Epifania del Signore – Anno C – 6 gennaio 2019

L’amore è un mistero di conoscenza perché “se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa”

Natività

di fra Vincenzo Ippolito

La solennità dell’Epifania, la manifestazione di Gesù ai Magi e, in essi, a tutte le genti, esprime proprio il desiderio di Dio di farsi conoscere, perché l’amore desidera manifestarsi per il bene dell’altro, perché, sentendosi amato, l’uomo possa vivere nell’amore e aprirsi al dono.

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (3,2-3a.5-6)
Ora è stato rivelato che tutte le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità.
Fratelli, penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero.
Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo.

La coincidenza di questa domenica con la solennità dell’Epifania ci porta a mettere da parte per quest’anno la liturgia della II Domenica dopo Natale, per contemplare il mistero della manifestazione di Gesù ai gentili. Nei Magi che giungono dall’Oriente sono, infatti, rappresentati tutti i popoli della terra, che riconoscono nel Figlio di Maria, il Re dei re, il nostro Dio venuto sulla terra per essere, da vero uomo, il salvatore del mondo. La liturgia della Parola sviluppa proprio il tema dell’universalità della salvezza. La Prima Lettura ci presenta la profezia di Isaia sui popoli che conosceranno il Signore e su Gerusalemme che accoglierà tutte le genti. Il Vangelo ci presenta il cammino dei Magi, un itinerario non semplice che conosce il buio e la cattiveria di Erode, ma che giunge a buon fine con la guida della Scrittura, che conferma il segno della stella. Paolo, nella Seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Efesini (3,2-3a.5-6), mostra come “le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo.

Anche noi siamo chiamati ad entrare come i Magi, nel mistero di Dio che si rivela nel suo Figlio Gesù, ma per fare questo è necessario mettersi in marcia e avere il coraggio di vivere l’avventura della fede, senza paura. Solo così la nascita del Signore ci condurrà a cambiare strada, come i Magi, per testimoniare la straordinarietà dell’incontro con il Dio venuto nella nostra carne.

Una grazia che ci sovrasta 

La Lettera agli Efesini appartiene alle cosiddette epistole della prigionia, quel gruppo di scritti  composto in uno dei periodi nei quali l’Apostolo si trova in catene per il Vangelo (cf. Ef 3,1; 4,1; 6,20). Secondo gli ultimi studi, Paolo scriverebbe da Roma, tra il 61 e il 63, un’accorata epistola ai fedeli di Efeso per guidare la maturità del loro cammino di fede e spronarli ad un fattivo impegno nel considerare la Chiesa quale corpo di Cristo presente nella storia. I tre cantici che Paolo intervalla nel corso del suo argomentare (cf. Ef 1,4-14; 1,20-23; 2,14-18) presentano il primato universale di Cristo, che determina nei credenti la consapevolezza di essere “concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19). Difatti, in sei capitoli la riflessione sviluppa la vita nuova in Cristo che il credente è chiamato ad accogliere, vivere e testimoniare, in una condotta santa di vita, nella forza dello Spirito che il Risorto effonde nella sua Chiesa.

Il brano liturgico odierno (3,2-3a.5-6) unisce alcuni versetti del capitolo terzo, saltando quelli di carattere autobiografico (3b-4), importanti per comprendere il periodo di composizione dell’epistola. Paolo, “prigioniero di Cristo” (3,1) desidera ribadire la grazia del ministero che esercita a favore dei gentili e, con uno stile scandito da delicatezza e rispetto, sente di dover richiamare i suoi a contemplare come la potenza di Dio li raggiunga, attraverso Cristo, che invia i suoi apostoli a rendere viva ed efficace l’annuncio della salvezza. “Per questo io, Paolo, il prigioniero di Cristo per voi pagani, penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore” (vv. 1-2). L’Apostolo non impone la sua autorità alla comunità cui si rivolge, ma preferisce usare toni più pacati, perché l’umiltà è la regina delle virtù e genera il bene più di quanto si possa immaginare. A che serve, infatti, usare della propria autorità, affermare se stessi, ricordare il ruolo che si esercita? Può anche essere fatto con le migliori intenzioni, ma non sempre l’altro percepisce il bene che si desidera. Paolo, invece, preferisce battere la strada di Cristo, quella della povertà scelta come modalità principale, dell’umiltà assunta come stile, della dolcezza abbracciata come modo di comunicare. Bandire atteggiamenti superbi, non aver paura di essere umili, guardare alla modalità che meglio possa esprimere le nostre intenzioni, scegliere le parole che manifestano i nostri desideri, è questo che dobbiamo pensare ed attuare nella nostra vita. Talvolta le parole, invece di costruire, possono distruggere, al posto di edificare, minare alle radici i nostri rapporti. È importante come ci rivolgiamo agli altri. Le persone che ci sono accanto non devono percepire quello che non c’è nelle nostre intenzioni, per questo è bene imprimere alle parole, ai toni usati, persino al timbro della voce e all’espressione del volto quella dolcezza che, lungi dall’essere formalità, conduce l’altro ad essere accolto e ad accogliere con gioia la persona  e la parola che sta per parlare. Questo perché, bisogna ricordarlo, accogliamo di buon grado le parole delle persone che si rivolgono a noi con benevolenza e che non avvertiamo né violente né pretestuose. Dobbiamo bandire da noi la saccenteria del sapere tutto e la superbia di voler indicare la strada migliore per gli altri. Non abbiamo in tasca la verità e, anche quanto abbiamo qualcosa da dire, non deve mai sembrare che ciò che stiamo per dire è la via della giustizia e della salvezza, perché non è così. Siamo servi della verità, non padroni del bene che Dio affida a noi, in favore delle persone che ci sono accanto. Quanto sono importanti le parole ed i toni in ogni comunicazione, perché, talvolta, non si accoglie quanto ci viene detto, perché avvertiamo maggiormente la superbia con cui ci vengono dette le cose e, così facendo, la modalità attuata, fa perdere il gusto delle cose da accogliere. Per questo Paolo scrive, consumato nel cuore da un amore umile, che ricerca il bene e che mostra come si stupisce della scelta che Dio ha fatto, nell’eleggere apostolo delle genti. Scrive quasi denigrandosi “penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore”. Si tratta di uno stile che caratterizza il suo dire, se già nella Seconda Lettera ai Corinzi aveva scritto “Conoscete, infatti, la grazia del Signore nostro Gesù Cristo” (8,9) e ancor prima aveva detto “Voglio rendervi noto, fratelli, la grazia di Dio concessa alle Chiese della Macedonia” (2Cor 8,1). Nessuna superbia, quanto, invece, la grazia dell’umiltà nel parlare, mai la presunzione di insegnare, ma la gioia del ricordare l’opera straordinaria che la grazia compie in quanti la accolgono con gioia. Eppure Paolo sta parlando di sé, ma con quale distacco! Sta guardando al ministero che egli esercita nel nome di Cristo, ma senza vanto né appropriazione!

Se riuscissimo anche noi a parlare con tenerezza, ad accogliere con benevolenza, ad esprimerci senza usare violenza o far nascere diffidenza nel cuore dell’altro. Solo l’umiltà del parlare apre il cuore all’accoglienza e la semplicità dell’esprimersi crea le condizioni per un dialogo fruttuoso ed una condivisone autentica. Nella comunicazione i contenuti sono importanti, ma altrettanto significativa è la modalità con cui si trasmettono le cose. Si possono dire le cose più belle, ma se manchiamo di grazia e di amore, tutto è vano.

Amministratori del mistero della grazia

La pacatezza del dire dell’Apostolo rende gli Efesini più accoglienti nei suoi riguardi. Non potrebbe essere altrimenti. Ciò che egli sta per dire riguarda la sua vita e deve stare attento, dal momento che potrebbe essere tacciato di superbia e presunzione. L’umiltà, infatti, è maggiormente da esercitare, quando il discorso ci riguarda, perché gli altri devono comprendere, attraverso il nostro distacco, che il cuore della comunicazione non è l’affermazione di noi stessi o del nostro ruolo, ma del vero bene che Dio trasmette, attraverso la nostra testimonianza.

Paolo introduce il tema da sviluppare, condensandolo nell’espressione “il ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore” (v. 2b). Se scorriamo le vari epistole, ci rendiamo conto della consapevolezza che l’Apostolo ha della vocazione che ha ricevuto da Dio e che fa nascere in lui, unitamente alla lode e al ringraziamento, un vivo senso di responsabilità, nei riguardi della comunità a lui affidate. Nel salutare i Romani si definisce “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il Vangelo di Dio” (Rm 1,1), e scrivendo a Timoteo parla di sé come “messaggero ed apostolo […] maestro dei pagani nella fede e nella verità” (1Tm 2,7), mentre ai Corinzi confida “avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo” (2Cor 4,1). Egli, infatti, avverte che Dio “ci ha resi ministri di una nuova alleanza” (2Cor 3,6), affidando loro “il ministero della riconciliazione” (2Cor 5,18). Non basta avere dei carismi da parte di Dio, bisogna esserne coscienti, riconoscendo che è il Signore la sorgente di ogni dono. È quello che fa Paolo, da una parte riconosce la grazia che gli è stata usata, dall’altro sa che il dono gratuitamente a lui elargito, non è per lui, ma per gli altri. La consapevolezza del proprio essere servo sta proprio nel comprendere che ricevo da Dio la mia identità e questa mi definisce non solo per quello che sono chiamato ad essere dinanzi a Dio, ma anche dinanzi agli altri. La grazia che il Signore concede, il suo amore elettivo, capace di trasformare la nostra vita e di renderci trasparenza della sua misericordia tra gli uomini, è per gli altri. La grazia ci proietta verso i fratelli e ci dona di scoprire che siamo per gli altri e che la nostra vita deve essere consegnata ai fratelli, perché la nostra vita non ha un senso per noi, se non nell’attuare il medesimo servizio che Dio che ha scandito la vita di Gesù, il servo del Signore, che non ha ricusato di farsi nostro schiavo. Paolo ha ricevuto “il ministero della grazia”, la grazia del ministero, il servizio come dono. Il ministero nella Chiesa è una grazia, un dono gratuito di Dio, non un diritto di cui qualcuno possa appropriarsi. L’Apostolo entra nel mistero della gratuità di Dio, attraverso Cristo e sa che, per chi vive di Dio, ogni cosa è segno del suo amore e della sua grazia, della gratuità del suo amore. In tal modo, anche la vita diventa un dono da condividere con i fratelli, perché se io percepisco che la mia vita è un dono, imparerò da Cristo a non tenerlo per me, ma a condividerlo con gli altri. Il carisma che Paolo ha ricevuto è la capacità del dono, sa di non appartenersi come ministro e, dietro Cristo, mette la sua vita a disposizione dei fratelli, perché entrino nell’amore di Dio e sperimentino la gratuità del suo dono incommensurabile. Egli non è padrone del dono, ma depositario, amministratore di una multiforme grazia. Per questo dice “il ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore”. La chiamata di Dio è una grazia che ci è affidata, una possibilità immeritata, segno della fiducia che Dio ci accorda, del suo amore che nessuno può dire che ottenere per le sue opere. La grazia ci è affidata per gli altri, non possiamo tenerla per noi, come il presbitero vede moltiplicarsi nelle sue mani la grazia dell’Eucaristia e la potenza delle Parola divina sulle sue labbra, così gli sposi contemplano in sé stessi il mistero della vita, di cui non si possono dire padroni, ma servi per gli bene degli altri.

Dobbiamo oggi riscoprire tanto la verità del servizio come senso del nostro essere cristiani, come anche la gratuità del dono che Dio ci ha affida per gli altri. Per questo l’Apostolo può dire “In nome di Cristo, noi siamo ambasciatori” (2Cor 6,20), sa che Cristo si serve e vuol servirsi di lui, per far giungere la sua parola ai fratelli. È importante sentire la bellezza e la responsabilità della ministerialità domestica per i propri figli e per la persona che Dio ci ha posto accanto e la responsabilità ministeriale, come guide e padri di una comunità cristiana. Difatti, essere ministro e servo è il senso di ogni vocazione nella vita ecclesiale, come nella comunità domestica. Siamo servi e, come servi, siamo chiamati a mettere la nostra vita a disposizione degli altri, senza nulla pretendere, sapendo che, quando avremo fatto ciò che dovevamo fare, dobbiamo confessare di essere solo dei servi inutili (cf. Lc 17,10).

Partecipare al mistero di Dio, per la grazia della rivelazione

Quando comunemente parliamo di mistero, indichiamo una realtà oscura, inconoscibile, che, in quanto tale, possiamo solo cercare di comprendere, ma che non sarà mai perfettamente e compiutamente da noi posseduta, con la mente ed il cuore. Paolo, invece, quando parla di mistero indica il disegno del Padre, rivelatosi in Gesù Cristo, la vita divina che ci è partecipata per puro dono di grazia, così da vivere da figli e fratelli tra noi. Noi conosciamo il mistero di Dio, attraverso Gesù, “il mediatore tra Dio e gli uomini” ( 1Tm 2,5), “l’immagine visibile del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura” (Col 1,15). Solo in Cristo ci è aperto il mistero del Padre e, nella sua Pasqua, conosciamo quanto grande sia l’amore che egli nutre per noi. L’Apostolo scrive “per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero” (v. 3). Con questa espressione, Paolo sta indicando che si può accedere a Dio, per conoscerlo così come Egli è, solo attraverso la via della rivelazione. Conoscere Dio è una grazia che Cristo concede, nella potenza della sua misericordia. Chi incontra Gesù, ha libero accesso al mistero del Padre e guarda la realtà con occhi completamente diversi, perché tutto diviene segno della provvidente cura e dell’amore elettivo che il Padre ha per noi. Siamo chiamati ad entrare nelle insondabili ricchezze di Dio, attraverso la rivelazione che Gesù ci fa del Padre. È Lui stesso ad affermarlo “Nessuno conosce il Figlio, se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27). Non giungiamo a Dio con le nostre forze, possiamo, attraverso le creature risalire a Dio, ma non all’amore increato, alla potenza della vita, alla grazia della misericordia che Gesù ci dona, perché le capacità umane giungono all’idea di Dio, non alla realtà del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Si giunge al vero Dio, contempliamo il suo volto, ci inabissiamo nell’oceano del suo amore, viviamo della misericordia che Egli con larghezza ci dona, solo se ci apriamo alla testimonianza di Cristo, ci lasciamo plasmare dalla sua voce, condurre dalla sua mano, illuminare dalla sua luce, formare, nella mente e nel cuore, dalla grazia divina. Le facoltà umane, per quanto siano un dono di Dio, non riescono a superare il limite della creaturalità. Noi, infatti, cozziamo contro il muro dell’inconoscibile e lì rimaniamo, se non è Dio a venirci incontro, determinando la nostra conoscenza e spingendoci oltre il velo del mistero.

Paolo riconosce che la conoscenza che Egli ha di Dio e del suo amore passa attraverso la rivelazione di Cristo, che gli è apparso sulla via di Damasco. È l’esperienza il luogo nel quale ci lasciamo incontrare da Dio, la nostra storia è il terreno nel quale Dio ci viene incontro con il suo amore e ci rivela il volto della sua misericordia. Non possiamo fuggire dallo spazio e dal tempo, perché lì il Signore ci viene a visitare, determinando un corso nuovo della nostra vita. Non è accaduto così per Maria e Giuseppe, per i pastori ed i magi? Non siamo noi che possiamo andare verso Dio, ma è Lui, che, amandoci per primo (cf. 1Gv 4,19), si fa conoscere e ci apre la sua vita, perché divenga il senso e l’orizzonte della nostra vita. Il Signore continuamente si rivela, ci mostra in mille modi che Lui ci ama e che vuole vivere con noi, determinando un corso nuovo per la nostra esistenza. Con umiltà, dobbiamo riconoscere che abbiamo bisogno di Dio e della sua grazia, sia per conoscere Lui sia anche per conoscere noi stessi ed il groviglio del cuore nostro, abbiamo bisogno del suo raggiungerci, perché “se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1), per non rischiare di raggiungere la nostra Emmaus, senza che sia Lui, sconosciuto Viandante, ad aprire l’intelligenza delle Scritture e a donarci la luce per vedere ogni cosa, secondo Dio. Il Signore si rivela nell’angelo ai pastori e nella stella per i magi, nelle mille occasioni della nostra vita, ma, per incontrare Dio che viene, la sua misericordia che ci raggiunge è necessario accogliere Lui e lasciare che ci parli, come a Lui piace e vuole. L’Apostolo sa che parlare di rivelazione significa affermare il primato di Dio, che la sua volontà di raggiungerci previene il nostro desiderio di Lui. Egli vive nella grazia della rivelazione e nello stupore di vedere che Gesù mai lo abbandona, ma cammina con lui, agisce ed opera con potenza nella sua vita, totalmente consegnata alla sua volontà.

Anche la conoscenza tra noi è un mistero di rivelazione. Io non posso, con le mie sole forze, entrare nella vita e nel cuore della persona che amo, se non ricevo da lei la possibilità di conoscerla. Da parte sua l’altro/a, non si aprirà a me, se non si sentirà amato ed accolto, in maniera totale ed incondizionata. L’amore è un mistero di conoscenza, per rivelazione, l’amore mi porta a rivelare chi sono, anche nella difficoltà del peccato e dell’incomprensione di ciò che mi porto nel cuore, perché affidandomi a chi amo, riceverò la chiave per ricomprendermi, sotto la luce di Dio e di guardarmi con rinnovata misericordia. Se alla base non c’è un amore grande, un trasporto di affetto profondo, la conoscenza sarà sempre formale, la condivisone marginale, lo sguardo mai permetterà all’altro di leggermi dentro e di entrare nel cuore, condividendone i pesi. I nostri rapporti devono essere scanditi dalla volontà di rivelarsi per amore, di consegnarsi per affetto, di aprirsi senza difficoltà, perché l’altro vuole il mio bene e lo persegue con determinazione. Dobbiamo crescere nella consapevolezza che la conoscenza è una possibilità da offrire sempre, perché la persona amata conosce di noi ciò che noi gli permettiamo di scoprire, lasciandoci amare. È, infatti, l’amore che spinge alla conoscenza e motiva il dono di sé, per questo è necessario imparare a tenere a bada la paura di mostrarsi nella fragilità e nel limite, gettando la maschera, perché la sincerità e l’autenticità rendono vera la rivelazione e nutrono la conoscenza delle profondità del cuore. Si tratta di un cammino lento e delicato, perché non è semplice farsi conoscere, ma solo la costanza e la pazienza, come nel caso dei Magi, ci conduce, sotto la guida di Dio, alla meta desiderata, al porto sospirato e spesso solo intravisto da lontano.

Una salvezza per tutti i popoli

Il contenuto della rivelazione che Dio ha fatto conoscere a Paolo è l’universalità della salvezza, l’amore suo che vuol raggiungere ogni uomo. Scrive l’Apostolo, con grande consapevolezza, “le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo” (v. 6). La solennità dell’Epifania, la manifestazione di Gesù ai Magi e, in essi, a tutte le genti, esprime proprio il desiderio di Dio di farsi conoscere, perché l’amore desidera manifestarsi per il bene dell’altro, perché, sentendosi amato, l’uomo possa vivere nell’amore e aprirsi al dono. In Cristo Gesù, tutti sono chiamati, visto che non c’è differenza “tra giudeo o greco, schiavo o libero” (v. 9), visto che Dio non fa preferenza di persona, ma chiama tutti alla comunione con Lui, attraverso l’annuncio della salvezza. L’amore di Cristo è per tutti ed il suo amore è condivisione, forma la comunione e dona di partecipare alla promessa del Vangelo. Dobbiamo chiedere che l’amore nostro, come mistero di rivelazione, sia modellato su quello di Gesù, che ci spinga a condividere ciò che siamo ed abbiamo, a formare in cuor solo ed un’anima sola, a vedere tra noi come il Vangelo è promessa di bene, che fa nuove tutte le cose.




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