa in Colui che è risorto da morte. Gesù non è un semplice spettatore, egli è venuto per rispondere agli interrogativi più profondi dell’uomo. La sua presenza trasforma la valle della rassegnazione nel giardino della speranza. Da quel giorno non è più lecito disperare. È venuto colui che non solo annuncia ma dona la vita. Luigi e Zelia Martin hanno sperimentato l’immenso dolore che causa la morte dei figli. Ma hanno vissuto con fede anche questo capitolo, come leggiamo in questo dettaglio: “Quando chiudevo gli occhi dei miei cari figlioletti e li mettevo nella bara, provavo un dolore molto grande, ma sempre rassegnato. […] In fondo essi non erano perduti per sempre: la vita è corta e piena di miserie, li ritroveremo lassù” (LF 72). Oggi chiediamo la grazia di avere la stessa fede.
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