III Domenica di Avvento – Anno C – 16 dicembre 2018

Dove c’è la gioia del Signore, il male si dissolve

di fra Vincenzo Ippolito

La presenza di Cristo ci comunica la gioia e ci rende amabili, vincendo il nostro egoismo e spingendoci verso gli altri, nella consapevolezza e nella speranza di donare Gesù come sorgente di vita nuova nell’amore.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (4,4-7)
Il Signore è vicino!
Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!
Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.
E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.

 

Siamo alla terza tappa del nostro cammino d’Avvento e, a grandi passi, ci stiamo avvicinando al Natale del Signore. Man mano che intravediamo la meta, la gioia del compimento invade il nostro cuore. Per questo la domenica odierna è detta “della gioia” – in latino “Gaudete” dalla prima parola dell’antifona d’ingresso, che riprende la Seconda Lettura odierna (cf. Fil 4,4-7) – il Signore è fedele alle sue promesse e non si farà a lungo attendere.
Possiamo definire l’odierna liturgia della Parola un’esplosione di gioia. Oltre la Seconda Lettura, nella quale l’Apostolo, esorta i Filippesi ad essere sempre lieti, per la venuta del Signore, anche la Prima Lettura, tratta dal libro di Sofonia (3,14-17) è un accorato invito alla letizia più vera e profonda. “Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme. Il Signore ha revocato la sua condanna […] Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura” (Sof 3,14-15). Se Dio realizza le sue promesse ed effonde la sua grazia, l’uomo, raggiunto dall’amore, è chiamato a scoprire la gratuità della misericordia, a vivere nello stupore per il dono divino e a rispondere all’amore, con la forza che viene da Dio.
Lasciamoci rischiarare nell’intimo dalla Parola di Dio, per entrare nel mistero della gioia e vivere la perfetta letizia della comunione piena con il Signore che viene.

La gioia nasce dalla Pasqua

Già la scorsa domenica la liturgia ci donava una pericope della Lettera ai Filippesi (cf. 1,4-6,8-11), tratta dai ringraziamenti iniziali (cf. Fil 1,3-11). Oggi, invece, il brano liturgico, assai breve – appena tre versetti, cf. Fil 4,4-7 – è presa dalla sezione finale della medesima epistola (cf. Fil 4,2-9), che raccoglie le esortazioni e i consigli dell’Apostolo alla comunità, prima dei ringraziamenti (cf. Fil 4,10-20) e dei saluti finali (cf. Fil 4,21-23). Sempre, infatti, Paolo, prima di accommiatarsi, rivolge accorati suggerimenti, perché lo stile di vita dei credenti sia confacente alla professione di fede in Gesù Cristo ed ogni comunità viva nella concordia e nella reciproca stima.
Queste sezioni conclusive delle epistole sono molto interessanti. Esse mostrano la fitta rete di relazioni che scandiscono la vita ecclesiale ed evidenziano il ruolo dell’Apostolo, nel dirimere le contese e a far regnare la pace. Ad esempio, in Fil 4,2-3, si legge: “Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego anche te, mio fedele cooperatore, di aiutarle, perché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita”. Non deve scandalizzare il fatto che possano sorgere delle difficoltà anche in coloro che annunciano il Vangelo e collaborano fattivamente, affiancando l’Apostolo nell’edificazione della Chiesa. Di pari passo, però, è importante che non manchi chi interviene nelle diverse problematiche comunitarie, con autorevolezza ed amore, per riportare la concordia. In tal modo, Paolo, prima di chiudere la lettera, non omette di toccare i nervi scoperti delle relazioni intraecclesiali a Filippi e così diviene, per vocazione e per scelta, pacificatore, sradicando la zizzania della discordia e della competizione. Solo così possiamo comprendere al meglio l’esportazione alla gioia che segue in Fil 4,4-7. La pace vera nella Chiesa può far fiorire la gioia, in caso contrario siamo dinanzi a felicità fatue ed apparenti, a sorrisi di facciata, a silenzio che sanno di irresponsabile omertà. Non si può dire di vivere nella gioia, se ci sono liti e contese; non regna la fraternità, se la pace di Cristo non ha messo radici in ogni cuore, determinando la muta accoglienza e la reciproca stima; non si può essere tranquilli, quando manca l’armonia nel Signore.
Paolo non chiude gli occhi davanti a ciò che accade tra Evòdia e Sìntiche, perché non è pensabile lavorare per il regno di Dio, senza che ci si prenda cura della relazione con l’altro/a. È necessario, sembra dire l’Apostolo, perché la testimonianza sia autentica e la fede coerente, che l’unità e la concordia siano la condizione imprescindibile per il cristiano. Come si può parlare di gioia, se nella comunità ci sono delle liti? Come gioire nello Spirito di Cristo, se il cuore è oppresso per situazioni represse? L’Apostolo, oltre ad esortare, chiede che uno dei suoi collaboratori intervenga per aiutarle ad uscire da questa spiacevole situazione, perché regni la comunione nel Signore.

C’è un secondo elemento da tener conto, quando si vuol comprendere il monito alla gioia che l’Apostolo presenta alla chiesa di Filippi. Unitamente al contesto letterario, è bene riferirsi anche alla situazione personale dell’Apostolo. Quando scrive, Paolo si trova in catene, per il Vangelo, è lui stesso a riferirlo in Fil 1,7.13.17 e non deve destare meraviglia, alla luce del mistero Pasquale di Cristo, che la difficoltà lo trovi pronto a non scoraggiarsi, ma a vivere nella perfetta letizia e nella lode, come descrive Luca in At 16, proprio in riferimento all’evangelizzazione di Filippi: “Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i prigionieri stavano ad ascoltarli” (At 16,22). Come si può parlare di gioia ed esortare alla letizia, stando in prigione? Come può, il cristiano, sperimentare l’esultanza dello spirito, mentre i suoi piedi sono legati a ceppi? Si tratta della gioia cristiana che sgorga dalla Pasqua di Gesù. Se non si passa attraverso la porta stretta della croce, la gioia non è vera e la professione di fede non plasma la vita, determinando un itinerario di conformazione al Signore Gesù. Paolo mostra l’assimilazione ai sentimenti di Cristo (cf. Fil 2,5), il suo cammino di conformazione al Signore Gesù, al punto che può dire, a buon diritto “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,19-20). Solo chi vive immerso nel mistero della morte e resurrezione di Gesù può dire come san Francesco “tanto è il bene che mi aspetta che ogni pena mi è diletto”. Questo non significa essere masochista, ma permettere all’amore di sostenerci nel dolore, togliendo alla sofferenza la volontà di toglierci la pace e di fare terra bruciata nel nostro cuore. È questa l’esperienza dei Macedoni, che nella loro tribolazione, hanno sperimentato una “gioia sovrabbondante” (2Cor 8,2). Non deve destare meraviglia questo, perché è il frutto maturo di un autentico cammino di conversione.
La sofferenza ed il dolore, il patire per il Vangelo porta Paolo a guardare in faccia la realtà della sua vita. La persecuzione per Cristo lo porta a notare che le proposte di felicità mondano si dissolvono e solo la potenza della croce abita l’umana debolezza e ci sostiene, infondendo la gioia di Dio che non viene turbata da nulla. Notiamo poi come la gioia che promana dal mistero della croce di Cristo e che sostiene le difficoltà del ministero apostolico diviene seminagione di gioia, annuncio della perfetta letizia per i fratelli. E così, colui che continua a vivere unito a Cristo, pur nelle catene e che sperimenta la potenza del Signore, esorta all’unità e spinge alla gioia vera, proprio quando un’esperienza del genere sarebbe impensabile.

In che modo sperimento al gioia del Risorto, nelle difficoltà della mia vita quotidiana? Anch’io sperimento tante volte i ceppi delle situazioni che non riesco a cambiare. Invece di tenere fisso lo sguardo sulle mie difficoltà, chiedo al Signore la grazia di vivere nella gioia e di partecipare, nella mia debolezza, alla grazia della vita di Cristo? In che modo vivo il paradosso della gioia cristiana e nella mia carne, pur portando i segni della morte, faccio risplendere la vita del Risorto? In quali situazioni problematiche vedo particolarmente presente la grazia della Pasqua di Gesù? Mi ribello a questa inabitazione paradossale dello Spirito di Cristo in me oppure lascio che il Signore abiti nella mia vita, come a Lui meglio piace? Nei rapporti familiari, come educhiamo i nostri figli al raggiungimento di gioie vere? Che peso ha il sacrificio e l’impegno nel rispondere alla vocazione alla gioia? Rifletto che, su questa terra,a la gioia non sarà mai perfetta, ma attendiamo di partecipare alla gioia eterna del Regno di Dio?

Stare nella gioia, sempre

Fa un certo effetto leggere il brano liturgico odierno, riflettendo sul fatto che Paolo scrive in prigione. Se poi si pensa che sta esortando alla gioia, la cosa diventa ancor più paradossale. Ma per chi vive la comunione con Cristo crocifisso e risorto, per chi è interiormente animato dalla forza del suo Spirito, questo è il segno di quanto sia trasformante l’amicizia con Lui. Scrive l’Apostolo: “siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti” (v. 4). Chi vive con il Signore, sperimenta le catene come dei monili, accoglie la difficoltà come purificazione e la contrarietà come segno dell’autentico cammino di sequela. Come la grazia abita la debolezza, così la gioia dimora in un cuore che non ha paura delle contrarietà della vita. Paolo offre la propria vita al Signore, perché manifesti la sua misericordia e così può dire “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione” (2Cor 7,4). Dall’esperienza della gioia all’esortazione alla gioia, è questo il cammino di Paolo, che traspare nell’Epistola ai Filippesi. Esiste un rapporto imprescindibile tra l’essere e il dare. Non posso dare gioia, raccomandare la letizia, se io per primo non ne sperimento la portata dirompente e paradossale. Bisogna essere delle persone crocifisse, per dare gioia. Se i chiodi non hanno trapassato le nostre membra, giungendo al cuore, dove potrà trovare posto la compiacenza e la gioia del Risorto. Se le contrarietà quotidiane non fiaccano, in maniera determinante, il nostro egoismo, come potrà il rivolo della vita del Risorto renderci sorgenti che zampillano di vita!

Esortare alla gioia significa tenere fisso lo sguardo sul mistero della Pasqua, senza lasciarsi scoraggiare dalla difficoltà personale, come anche da problemi che possono sorgere in seno alla comunità. Vivere nella gioia vuol dire sperimentare la pienezza dello Spirito che, interiormente, ti consola e sostiene, guarisce e risana, parla ed indica la strada da intraprendere, senza paura, perché il Signore è con te. Perché la gioia sia vera, sembra dire l’Apostolo, deve avere il carattere dell’eternità, ovvero non deve passare, non deve essere soggetta né alle mode, né agli stati emotivi e neppure dipendere dalle situazioni esterne. La gioia del cristiano ha un nome e un volto, la nostra gioia è Gesù Cristo. Non è uno stato passeggero, ma una persona concreta, non un sentimento che ti prende all’improvviso, ma la presenza divina che mette la sua dimora in te, nelle profondità del tuo essere. La gioia vera non si presenta come un antidoto, per toglierti quel senso di tristezza che si attacca spesso al cuore, né è spazzata via dal parere sprezzante di chi ti sta accanto e ti parla, per gelosia o invidia, con freddezza. La gioia di Dio è Cristo, Lui non passa, rimane nella tua vita, se glielo permetti, mette radici, se lo lasci cadere nel terreno del cuore. La sua voce è di tuono, il suo occhio ti scruta, non per giudicarti, ma perché, sotto il suo sguardo d’amore, tu possa consegnarti a Lui, perché anche nelle piaghe della vita che tu nascondi anche a te stesso, Egli si possa riversare. E come, nella preghiera, con Francesco di Assisi, ci rifugiamo nelle piaghe del Crocifisso, per trovare la pace che il suo Sangue ci dona, così Gesù entra nelle nostre piaghe, nelle ferite dei nostri fallimenti, scende come balsamo sulle lividure delle nostre cadute e si dona come Pace, si effonde come gioia, si lascia nelle nostre mani come Pane, si consegna alle nostre labbra come Parola, al nostro cuore come Respiro che ci dona vita. Solo chi vive questa esperienza profonda di comunione con Cristo può dire “siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti”.

La gioia di cui Paolo sta parlando, ha la sua fonte nel Signore – è questa la sua prima caratteristica – ed è duratura, è scandita dal sempre. Sono questi i due segni che la sorgente da cui attingerla non è l’uomo, ma unicamente Dio Padre, per mezzo di Cristo Gesù, nella forza del suo Spirito. Esiste quindi una dimensione pasquale della gioia – discende dalla Pasqua di Gesù, è il frutto maturo della sua consegna – e una direzione discendente del dono, ovvero viene da Dio, visto che “ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce” (Gc 1,16). Siamo chiamati ad accogliere la gioia che la presenza di Cristo ci dona, nel mistero del suo Natale. L’incarnazione rappresenta proprio l’irrompere della gioia nella valle della nostra disperazione, il nascere della luce, lì dove regna la tenebra del peccato e del rifiuto volontario di Dio e del suo amore. Siamo chiamati ad accogliere in Gesù la nostra gioia, l’unica che il nostro cuore ricerca, nelle strade scoscese dei nostri egoismi. È Gesù che cerchiamo, quando tentiamo lo sballo, quando scappiamo dalle nostre responsabilità, quando non riusciamo a vivere secondo la parola data, ben saldi nel camminare sulla strada in principio accolta come segno dell’amore di Dio per noi e tra noi. È la fedeltà a Dio che ci fa vivere nella gioia, il sapere che Lui ci vuole felici. Bisogna riscoprire nella nostra vita la sorgente della gioia, ritrovare Gesù nella cose che facciamo, vedere in Lui la ragione di quanto compiamo, tante volte senza quello slancio che caratterizza l’innamoramento e che deve aumentare quando si consolida l’amore. La gioia di Cristo è esigente, perché il Signore ci interpella, crea un dialogo, muove alla relazione, spinge allo scambio sincero. È dalla relazione con Gesù che si sprigiona in noi la gioia, segno del rimanere in Lui e con Lui. Se la gioia è dono del Risorto, a noi sta il custodirlo, se rimane sempre, siamo chiamati a farne splendere in noi la bellezza, se nella sofferenza sostiene, dobbiamo lasciare che la sua luce sia la nostra corazza, perché in noi si realizzi la parola di Gesù “nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22).

Che esperienza di gioia facciamo nelle nostre famiglie e comunità? Si tratta di una letizia apparente, oppure ha la presenza di Cristo ha messo radici profonde in noi, al punto tale che nulla e nessuno possa destabilizzarci? Il per sempre della promessa nuziale rivela il per sempre del dono di Dio per noi, del suo amore fedele che ci sostiene, della sua grazia che ci dona vigore e forza, per non soccombere, sotto i colpi del male? Custodiamo il dono di Dio e abbiamo cura del dono che l’altro è per la nostra vita?Come allontaniamo da noi le voci contrarie al nostro bene? Questo tempo di Avvento come lo sto vivendo? È scandita veramente dall’attesa di Cristo che viene a visitarci e a donarci la sua gioia oppure il tempo ci scorre addosso e non cogliamo l’opportunità che ci viene offerta di rinnovare la nostra adesione a Cristo-gioia?

La gioia del Signore fa fuggire il male

La ragione della letizia a cui l’Apostolo esorta i Filippesi è la certezza della venuta del Signore. Scrive Paolo “La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!” (v. 5). La gioia che abita il cuore del credente diventa amabilità. Esiste una profonda corrispondenza tra quello che c’è nell’animo del discepolo e quanto all’esterno appare. La potenza del Signore, il suo amore in noi produce una trasformazione dei gesti che divengono trasparenza del suo Spirito, che abita in noi. La gioia del cuore diventa affabilità, capacità, anch’essa dono di Dio, di accogliere tutti gli uomini, senza parzialità. In tal modo, il dono di Dio non è una gioia fatua o fine a se stessa, ma si traduce in fattiva carità ed accoglienza dell’altro. L’amore che ci rende gioiosi ci trasforma in autentici testimoni della gioia, rendendoci amabili, lasciando che l’amore divino non sia solo contenuto in noi, ma traspaia dai nostri atteggiamenti. Così deve essere per lo sposo nei riguardi della sposa, per i genitori verso i propri figli, come in ogni comunità parrocchiale e religiosa. I rapporti devono essere scanditi da amabilità, dalla capacità di fare spazio a Dio nella propria vita, perché quando mi relaziono all’altro sia Cristo ad essere mediato, non ciò che io egoisticamente sono e voglio essere. Abbiamo bisogno dell’affabilità che nasce dall’amore di Dio in noi. Ne hanno bisogno i nostri rapporti, che, senza amore, inaridiscono e muoiono, ne abbiamo bisogno nel tessuto delle nostre comunità, nelle quali l’attivismo ci divora e ci fa essere e percepire gli altri funzionali ad un programma ben fissato. Se il Signore è vicino, non possiamo vivere senza la speranza di condividere con gli altri la gioia della sua presenza e l’attesa carica di speranza della sua visita. Una affabilità nota a tutti gli uomini, ci domanda l’Apostolo, che diventa, in questo tempo di avvento, impegno fattivo perché la gioia del Natale del Signore ci conduca a fare spazio a Lui che viene a visitarci nella pace e ad essere il rigeneratore dei nostri rapporti.

Quale il senso del Natale, se rimaniamo sempre gli stessi? Possiamo dire di contemplare, con Maria e Giuseppe, lo stupore per l’incarnazione del Verbo, se anche noi non lasciamo che la presenza di Gesù diventi nostra carne e ci conduca ad essere persone accoglienti nei riguardi del nostro prossimo?

La presenza di Cristo ci comunica la gioia e ci rende amabili, vincendo il nostro egoismo e spingendoci verso gli altri, nella consapevolezza e nella speranza di donare Gesù come sorgente di vita nuova nell’amore. Per l’Apostolo questo non basta, perché “chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (1Cor 10,12). Siamo sempre sotto i colpi del Nemico che vuole destabilizzare la nostra certezza e mettere in dubbio, come nel caso di Adamo ed Eva, l’amore di Dio che è la nostra forza. Per questo Paolo continua la sua esortazione, dicendo “Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti” (v. 6). È come se stesse dicendo: custodisci il dono di Dio, non lasciarti rubare il buon seme, abbia cura di quanto il Signore ti ha dato come talento di cui rendere conto, non lasciarti intristire da nessuna situazione, interna o esterna a te, perché tu hai Cristo e non ti manca nulla.

Abbiamo bisogno di ricordare che il nostro impegno, prima ancora di mettere a frutto la grazia, consiste nel credere che “né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39). Da questo dipende la nostra capacità di non essere angustiati da nulla. Dalla capacità di affidare a Dio, nella preghiera e nella supplica, le nostre necessità, dipende la pace che “che supera ogni intelligenza”, perché solo il Cristo che viene “custodirà i vostri cuori e le vostre menti”. Gesù è tutto per noi, attenderlo nella fede significa accoglierlo come gioia vera e trasmetterlo ai fratelli, sapendo che è l’unica pace che nulla potrà mai strapparci.




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