Santa Famiglia – Anno C – 30 dicembre 2018

L’amore di Dio ci trasforma da peccatori a giusti, da servi ad amici, da schiavi a liberi

di fra Vincenzo Ippolito

È l’amore la vera forza di trasformazione della nostra storia, è l’amore che cambia la nostra identità, l’effusione potente dello Spirito di Dio ci riveste della novità di vita, che non è solo un abito che formalmente ci ricopre, ma un’azione che silenziosamente incide nella nostra vita. Così è per il sacramento del matrimonio, nel quale l’uomo e la donna divengono realmente una carne sola, nel mistero grande di Cristo.

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (3,1-2.21-24)
Siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Pa¬dre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi coman¬damenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In que-sto conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

 

La domenica che segue la solennità del Natale del Signore è dedicata alla contemplazione dell’amore di Maria e Giuseppe, culla accogliente del Verbo di Dio che viene nel mondo. La famiglia rappresenta la cellula della vita e Dio, facendosi uomo, non ha voluto privarsi di nessuna delle gioie autenticamente umane che ogni creatura sperimenta. La festa odierna ci conduce a vedere la santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe come il modello di vita delle nostre famiglie e comunità, conducendoci all’imitazione delle stesse virtù e dello stesso amore che ha scandito la vita della casa di Nazaret (Colletta).
La liturgia della Parola propone oggi alla nostra riflessione il mistero del ritrovamento di Gesù dodicenne nel tempio di Gerusalemme tra i dottori (cf. Lc 2,41-52), mentre a preparare la pagina lucana, come Prima Lettura (cf. 1 Sam 1,20-22.24-28) ascoltiamo la storia di Samuele che Anna chiede ed ottiene dal Signore, con la sua preghiera. La Seconda Lettura (1 Gv 3,1-2.21-24) ci porta, invece, a contemplare nell’amore il cuore di ogni comunione in Cristo, perché solo lo Spirito del Signore crea l’unità e la consolida nello scorrere del tempo. Ogni famiglia, sembra insegnare oggi la liturgia, può vivere coma Anna (Prima Lettura) o come Maria e Giuseppe (Vangelo), momenti di angoscia e dolore, ma ogni sofferenza si trasforma in gioia, quando rimaniamo in Cristo, attraverso lo Spirito che Egli ci ha dato (Seconda Lettura).

Alla scuola dell’apostolo ed evangelista Giovanni

Tra gli scritti che formano il Nuovo Testamento, c’è una sezione, solitamente definita Opera Giovannea, che comprende, oltre al Quarto Vangelo, Tre Lettere e l’Apocalisse, testi che la tradizione della Chiesa attribuisce a san Giovanni evangelista. Gli studiosi notano una profonda affinità tra il Vangelo e le tre Lettere di san Giovanni, sia per il linguaggio che per i temi sviluppati. La Prima lettera, da cui è tratto il brano liturgico odierno, è la più importante. Parte delle Lettere definite Cattoliche, appare come uno scritto indirizzato alle chiese dell’Asia – una sorta di lettera circolare – la cui fede è profondamente scossa dalle divisioni che le prime eresie fanno nascere tra i credenti. L’autore sviluppa il tema della figliolanza divina, che comporta nei discepoli l’osservanza dei comandamenti, nell’amore scambievole, segno della presenza e dell’azione del Signore. Si tratta quindi di uno scritto finalizzato a consolidare la professione di fede e a mettere in guardia i primi cristiani da quanto è contrario dall’autentico spirito dell’annuncio evangelico.

La pericope liturgica odierna unisce diversi versetti (1-2. 21-24), che sono l’inizio e la fine del capitolo terzo della Lettera. In esso Giovanni propone di considerare il dono dell’essere figli di Dio (vv. 1-2), da cui dipende la possibilità di rompere con il peccato (vv. 3-10) e di osservare i comandamenti (vv. 11-24). Non è quindi semplice leggere e comprendere il nostro brano, senza tenere conto dello sviluppo organico e progressivo dell’argomentazione.

Tutto inizia da un’affermazione in sé molto incisiva: “vedete quale grande amore ci ha dato il Pa¬dre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (v. 1). Giovanni, dopo aver focalizzato la sua attenzione sul Dio che è un mistero di luce (cf. 1Gv 1,5) e aver indicato le vie concrete per vivere in comunione con il Signore e con i fratelli (cf. 1Gv 1,8-2,29), tira le conseguenze del suo dire, indicando nell’amore che il Padre nutre per l’umanità la sorgente della dignità filiale. L’incipit del nuovo capitolo mostra lo stupore che prende l’Apostolo nel contemplare come l’amore del Padre, rivelatosi in Cristo, ci renda figli. Il lettore è invitato ad entrare nella meraviglia dell’opera divina, a perdersi nell’estasi dell’ammirazione, come all’inizio del Vangelo, il prologo sul Verbo eterno rapisce il credente nel considerare la grandezza di Dio che diventa carne in Gesù di Nazaret. È come se Giovanni volesse puntare il dito sul cuore della professione di fede, per considerare che l’amore – essenza della vita divina, come egli stesso dirà in 1Gv 4,7 – ci rende figli. “Vedete” scrive, quasi a dire, considerate attentamente, fissate lo sguardo della mente e del cuore, non allontanatevi dal mistero dell’amore, inabissatevi nella potenza della misericordia del Padre. Anche l’autore della Lettera agli Ebrei, esprimerà lo stesso concetto, scrivendo “… tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb 12,2). La fede parte dagli occhi e invade il cuore, quando la mente considera il mistero dell’amore che raggiunge l’uomo, nella concretezza della storia che vive, e lo investe di luce e di grazia, ma anche il cuore porta gli occhi ad una profonda conoscenza del mistero di Dio, perché non si fermano all’apparenza quando l’animo ricerca il vero ed il bello e sa che il suo Signore si rivela nelle cose piccole, perché in esse rivela la potenza della sua grazia e il chiarore della sua presenza. Cos’altro significa: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre” se non il tuo occhio sia fisso nell’avere Gesù, segno dell’amore del Padre per te! Perché guardi ciò che è contrario alla volontà di Dio e ti lasci portare dalla voce del Nemico che, come un giorno con Eva, così ti distoglie dal tuo vero bene? Dobbiamo fissare lo sguardo sulla grandezza dell’amore del Padre. È questo il senso del Natale del Signore che stiamo celebrando. L’amore di Dio è grande, perché, è sempre Giovanni a dirlo, nel dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo, “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16).

La caratteristica dell’amore vero, dell’affetto autentico, è la grandezza, l’immensità, perché, amando, il cuore si apre e le pareti dell’animo nostro si allargano nell’abbracciare il mondo dell’altro, nel fare spazio ai suoi pensieri e alle sue cose che, amando, diventano nostre. Amare senza sposare l’immensità, senza accogliere nel proprio abbraccio interiore l’amato, non è amore, ma solo sentimentalismo. L’Apostolo vuole che noi guardiamo alla grandezza dell’amore del Padre, all’amore che è grande per essenza, per natura, perché Dio è infinito ed eterno e tutto in lui è immenso ed infinito, anche il suo amore. L’uomo, incontrando il Padre, nell’abbraccio del Crocifisso, non può che perdersi, nella smisurata grandezza del suo cuore non può non sprofondare in Lui, la mente non riesce a contenere il suo mistero ed il cuore si abbandona al gusto dell’amore eterno, alla cui immagine è stato creato, dalla cui effusione è stato redento, il cui anelito lo attira al Cielo. Tutta la Scrittura canta la grandezza dell’amore: “O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra” (Sal 8,1) afferma il salmista, perché sa che “con il Signore è la misericordia e grande è con lui la redenzione” (Sal 130,7) e, mentre Salomone confessa “Tu hai trattato il tuo servo Davide, mio padre, con grande amore” (1Re 3,6), Giona può dire, nell’eccesso della sua gelosia “tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato” (Gn 4,2), mentre l’apostolo Paolo scriverà “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatto rivivere in Cristo” (Ef 2,4). Il Padre è per noi un mistero che si rivela nella consegna del Figlio, perché nel dono che Gesù fa di se stesso noi comprendiamo il dono del Padre e nel suo amore che in tutto è pietà e misericordia, perdono e consegna, noi possiamo sporgerci nell’abisso della sua grandezza e bearci nella contemplazione della sua immensità. Amare con un amore grande è quello che il Padre fa con noi. Non è forse Lui il Padre misericordioso che attende il ritorno del figli prodigo e, quando lo vede da lontano, gli corre incontro, gli si getta al colo e lo bacia? Dinanzi ad un amore così grande, dobbiamo chiederci: il mio amore è grande come quello di Dio? Il mio cuore è immenso, come il Cuore di Cristo? La mia accoglienza è incondizionata oppure gioco al ribasso ed amo solo coloro che mi amano? Il dono mio all’altro è totale, oppure è condizionato a ciò che ricevo?

Un amore in grado di cambiare la propria identità

Oltre alla grandezza dell’amore di Dio, l’evangelista Giovanni vuole che lo sguardo del credente sia polarizzato su ciò che l’amore divino opera nella sua vita. Non serve a nulla la contemplazione estatica del mistero, se questo non ha una ricaduta concreta nella nostra esistenza. Questo è vero anche per l’amore nostro, chiamato a sposare la concretezza, la carne della nostra umanità, come fa il Verbo, nel grembo della Vergine. L’amore resta una parola priva di contenuto, un sentimento come altri, un moto passeggero del cuore, se non incide nella vita, determinandone un corso nuovo. L’amore di Dio Padre ci rende figli, partecipandoci gratuitamente, per puro dono di grazia, la dignità filiale di Gesù, il figlio unigenito, divenuto primogenito di una moltitudine di fratelli. Da questo comprendiamo che la figliolanza non è la conseguenza di un atto giuridico posto dal Padre, in nostro favore, ma il segno che Egli ci ama e che il suo amore in noi opera meraviglie, donandoci una nuova identità. L’amore è relazione vitale tra l’amante ed l’amato, nella circolarità che è fonte di identità. Il Padre ci rende figli, attraverso l’amore che Gesù vive fino alla croce, ma l’amore suo in noi non è un atto unico, un’azione che si concretizza in un solo momento, perché, Dio continua ad amarci e la vita di Gesù di questo amore è rivelazione progressiva, fino al mistero della sua Pasqua, ma la presenza de suo spirito in noi è il segno che Egli ci ama qui ed ora e l’amore suo, riversato in noi, ci fa vivere. È l’amore che nutre in noi la figliolanza e la consapevolezza della bellezza dell’avere in cielo un Padre – canta Francesco d’Assisi – la misericordia di Dio Padre in Cristo “da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatto rivivere in Cristo” (Ef 2,4). Sì, l’amore di Dio ci cambia, come riveste dell’abito il figlio ritornato, dopo aver tutto sperperato, così ci rende figli, ci trasforma, nell’identità e da peccatori ci rende giusti, da servi amici, da schiavi liberi, da figli dell’ira, figli della grazia, da stranieri, eredi del regno.

È l’amore la vera forza di trasformazione della nostra storia, è l’amore che cambia la nostra identità, l’effusione potente dello Spirito di Dio ci riveste della novità di vita, che non è solo un abito che formalmente ci ricopre, ma un’azione che silenziosamente incide nella nostra vita. Così è per il sacramento del matrimonio, nel quale l’uomo e la donna divengono realmente una carne sola, nel mistero grande di Cristo. Anche nel nome si percepisce questo misterioso cambiamento di identità, l’uomo diventa marito e la donna moglie, una trasformazione operata nel cuore dall’amore di Dio che passa attraverso il cuore del’altro a cui ci si sente uniti e con cui si sceglie di essere legati. Così è anche per chi riceve il sacramento dell’ordine sacro, è ontologicamente segnato dall’amore, che lo Spirito è ed infonde, perché divenga e agisca nella persona di Cristo e le sue azioni, pur senza perdere la propria identità, manifestino quella di Gesù. L’amore ci trasforma, se noi ci lasciamo cambiare, la misericordia del Padre ci guarisce, se noi lo lasciamo agire, la potenza del Signore ci abita, se noi gli diamo spazio e gli permettiamo di operare con la potenza che gli è propria la nostra redenzione e la salvezza che è suo dono di grazia. È importante avvertire che Dio Padre ci ami, che non ci lasci mai soli, che segua i nostri passi, che custodisca la nostra vita. L’amore suo in noi ci rende figli e noi conteniamo questo amore di elezione, viviamo di questo amore e lo manifestiamo nella gioia che traspare in noi. Se Dio Padre ci rende suoi figli, gratuitamente usandoci misericordia, se l’amore che Cristo ci dona è il suo Spirito, che interiormente sostiene i nostri passi, spingendoci a non aver paura di nulla, perché Dio è con noi, allora la nostra vita deve essere scandita dallo stupore e dalla gioia, perché realmente siamo figli di Dio e nulla e nessuno potrà mai separarci dal suo amore.
Siamo chiamati a vivere nella gratuità del dono e ad offrire ai fratelli quell’amore che il Signore riversa in noi, perché la vita dell’altro cambi in bene. Questo passa attraverso tempi e modalità differenti, ma se l’amore è vero, se il sentimento è robusto, se abbiamo pazienza e non lasciamo che lo scoraggiamento vinca nel nostro cuore, allora riusciremo a cambiare il bene in meglio, se il Signore è con noi e ci illumina con la sua grazia. Il problema nei nostri rapporti nascono dalla pretesa che l’altro cambi, secondo i nostri gusti, non secondo il vero bene, scevro da ogni forma di egoismo. Questo richiede un attento discernimento, perché spesso le trasformazioni imposte non giungono mai a buon fine e spesso si cambia per quieto vivere, non per la convinzione profonda che quanto mi è proposto dall’amore dell’altro è per il mio bene. Abbiamo bisogno della luce di Dio e della grazia di una amore puro, per attuare quella trasformazione che solo il Signore può operare nella nostra vita.

Nel già e non ancora

La figliolanza divina, dono dell’amore del Padre, in noi è reale, non apparente. Veramente siamo figli di Dio, ci insegna Giovanni, perché “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Continua, infatti, è l’effusione dell’amore del Padre in noi ed è questa la forza che ci conduce ad osservare i comandamenti e a vivere nella speranza della gloria futura. Scrive l’Apostolo “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (v. 2). Il dono della figliolanza è caparra di eternità per noi, siamo destinati al cielo, ad essere come Lui, a vivere nell’amore per sempre, a contemplare il suo volto di luce. La meditazione delle realtà future non deve però condurci ad estraniarci dalla storia, perché questo è il contrario di quanto Giovanni indica alle comunità dell’Asia. Il cristiano vive con i piedi ben fissi in terra, nella consapevolezza che il contesto nel quale vive gli è ostile. “Per questo il mondo non ci conosce – scrive sempre l’Apostolo – perché non ha conosciuto lui” (v. 1). Il mondo – con questo termine Giovanni indica la realtà avversa a Dio, che non lo riconosce e lo rifiuta, in maniera deliberata – non ci riconosce come figli del Padre, perché non ha conosciuto la sorgente della figliolanza, che è l’amore. Chi non conosce Cristo come rivelazione dell’amore misericordioso del Padre, come può accogliere coloro che trovano nell’amore suo la sorgente della propria identità e la forza della trasformazione personale?

Dobbiamo avere consapevolezza che siamo un piccolo gregge, chiamati a donare ai fratelli, ai quali spesso Cristo non sembra dire nulla, la speranza che abita il nostro cuore, la gioia della fede, la carità che lo Spirito fa abitare nei nostri cuori. Non dobbiamo aver paura di essere avversati e di vivere incompresi. Gesù ci ha preparato a questo “Ricordatevi della parola che io vi ho detto: “Un servo non è più grande del suo padrone”. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,20). Tante volte viviamo nella paura del confronto e ci rifugiamo nella cerchia delle persone che la pensano come noi e non ci accorgiamo che, proprio in quei momenti, non siamo lievito nella massa e luce del mondo. Cerchiamo contesti sicuri e non viviamo in avanguardia la bellezza della testimonianza e la sfida dell’essere credenti sulla breccia. L’espressione “il mondo non ci conosce, perché non ha conosciuto lui” significa che il mondo riconosce le persone che gli appartengono – i figli di questo mondo – mentre rifiuta i figli della luce. Questi sono coloro che, animati dallo Spirito di Cristo, vivono come Lui, lasciano libero spazio al suo Spirito e sono protesi a fare della propria vita un’offerta ai fratelli. Noi a chi apparteniamo, a Cristo o a mammona? Di chi siamo discepoli del Crocifisso o del menzognero fin dal principio? Il mondo si riconosce nelle nostre azioni oppure ci considera contrari, perché Cristo ha posto in noi la sua dimora? Seguiamo l’Agnello dovunque va oppure ci lasciamo ammaliati dalle voci della mondanità, che ci spingono a non tenere fisso lo sguardo su Cristo, per imparare da Lui, a prendere il suo giogo soave ed il suo carico leggero?

Guardando oggi al mistero della Santa Famiglia, dobbiamo chiedere al Signore la grazia di appartenere a Lui solo e di far trasparire in noi la potenza della sua grazia. Non fu questo l’impegno di Maria e di Giuseppe nell’accogliere il Verbo fatto carne? È necessario seguire Gesù nella sua Incarnazione e allontanarci da tutto ciò che non è gradito ai suoi occhi. Solo così le nostre famiglie saranno lo specchio delle virtù e dell’amore della casa di Nazaret, nella quale regna sovrana la volontà di Dio ed i suoi comandamenti sono osservati come strada di libertà e di gioia.




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



ANNUNCIO

ANNUNCIO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.